Solo problemi
In quei primi anni scolastici, avevo assistito a tre ritiri, nove esaurimenti nervosi, cinque casi di ulcera e a diversi attacchi di panico, accompagnati da pietose crisi di pianto; ne avrei viste anche di più, ma un professore permaloso mi aveva fatta ingiustamente espellere, l'anno precedente, per il mio non aver ricambiato l'interesse inopportuno che nutriva nei miei riguardi.
Avevo perso fin troppo tempo, ma, per mia fortuna, tutti hanno almeno un segreto che non si vuol far conoscere agli altri. Grazie a un valido ricatto, ero stata riammessa nel migliore collegio dello stato, il LPA: istituto prestigioso che aveva sede nella nostra capitale marittima super lusso, Beornia, la città più alla moda di Biornia, ovvero la grossa isola situata nel mar Mediterraneo, giù, sotto lo stivale e la Grecia.
Era pieno pomeriggio e mi trovavo nella mia stanza, con le pareti dalle sfumature viola, nel sontuoso dormitorio femminile della scuola; accartocciai l'ennesimo bigliettino anonimo e lo lanciai dritto nel cestino, accanto alla scrivania, facendo centro al primo colpo.
Siamo nel ventunesimo secolo, la tecnologia impazza, e questo qui mi scrive bigliettini come nel 1600?
Negli ultimi mesi, constatai, me ne erano stati mandati diversi di quei biglietti, e tutti con frasette ridicole quali: “Mi vendicherò di te e ora lo sai”, “Quelle come te... verrete tutte rieducate”, “Ho problemi intestinali”. Riflettei su come poco mi preoccupava tutto ciò, in quanto ritenevo normale l'essere odiata vista la popolarità che, in quella scuola, avevo raggiunto già dalle prime settimane in cui vi avevo messo piede.
Sto diventando davvero una brava attrice. Mi guardai allo specchio dell'armadio con fare pensieroso: l'immagine che vi veniva riflessa era quella di una ragazza ritenuta bella, seducente e sicura di sé; sul suo viso niente lasciava presagire il suo tormento interiore.
Il visetto a cuore, da bambola di porcellana, ricambiò il mio sorriso arrogante, eppure mi sentivo così a disagio con la persona del riflesso che dava a ognuno l'immagine di sé che volevano venisse mostrata loro: per la famiglia, lei era un'educata ragazza che obbediva sempre alle regole e che doveva eccellere in ogni campo; per gli studenti del collegio, era la regina stronza, colei che nessuno osava contraddire per timore di inimicarsela; per le donne dell'associazione di beneficenza – in cui aveva iniziato il tirocinio, perché in quel collegio pretendevano che ci si atteggiasse già ad adulti –, Pamela Monaldeschi era una piccola donnina matura e perfetta, oltre che un'ottima organizzatrice di eventi.
Ero un'attrice, un personaggio fittizio, in una vita che non mi apparteneva più. Era come se fossi diventata la protagonista di una serie televisiva senza senso e senza trama, con episodi che tiravano avanti per inerzia, personaggi secondari inutili e situazioni tappabuchi.
Chi era davvero lei? Qualcuno si era mai chiesto chi fosse la ragazza che, in quel momento, non si piaceva guardandosi allo specchio? Non sapevo darmi delle risposte a riguardo: mi ero persa dietro le mie innumerevoli maschere da non riuscire più a capire cosa fosse reale o non. Come potevano sapere gli altri chi io fossi, se io per prima non mi conoscevo affatto?
«Sei davvero incantevole», si complimentò Serena Castellani; la biondina si alzò dal mio letto disfatto per aiutarmi a sistemare i miei capelli mossi e scuri, che mi ricadevano soffici e delicati sulle spalle nude e chiare.
Per il suo buon carattere e la sua raffinatezza, Serena mi ricordava tanto quel personaggio del romanzo della Austen: Jane Fairfax. Alle volte, la chiamavo così e lei, di rimando, mi definiva la sua Emma Woodhouse.
Pensavo spesso a come le ero grata di essermi amica e al non averle mai confessato di ritenerla molto più bella di me, e non solo a livello estetico: Serena era un'anima luminosa, una delle poche persone di cui sentivo di potermi fidare sul serio, ma c'erano alcune cose di me che era meglio non sapesse nemmeno lei. Mi portavo dietro una scomoda eredità.
