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Autore: shana8998    13/04/2024    0 recensioni
Aka era malata quando sua madre, la dottoressa Claire Sullivan, ideò il vaccino Aka-747 che avrebbe debellato il cancro dalla faccia della terra. Ma qualcosa è andato storto e quel vaccino sintetizzato sulle tracce del DNA della ragazza ha sviluppato un ceppo resistente che ha trasformato l’intera popolazione mondiale in mostri. Quando sua madre viene accusata di aver commesso un crimine contro l’umanità, arrestata e poi giustiziata, il consiglio della Palizzata decide di incarcerare anche sua figlia etichettandola come arma batteriologica.
A capo della Palizzata c’è il Generale,vecchio amico della dottoressa che, per ritardare la condanna a morte di Aka, tenta di studiarne il DNA cercando una cura.
Dopo un anno però, l’intero consiglio lo mette nuovamente alle strette: la morte di Aka o l’espulsione dalla Palizzata per entrambi. Le scorte di cibo scarseggiano, la criminalità all’interno del rifugio è alle stelle, non c’è altra soluzione: Aka e diciannove detenuti devono essere espulsi.
Riusciranno a sopravvivere all’inferno?
Genere: Horror, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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1.   Aka.



 

Aka guardò in alto oltre la sua fronte, fuori dalle sbarre della sua cella e restò in attesa. Di lì a poco il tintinnio dell’armatura di Wesley le sarebbe arrivato alle orecchie. Posò le mani attorno alla grata di ferro e si mise sulle punte dei piedi. Solo dopo pochi attimi l’ombra della guardia le si piazzò davanti ombreggiando il suo viso. 

La mano di Wesley sfiorò le sue.

«Ehi…».

Quella mattina non le sorrideva come era solito fare.

Il suo sguardo era mesto e marcava un’espressione contrita.

«Hai fame?», le chiese.

Lei annuì.

Wesley tirò fuori dal suo borsello un pezzo di stoffa piegato in più parti e glielo porse.

Pane e un paio di tranci di mela.

Lo stomaco di Aka brontolò rumorosamente e senza farselo dire due volte, si avventò famelicamente sul cibo riempiendosi la bocca così velocemente da togliersi quasi il fiato.

Wesley restò accovacciato nell'erba ad osservarla dall’alto mentre mangiava cucciata sul suo giaciglio. Se avesse potuto le avrebbe accarezzato la testa. Voleva bene a quella ragazza anche se sapeva che quel sentimento era sbagliato. Strinse un pugno d’erba fra le dita, aveva il groppo in gola. Quello che aveva saputo gli stava spappolando il cervello.

 Ad un certo punto non riuscì più a trattenersi e parlò «Aka-».

La ragazza non sembrò ascoltarlo, troppo concentrata a divorare il pezzo di pane. Wesley fu costretto ad alzare la voce per catturare la sua attenzione. «Aka, devi ascoltarmi», le disse, «Esco appena adesso dalla seduta del consiglio, domani venti detenuti saranno giustiziati-».

A Wesley tiravano i capillari nelle sclere ma si impedì di piangere. «-e fra questi ci sei anche tu.»

Con lo sguardo inchiodato alla punta degli stivali della guardia, Aka si fece forza in attesa dell'inevitabile ondata di panico, ma quando lasciò andare il tozzo di pane e si sollevò dal suo giaciglio, provò invece uno strano sollievo.

 “Finalmente è finita” si disse tremando appena.

Si aggrappò alle sbarre, la fronte premuta contro la terra fredda che faceva capolino dall’unico spiraglio in quella cella. “E’ finita”. Pianse. 

«Ho provato ad oppormi.», le disse Wesley con la voce tremante.

“E’ finita” continuò a ripetersi senza ascoltarlo.

Il pianto le si tramutò in singhiozzi a pieni polmoni con le guance che le andavano a fuoco per le lacrime. Finalmente era finita.

Aka non era mai sola. Sentiva voci dappertutto. La chiamavano dagli angoli più bui della sua cella. Riempivano il silenzio fra un battito del cuore e l’altro. Gridavano dai più profondi recessi della sua mente. Non desiderava la morte, ma se quello era l’unico modo per mettere a tacere le voci, allora era pronta a morire.