Gli insistenti occhietti azzurri di Serena, sul suo visetto innocente, mi continuavano a fissare, e in maniera diretta, attraverso il vetro dello specchio.
«Cosa c'è che non va?» le chiesi un po' troppo irritata.
Rimasi in sottoveste nello sfilarmi il vestito rosso, per potermi provare quello blu; l'abito era scivolato veloce lungo le mie gambe lunghe, afflosciandosi sul pavimento.
Un'altra cosa che invidiavo a Serena – realizzai, osservandola di striscio – era la sua corporatura leggera come l'aerogel: la mia amica era minuta e priva di curve eccessive, mentre io, come alcuni professori di sesso maschile andavano affermando, avevo un corpo da Pin-up che li faceva deconcentrare.
Con fare nervoso, Serena iniziò ad arrotolarsi una ciocca biondo miele intorno al dito.
Brutto segno! Mi dissi. Qualsiasi cosa debba riferirmi, non sarà affatto gradita alle mie orecchie.
«Cos'era quel bigliettino che hai lanciato?» mi chiese, nel vano tentativo di girarci intorno più del dovuto.
«Mh...» borbottai. «Sarà opera di qualcuno che non ha coraggio di dirmi in faccia che mi odia. Su, Serena,» affermai con decisione, incitandola con gli occhi di aiutarmi a chiudere la cerniera, «parla! Sai quanto poco apprezzo i silenzi imbarazzanti e come sopporto anche meno le persone che non arrivano mai al dunque.»
Serena dovette mettersi in punta di piedi per chiudere la cerniera fino in cima: non solo indossavo i tacchi, ma ero una ventina di centimetri più alta di lei.
«Una persona mi ha chiesto di andare al ballo di domani sera con lui,» mi rispose lei, con fare insicuro, «da amici, ovvio, ma gli ho detto che prima lo avrei domandato a te... Non sono sicura che ti vada bene.»
«Dimmi chi è, svelta!» le diedi l'ordine come se fosse stata una delle mie tante sottoposte. «Ma sappi che, se temi così tanto la mia risposta, è evidente che sai già che lo disapproverò e che non va bene come accompagnatore!»
«È Gordon Gilberti!» mi riferì lei; Serena si nascose dietro le mie spalle, affinché non vedessi il suo viso nel riflesso dello specchio. La mia amica sfacciata finse di armeggiare ancora con il mio vestito.
Nell'udire quel nome ebbi un lieve sobbalzo, ma feci intendere che la cosa non mi avesse toccata affatto; assunsi una postura più retta e un'espressione di totale indifferenza.
«E che vuoi che mi importi, eh? Fa quello che ti pare.»
Altri si sarebbero accontentati di questo, ma non Serena: lei sapeva, lei mi leggeva dentro, e me lo fece intendere dal suo sguardo solidale, con tanto di sopracciglia alzate.
«Andiamo!» mi spronò lei, abbracciandomi da dietro. «So che non lo ammetteresti mai, ma... Gordon Gilberti ti piace, e anche tanto...»
«Ho un ragazzo che adoro!» le rinfacciai, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Michele, te lo ricordi? Lo conosci: capelli castani, occhi verdi, bellissimo... Frequenta l'ultimo anno. Stiamo insieme da quasi due anni...»
«Per coprire il fatto che lui sia gay e perché a te piace dire di avere un ragazzo, senza, però, avere il peso di una relazione!» ribatté lei.
«Come siamo audaci!» affermai stizzita, nel tentativo di togliermi dalla mente l'immagine invadente di Gordon Gilberti, dei suoi occhi verdi, così chiari da sembrare azzurri, e dei suoi graziosi ricciolini castani. «Chi ti ha dato tutto questo coraggio per rivolgerti così a me? Dai, sto scherzando, su! Più o meno... Perché vuoi farti accompagnare da lui? Non hai trovato di meglio? Il ragazzo a cui vai dietro si è rimesso per l'ennesima volta con la sua ex?»
«Pamela...» sbuffò Serena, «non mi è mai piaciuto Gualtiero Gregoriadis e lo sai. Sì, è ritenuto bellissimo da tutte, ma... È troppo alto per me!»
«Senza offesa...» alzai le sopracciglia, scuotendo la testa, «ma tutti sono più alti di te.»
«Sì, lo so, ma lui supera il metro e novantacinque!» Serena ribadì con tenacia. «Qua si parla di una cinquantina di centimetri di differenza, senza tacchi ai miei piedi... No, non lo guarderei a prescindere, sia chiaro: Gualtiero è un ragazzo così inquietante...» la vidi rabbrividire; la mia amica si strinse nelle braccia sottili, storcendo la bocca per il disgusto. «Pam... Sincera! Tutti, in collegio, dicono che tu e lui sareste una coppia perfetta... È più il tuo tipo che il mio, quindi, perché insistere? Comunque, sì: è tornato di nuovo insieme a Monica. Dico io... o vi lasciate definitivamente o state insieme per sempre. A che servono questi tira e molla continui?»
«Io e Gualtiero perfetti insieme?» sbuffai, provandomi un vestito fucsia che mi stringeva troppo sul petto. «La gente non capisce proprio niente. Si vede che non ci conoscono: il fatto che Gualtiero e io ci rispettiamo, nonostante l'odio reciproco, non significa che, come per magia, inizieremo a piacerci come due che si innamoreranno e vivranno per sempre felici e contenti! E perché, poi, tutti si mettono a parlare di queste cretinate? Non hanno di meglio a cui pensare?»
«Allora?» mi chiese titubante Serena, sfoggiò un sorriso angelico volto a farmi sciogliere. «Posso andare con Gordon? Non è che, poi, gli farai uno dei tuoi sadici scherzetti, vero? Ancora sono sconvolta per quando, quel giorno che eravamo andati a Cruentapugna, la tua città, per le competizioni tra collegi, hai fatto arrabbiare quel tizio che abitava in quella villa di periferia e hai fatto sì che la secchiata d'acqua gelida se la prendessero lui e Michele! Pamela... era inverno e loro volevano solo aiutarti dopo quella tua crisi! E come se non bastasse che fossero fradici, ti sei persino messa a ridere di loro e a prenderli in giro...» il suo sguardo era un po' accusatore, oltre che supplichevole. «Pamela, ti prego. Almeno domani sera, non torturarlo... Gordon è così dolce e paziente con te. Non merita proprio di essere trattato come...»
Alzai un sopracciglio e la intimidii con lo sguardo.
«Come cosa?» le domandai, poggiando le mani sui fianchi. «Io tratto chi mi pare nel modo che preferisco, chiaro?»
Tornai ad ammirare infastidita il mio riflesso. «Vorrei restare sola, adesso. Grazie! Questo argomento mi ha stufata.»
Con tutti i ragazzi che ci sono, perché proprio lui si va a scegliere? Mi chiesi, sentendo la porta chiudersi alle mie spalle.
Un paio di cinguettii mi informarono dell'arrivo di messaggi sul mio cellulare di contrabbando, mi fiondai verso il letto e lo estrassi dal suo nascondiglio tra le doghe e il materasso.
Puntai i miei occhi sullo schermo, mi spuntò un sorrisetto soddisfatto sul volto.
Solito posto? Questo pomeriggio? Muoio dalla voglia di vederti. JG
JG. Feci dei cenni soddisfatti col capo; Johnny Gregoriadis, il fratello minore di Gualtiero che avevo conosciuto durante le competizioni scolastiche e che mi era subito entrato in simpatia.
L'altro messaggio, invece, era di un numero che non conoscevo e, per quanto bizzarro fosse, decisi di non dargli troppo peso e di fingere di non averlo neanche letto.
Forse non oggi... forse non domani... ma, Pamela, str*nza dagli occhi d'ambra e dal viso a cuore... Pamela dalla pelle chiara... Prendi mai il sole? La vendetta giunge vicina... nel modo che tanto ami, io ti farò mia... delle serie di cui tanto decanti, ti farò partecipe... dei reality che tanto disprezzi, io ti renderò protagonista... Sei come il giglio di fuoco: un fiore raro, ma tossico; un fiore che, però, voglio collezionare, e a tutti i costi, nel mio giardino privato... L'ora ancora non è giunta, ma presto, secondi o anni... TU LA PAGHERAI!
P.S. Non sono chi pensi tu... Non mi conosci... Gualtiero Gregoriadis non è l'unico a cui stai sulle pigne... Sei una s***a odiatissima, qui al LPA, ma lo sei anche nella tua città... Visto che mi censuro da solo? A presto! Ci risentiremo sicuro.