 Era stata condannata per alto tradimento, ma la verità era peggiore di quanto si potesse immaginare.

«Non verrò assolta in appello, vero?», represse un singulto e tossì.

«No, non questa volta.»

Wesley si schiarì la voce, stava piangendo in silenzio anche lui, «Mi dispiace Aka…Non hai idea di quanto mi dispiaccia.» Le strinse la mano attorno alla sua. A quel punto non riusciva più a guardarla.

Aka avrebbe voluto rispondere qualcosa a quel ragazzo in lacrime nel tentativo di consolarlo ma faticò a trovare le parole. Lei era sollevata, quello era un pianto liberatorio, lacrime che non le scorrevano sul viso da molto tempo.

«Andrà tutto bene, Wesley.»

«Bene? Domani verrai giustiziata Aka! Giustiziata!»

«Lo so.»

Lei tentò di sorridergli.

«Ma…Pensaci Wesley, sono mesi che mi tengono qui dentro. Le guardie dimenticano persino di portarmi da mangiare, se non fosse stato per te, io a quest’ora sarei già morta. Non è così che doveva andare a finire ma se questo è l’unico modo per essere libera, allora sono pronta.»

«Ci deve essere un’altra soluzione.», Wesley afferrò di colpo le sue mani, non poteva fare a meno di quel contatto. 

«Non c’è e lo sai perfettamente anche tu. Tuo padre, il Generale, non è riuscito a trovare una cura. Il mio sangue non basta e sappiamo entrambi che è per colpa mia e di mia madre se il mondo è un cumulo di macerie a cielo aperto.»

«Di tua madre, non tua.», obiettò con fermezza.

Aka schiuse le labbra, forse avrebbe voluto aggiungere qualcosa ma non lo fece. Lasciò scivolare via le sue mani dalle sbarre e fece un passo indietro, verso il buio della sua cella.

Riusciva ancora a vedere Wesley. Gli occhi rossi, le guance umide, il dolore sul volto. Per un solo istante, rammentò ogni singolo momento trascorso dentro la sua cella e in ogni frammento di ricordo, si rese conto, c’era sempre stato lui. Wesley e la sua voce oltre le sbarre. Wesley e la mela con il tozzo di pane per colazione. Wesley con la coperta di lana per superare l’ennesima notte trascorsa a morire dentro quel buco dimenticato da Dio.

Chissà perché, nonostante lei fosse la responsabile di tutto quello che era capitato al mondo, lui era sempre stato lì a proteggerla. Aka se l’era sempre domandato.

«Grazie di tutto quello che hai fatto per me Wesley-», deglutì «adesso sei libero.»

«Aka…Aka!».

Fece un altro passo indietro, fino a che il buio non la inghiottì del tutto.

Non avrebbe mai dimenticato quel soldato.

                                                                                             *****

La porta di ferro si aprì e Aka capì che era giunta la sua ora.

Una delle guardie del rifugio si schiarì la voce e spostò il peso da un piede all’altro «Detenuta 747, in piedi.».

L’uomo di mezza età sfilò un paio di manette dalla sua cintura e separò l’ingranaggio di apertura. 

«I polsi.»

 Quando il ferro le sfiorò la pelle rovente rabbrividì. Doveva avere la febbre, ne era certa. Erano giorni che continuava a tossire e qualche volta le mancava persino l’aria. Tentennò sui suoi stessi passi mentre l’uomo la invitava con tono severo a camminare verso l’uscita della cella.

«Riesci a stare in piedi?», domandò lui, il tono brusco venato da una nota di compassione che le strinse il cuore.

Rispose di sì con la testa.

Aka si trascinò sui piedi lungo un corridoio che le sembrò sconosciuto. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che lo aveva attraversato che stentava a ricordarne le fattezze. C’era odore di putrido, di muffa e sul pavimento scorreva acqua scura come la pece.

Fogne, era certa che il condotto dell’acqua sfociasse proprio lì sotto. 