※※※ ※※※ ※※※
Anche nel piccolo parco giochi, a qualche chilometro dal LPA, si riusciva a sentire nell'aria l'odore salmastro di quel mare che, all'orizzonte, appariva come un'ondulata striscia di un azzurro limpido. Quel pomeriggio, c'erano pochi bambini in giro, accompagnati dai loro genitori: due bimbi si alternavano allo scivolo, un altro si dondolava piano con l'altalena. Il cielo era velato da nuvole fugaci e una leggera brezza faceva rabbrividire la pelle con la sua freschezza.
«Metterei sotto un'altra decina di persone, se questo significasse passare anche solo pochi minuti con te, mia adorata!» Johnny era sempre un gran corteggiatore quando voleva – ogni volta, mi sentivo lusingata dalle sue attenzioni –, ma dovevo restare lucida: non erano mai incontri di piacere i nostri.
Johnny Gregoriadis era davvero un ragazzo bellissimo, come anche il fratello veniva considerato tale, solo che Johnny aveva i capelli biondo scuro e gli occhi di un azzurro tendente al grigio, e una carnagione piuttosto chiara; Gualtiero, invece, aveva una carnagione olivastra, i capelli neri (rasati sotto e con un ciuffo finto spettinato sopra), e due occhi di una tonalità di un azzurro più scuro rispetto all'altro. Il primo aveva un fascino a dir poco angelico, l'altro un'avvenenza che trasudava malvagità assoluta.
Accomodandoci su di una scomoda panchina, guardai Johnny, scuotendo la testa in negazione. «Sì, diciannove anni li hai fatti, ma non hai passato l'esame per la patente... Dovresti aspettare, prima di metterti alla guida. E smettila di prendere in prestito le auto dei tuoi professori, ti metterai nei guai. So che al Terzo Quarto siete tutti matti, ma così...» gli dissi, piuttosto seria nel modo di pormi.
Johnny ridacchiò come se la cosa lo divertisse. «Guido da quando avevo dodici anni, tesoro!» mi informò lui, con un sorrisetto altezzoso che lo abbelliva ancora di più. Mi prese le mani tra le sue. «Oh, cara! Ruberei migliaia di auto per te! È carino, davvero, che ti preoccupi, ma non è il caso: ho mandato alcuni dei miei confratelli a distrarre il professore; quel fesso non si accorgerà mai del prestito! E hai ragione riguardo il Terzo Quarto, sai? Là, se non sei già matto quando arrivi, lo diventi dopo; sarà perché quel collegio è diretto da un malato di mente e ci sono sempre fughe di gas. A proposito...» estrasse una scatolina dalla tasca dei jeans chiari. «Una persona mi ha detto che, tra qualche giorno, è il tuo compleanno! Il quattordici di novembre non so se posso venire da te, per questo...»
La confezione bianca era semplice, ma carina. La aprii subito, non appena me la mise in mano, preda com'ero della curiosità.
«Ma non dovevi», un paio di orecchini mi fissarono soddisfatti dal basso; erano certamente costosi ed erano stati fatti personalizzare per me. «Sono bellissimi, grazie.»
«Tutto per te.»
«Come sai che il quattordici faccio diciannove anni?» gli domandai, certa di non averglielo mai confidato, come non lo aveva fatto Gualtiero; il sospetto crebbe nel ripensare a come io non ero iscritta ad alcun social dove si sarebbe potuto informare a riguardo.
«Il mio amico Mario Masini, che poi è anche mio cugino...» mi spiegò lui, per nulla turbato.
«Non lo conosco», gli feci presente, zittendolo subito. «Non frequenta il LPA, sicuro, e se vive nella nostra città, lassù in montagna, dall'altra parte dello stato, non ho mai avuto a che fare con lui.»
«Sì!» mi rispose Johnny, alzando le spalle. «Mario è di Cruentapugna, come noi. Mio cugino è un fenomeno: sa sempre tutto di tutti, non c'è cosa che non viene a sapere.»
Controllai l'ora dallo schermo del cellulare. «Accidenti!» esclamai, alzandomi di scatto. «Devo sbrigarmi a tornare in collegio, prima che qualcuno noti la mia assenza... Non ci è permesso uscire dal LPA; è una specie di prigione, anche se di lusso... Rischio l'espulsione!»