A ogni modo, quel tanfo le stava bruciando le narici solo allora. Il Generale si era ben assicurato che la sua cella fosse la più remota di tutta la prigione e in un certo qual senso anche la più riparata, così che Aka fosse rimasta in vita fino alla fine del processo.

Un’ennesima punizione meritata per quello che lei e sua madre avevano causato all’umanità.

La guardia tirò con forza la leva metallica sulla porta stagno e la spalancò.

Nello stesso preciso istante Aka venne investita da una brezza prepotente, aria gelida che le gonfiò i polmoni fino a farle male.

Poteva vedere l’erba e la palizzata, il cielo scuro e la pioggia che le si stava rovesciando copiosamente addosso.

Sollevò lo sguardo. Stava sorridendo come una pazza. Quella pazza che sentiva le voci, la cui madre visionaria aveva ideato un siero che avrebbe dovuto debellare per sempre il cancro.

Il vaccino Aka-747, lo stesso siero che aveva sterminato più della metà della popolazione terrestre.

Il vaccino creato sulla traccia genetica del suo DNA.

Aka era malata e quel vaccino sintetizzato con il suo sangue si era rivelato un’arma batteriologica.

«Va al centro. Il Generale sta arrivando.» Lei tornò ad abbassare lo sguardo allo spiazzo di terra che divideva l’ingresso della prigione dai cancelli.

«Hanno intenzione di farlo qui?» domandò con un filo di voce, come se le sue stesse parole le avessero seccato la gola. Se il Generale in persona stava per arrivare allora significava che Wesley aveva detto la verità, non ci sarebbe stato nessun processo di appello. Tutto sommato le circostanze non avrebbero dovuto sorprenderla. Secondo le leggi del rifugio, chiunque poteva essere giustiziato subito dopo l’arresto. Tuttavia a lei era stata data l’opportunità di un secondo processo in appello, una prigionia prolungata, un trattamento di favore se si prendeva in considerazione il fatto che molti erano stati giustiziati senza processo per crimini che, fino a qualche tempo prima, sarebbero stati perdonati.

A ogni modo stentava ancora a credere che lo avrebbero fatto lì, al centro del campo, davanti alle porte del rifugio e a centinaia di sopravvissuti.

In fondo, pur essendo un desiderio malsano, aveva sperato in un’ultima visita alla tomba di sua madre. Avrebbe voluto chiederle cosa era andato storto durante le sue ricerche, e tante, tantissime altre cose nel vano tentativo di zittire quelle voci.

Aka si era inoculata quel siero, eppure, a differenza di migliaia di persone era ancora viva. Perché?

Trascinò i piedi nell’erba e raggiunse il punto indicato dalla guardia.

Restò in attesa di vedere la figura del Generale stagliarsi davanti a lei, rabbrividendo per il freddo, contraendo ogni muscolo per i dolori che da poco la stavano percuotendo.

Strinse i denti nel vano tentativo di reggersi ancora per qualche istante sulle sue gambe ma cadde in ginocchio.

Aveva bisogno della sua iniezione, subito.

Non ebbe la percezione di quanto tempo fosse passato da quando l’avevano portata lì, ma le sembrò fosse passata un’eternità prima che riuscisse ad intravedere quella sagoma a lei famigliare. 

Aka non aveva bisogno di un distintivo per riconoscere il Generale. Aveva passato gran parte dell’anno precedente con lui e suo figlio Wesley nella sala del consiglio, esaminata come fosse una cavia da laboratorio.

Be’, in fin dei conti forse era proprio questo. Una cavia.

Lo era stata da sempre, già da quando sua madre aveva deciso di farle quell’iniezione.

Il Generale la raggiunse e si chinò alla sua altezza. Posò una mano sulla sua spalla bagnata «Come stai?».

«Meglio di come starò tra qualche minuto, immagino.»

Di solito il Generale sorrideva all’irriverenza di Aka e alle sue battute sarcastiche, ma stavolta la sua mascella si contrasse.

«Potete toglierle le manette e lasciarci soli per un momento, per favore?».

Una delle guardie, quella che l’aveva trascinata lì, esitò a disagio. «Potrebbe aggredirla.»

«Non lo farà».

«Ma Generale…».

«Ho detto che non lo farà. Le manette, per favore.»

Il Generale mantenne lo sguardo paterno su Aka che in quel momento non sapeva bene cosa provare. Tutte le altre persone attorno a loro la scrutavano con disprezzo e una vena di terrore gli incrinava le labbra ogni qualvolta i suoi occhi capitolavano sul loro volto.

La guardia evitò lo sguardo di Aka mentre le liberava i polsi. Rivolse un cenno al Generale e si allontanò di qualche metro assieme al corpo militare.

«Non sono riuscito ad oppormi, Aka. La gente vuole giustizia e non ha intenzione di aspettare ancora una cura che, con molta probabilità, non salterà mai fuori.»

Il cuore di Aka vibrò.

«Abbiamo analizzato il tuo sangue un milione di volte, fatto test, raccolto campioni di ogni genere. La cura non c’è.»

Un tuono spezzò il brusio della pioggia e per un solo istante, tutto attorno a lei si cristallizzò.

“La cura non c’è”. Le uniche parole che le rimbombavano nella cassa cranica.

«Non c’è…La cura non c’è.», mormorò.

«Non è possibile, Generale. Ha controllato gli appunti di mia madre? Ci deve essere per forza una soluzione.»

Il Generale le accarezzò il viso.

«Mi dispiace Aka.»

Strinse l’erba fra le dita. Voleva piangere in quel momento ma non riusciva a farlo.

Aka lo aveva già compreso da quando Wesley le aveva annunciato la sua esecuzione. Non c’era una cura, non ci sarebbe mai stata. Sentirlo dire ad alta voce e con fermezza però aveva tutto un altro significato.

«Il consiglio ha stabilito la pena capitale, ma molti si sono opposti. Morire con un colpo di fucile, a quanto pare, non è abbastanza.»

Il Generale la scrutò con estremo rammarico.

«Non appena sorgerà l'alba venti prigionieri verrano costretti ad abbandonare il rifugio.».

Aka rivalutò, esattamente in quell’istante, l’idea del colpo di fucile. Una morte degna se paragonata all'uscita dalla Palizzata. Ma c’era un problema più grande che le opprimeva il petto: si stava trasformando. Se nessuno le avesse dato il siero nell'immediatezza, di lì a breve, sarebbe diventata come quelle creature che aveva visto impazzire, smembrando i suoi cari, e che ora infestavano le strade della sua città. Aka non era morta dopo l’inoculazione del siero ma come molti, il suo DNA era mutato. Per alcuni si era trattato di una mutazione irreversibile, per lei, in qualcosa che stentava a controllare.

«Immagino che liberare quelle persone assieme a me stia a significare la loro condanna a morte, non è così? Io sono pericolosa, lo hai detto tu.».

Il Generale abbassò lo sguardo «Non farai del male a quelle persone, non hai mai fatto del male a nessuno qui dentro.»

«Perché continui a mentire...Sai perfettamente che senza siero non andrà così, è già successo una volta.»

A quel punto, il Generale tirò fuori dalla tasca una manciata di fiale e una siringa.

«Nascondile e quando apriranno i cancelli corri, corri più veloce che puoi. Vai verso il confine della città, lì sarai libera.»

Aka fissò le fiale nella mano dell’uomo.

«E’ tutto quello che posso fare per te, adesso.»

Esitò per un istante ma poi le raccolse e se le infilò nella tasca del jeans logoro che indossava.

«Prenditi cura di te, Aka.»

Il Generale si sollevò da terra e raggiunse il resto della folla che si era accalcata alle porte del grande palazzo rettangolare che dal giorno zero era diventato la loro fortezza.

«Portate gli altri prigionieri.», ordinò un attimo dopo.

All’improvviso fu tutto più chiaro. Non sarebbe stata uccisa, sarebbe stata utilizzata come arma per uccidere i detenuti del rifugio di lì in avanti.

Nessuno l’avrebbe giustiziata sparandole un colpo al cuore, lei non sarebbe mai stata libera. Lei sarebbe stata il proiettile.