Johnny mi lanciò una strana occhiata, prima di chiedermi: «Quando l'ultimo fine settimana sei tornata dai tuoi...» lo fulminai per non fargli dire la parola "genitori", «dai Monaldeschi... hai scoperto la combinazione della loro cassaforte?»
«So che lì dentro c'è qualcosa di importante per la tua famiglia, ma...»
«Devo dedurre che la tua risposta sia no», Johnny arricciò le labbra, aggrottando le sopracciglia; mi poggiò una mano sulla spalla con fare consolatorio.
«Credimi», gli dissi, carezzando quella sua mano con la punta delle dita, «non siete solo voi Gregoriadis ad avercela con i Monaldeschi, anch'io voglio vederli cadere in rovina!»
※※※ ※※※ ※※※
Con tutte le lezioni, gli impegni pomeridiani, il giorno seguente feci appena in tempo a indossare l'abito rosso per il ballo del LPA.
Ero ben conscia di essere stata io la responsabile di aver introdotto, in collegio, quelle che tutti appellavano ormai come "trovate americane". Avevo avuto l'idea tempo addietro; conoscendo quanto quell'istituto amasse il denaro, mi ero detta: "Che scusa migliore, per raccogliere fondi, di un ballo di beneficenza?"
Il preside e i professori avevano approvato tutte le mie migliorie e le mie idee, mi avevano persino incaricata di organizzare più eventi di quel genere.
Entrando nell'istituto, però, mi venne il dubbio che io non fossi un bel vedere.
Ammirai la magnificenza di Serena Castellani – col suo sobrio abito azzurro, così dolce e perfetta da far innamorare qualsiasi ragazzo di lei –, ma Veronica, avvicinandosi a me, fu l'ennesima persona a domandarmi: «Pamela, come è possibile che, stasera, tu sia ancora più bella?»
Quelle adulazioni, e i vari complimenti, mi fecero riacquistare un po' di autostima.
Non eravamo ancora entrati nella palestra, adibita a salone per quella particolare serata, che Michele mi raggiunse mollandomi sulla fronte un bacio affettuoso.
«Sei meravigliosa», mi disse lui, mentre attorno a noi, nel corridoio affollato, si riuniva la mia comitiva.
«Ehi, Monaldeschi!» mi sentii chiamare, con tono disgustato, da dietro alle spalle. «Ricordati di non fare casini, stasera...»
Neanche mi voltai per rispondere a Gualtiero. «Fottiti, Gregoriadis!» alzai il braccio sinistro, mostrandogli il dito medio.
Gilberti arrivò poco dopo; potei notare, dalle espressioni solari altrui, quanto quel ragazzo fosse ben voluto da tutti.
«Pamela,» mi sussurrò lui all'orecchio, e con fare esitante, «possiamo parlare un attimo in privato?»
«Oh, ma che vuoi? Lasciami stare», lo rimproverai a voce un po' troppo alta.
Mi furono presto rivolti sguardi indignati dai ragazzi della comitiva, ma al tempo stesso li vidi spaventati all'idea di contraddirmi.
Una volta separati dal gruppo, alla debita distanza, Gilberti iniziò a conversare con fare preoccupato: «Devi smetterla di uscire di nascosto. Rischi grosso», risi di gusto per l'apprensione che nutriva per me. «Non mi riferisco solo all'essere espulsi. Io so con chi ti vedi in gran segreto».
«Questo non è proprio affare che ti riguarda, giusto?» lo sgridai io.
«Johnny Gregoriadis è pericoloso, non è un bravo ragazzo. Lui...» insistette.
«Smettila di interpretare il ruolo di guardia del corpo. Inizi a essere patetico», lo interruppi, dandogli le spalle per entrare in palestra.
«Sono un tuo amico,» mi rimbeccò lui deciso; mi seguì, imitando la mia andatura veloce, «non posso non... Io ci tengo a te... Non voglio che ti succeda niente.»
«Oh, ma come sei... carino», sbuffai scocciata.
Non contento dal mio ignorarlo nuovamente, Gilberti mi prese per il braccio affinché mi voltassi verso di lui. Lo fissai infastidita, ma non tanto quanto lui mostrava di esserlo nei miei riguardi. «Andrà a finire male!» mi disse a denti stretti.
Forse hai ragione! Pensai, rammentando i piani che avevo in mente per quella particolare serata.
E CIRCA TRE ANNI DOPO, MA AL TERZO QUARTO...