«Uccidete il mostro!»

«A morte!».

Lo sguardo di Aka finì sulla lamina del bidone pieno di legna che ardeva nel buio di un’alba che tardava ad arrivare. Il suo riflesso era mostruoso, quelle persone avevano ragione.

Si sarebbe presto trasformata in una creatura raccapricciante come le tante che pullulavano la città oltre le mura del rifugio.

Gli occhi venati di rosso, le occhiaie profonde, la pelle madida di sudore e le vene increspate sotto di essa. Era solo l’inizio.

Aveva bisogno di iniettarsi il siero il prima possibile.

«A morte i criminali!».

Dietro le sue spalle si erano riuniti l’intero consiglio e la popolazione della Palizzata che non attendevano altro che la sua dipartita. La sua e quella degli altri diciannove malcapitati che sarebbero stati puniti assieme a lei per reati che, era certa, sarebbero stati sicuramente assolvibili.

Il razionamento voleva dire anche questo: eliminare il marcio, l'indispensabile, per garantire la sopravvivenza di molti.

Aka si sollevò da terra.

Intanto le guardie stavano trasportando di forza i diciannove giovani ragazzi. Le mani legate dietro la schiena e la rabbia stampata sul viso.

«I cancelli.», ordinò il Generale.

Due uomini si accostarono alle porte della Palizzata afferrando le funi.

Aka raggiunse il centro del cancello. Era in attesa che quest'ultimo si aprisse, quando incrociò lo sguardo di una ragazza della sua stessa età. Stava piangendo. 

Le si contrasse lo stomaco. Avrebbe voluto dirle che sarebbe andato tutto bene che, una volta fuori, avrebbero trovato il modo per sopravvivere ma i morsi della fame la costrinsero a serrare la mascella.

Non sapeva quanto tempo ancora sarebbe riuscita a tenere a bada la bestia che scalpitava nel suo stomaco.

«Non voglio morire!».

Alla sua destra, un ragazzino scalciava dimenandosi in lacrime.

«Sta fermo.», lo colpì dietro la schiena la guardia che lo teneva bloccato saldamente per le braccia.

Il caos nella testa di Aka accresceva sempre più. Man mano che passava il tempo avvertiva tutto più amplificato. La sua pelle sembrava più sottile del solito tanto che la pioggia le bruciava come acido addosso. Riusciva a sentire il fruscio dell’erba sotto le scarpe e le gocce d’acqua tintinnare nei barili accatastati a metri di distanza da lei. Si guardò attorno spaventata. Stava succedendo troppo in fretta, avrebbe perso il controllo da un momento all’altro. 

Cercò disperatamente gli occhi del Generale voltandosi di spalle. Doveva aprire i cancelli il prima possibile.

Un respiro pesante e gutturale, poi un altro e un altro ancora.

Faticava a gestire i pensieri, confusi, ovattati. 

«Aka!»

Ad un passo dall’abbandonarsi agli istinti primordiali della bestia, riconobbe una voce.

Vide Wesley correre nella sua direzione facendosi largo tra la folla a spallate.

I loro sguardi si catturarono all’istante.

Due guardie si lanciarono nella direzione del ragazzo afferrandolo per le braccia. Wesley provò a dimenarsi per un po’ ma poi abbandonò l’idea, ciò che aveva da dire a quella ragazza, in quel momento, era più importante per lui.

«Verrò a cercarti. Quindi tu non dimenticarti di me, capito?», le gridò. 

Aka provò a sorridergli ma una smorfia di dolore la costrinse a guardare altrove. 

Poi ci fu un momento di silenzio. Le guardie liberarono i polsi ai prigionieri. Il Generale sollevò il braccio in aria e la palizzata si spalancò sul bosco che precedeva le rovine di una città che non esisteva più.

«Corri Aka! Devi correre!»

Il corpo militare imbracciò i fucili e incominciò a sparare in aria costringendo i venti ragazzi a correre verso l’esterno della Palizzata. Decine di militari si lanciarono alla stregua dei prigionieri sparando e gridando in una malsana caccia mortale.

 

“Corri Aka, corri.”

   
 
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