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Autore: Skiocco_muto    17/07/2024    0 recensioni
Un entertainer, un errore, del sangue, un fazzoletto.
Genere: Comico, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“L’amore, l’amore.
Cos’è l’amore?
La domanda è mal posta.
Cosa non è l’amore, questa è la vera questione.
Cosa non è l’amore?
Io sono sicuro di una cosa; l’amore non è una parola.
O, quantomeno, non solo una parola.
Ma forse…, no, mi spiego meglio; chi, qui nella platea, è mai stato innamorato?
Okay, okay, devo essere sincero? L’altra volta erano molti di meno, questa sera è la serata dei latin-lover.
Che ridete? Io sono serio.
Bene, passando oltre, tutti voi vi ricordate bene cosa si prova ad essere innamorati?
Ve la ricordate quell’energia, quel bene che vi scalda da dentro, quel… quella felicità?
Che poi, detto tra noi, e dopo vado avanti, anche se siete dei latin lover, voi, avete mai provato formicolio quando eravate innamorati?
Esatto, no! Nemmeno io, eppure, quando ti descrivono l’amore, lo descrivono sempre come un formicolio.
Eh, voi ora ridete, ma immaginate quei poveri bambini che devono fare i temi a scuola; tema, l’amore, descrivere cosa è e cosa si prova.
Il bimbo, che è stato attento alla spiegazione della maestra, scrive; quando si prova amore si sente un formicolio per tutto il corpo, ergo, l’amore è un problema di circolazione che affligge le persone che si vogliono bene.
E la maestra che fa? Gli dà 4, quell’ipocrita.
E sì, se qualcuno se lo chiedesse, io ero un alunno molto attento alle spiegazioni, infatti avevo tutti 4.
Ma, noi ora sappiamo il perché; e comprendiamo che non era colpa mia.
Come vorrei averlo saputo far comprendere anche a mia mamma.
Le mie chiappe se le ricordano ancora le nostre incomprensioni scolastiche.
Ma come detto prima, l’amore, a differenza di quello che dicono le maestre, è un’energia.
Anche qui; bisogna articolare, perché poi ti arriva il cretino che te lo scrive sotto i combustibili.
E’ un energia interna, una spinta a far del bene, una voglia… una voglia di fare.
L’amore è quella facinazione per qualcuno che spinge… a voler bene, ad essere felici, ad essere attivi.
In poche parole; l’amore è quella cosa che ti spinge ad alzarti dal letto la mattina e fare il tuo dovere, ma con felicità, perché sennò era tua madre.
L’amore è ciò che spinge un predatore a cacciare per i propri cuccioli, e quindi ad uccidere degli animali che molto probabilmente stavano mangiando qualcos’altro… altri animali… o piante… sempre, magari, per l’amore loro e dei propri piccoli.
E ciò che gli animali, per amore, non mangiano, si decompone, e fa crescere nuove piante e nutrirà nuovi animali e permetterà a nuovi predatori di ucciderli…
Mi sa che l’amore è anche il vero motore degli ecosistemi.
Io, ora, ho visto che ridete, quindi presumo che tutti voi abbiate capito che io sto scherzando, ma, nel caso ci fossero studenti in sala, e, botta di fortuna, questi studenti fossero privi di senso dell’umorismo; se all’esame di scienze scrivete la mia ultima affermazione riguardo agli ecosistemi come risposta ad un’ipotetica domanda che prevede un’altra risposta, vi avviso, prendete lo stesso voto del bimbo di prima.
Comunque, come dicono gli inglesi, carry on, che, tradotto maccheronicamente, significa; sopportate gli ultimi 2 minuti dei miei deliri e poi il monologo è finito.
Quelli che hanno studiato lingue possono confermarlo.
Se l’amore muove gli ecosistemi, muoverà anche altro; per esempio, a caso, vi è mai venuto un giramento di scatole per qualcosa che aveva fatto il vostro innamorato? Anche innamorata, ma di solito i giramenti di scatole vengono per gli uomini, ed io, che sono uomo, lo so bene.
Perché io, come innamorato, sono un tale peperino…
Ella miseria se le ho fatte girare le scatole; una volta, per esempio, ero innamorato di una ragazza bellissima, dolce, tenera, una di quelle che si incontrano una sola volta nella vita.
E, neanche a dirlo, lei mi corrispondeva.
Allora io mi dissi: “Marco, calma, ragiona a mente fredda, dunque, questa è un’occasione che non si ripeterà più, devi cogliere la palla al balzo, se vi amate, dovete mettervi insieme, e chissà… magari hai finalmente trovato la donna della tua vita.”
Così abbiamo iniziato a frequentarci, ed andava tutto per il meglio.
Io la venivo a prendere alle otto, si cenava insieme, chiacchieravamo, passeggiavamo sotto la Luna…
Insomma, vivevamo uno di quegli idilli d’amore che sono possibili solo nei sogni.
Ma… eh eh, in ogni storia c’è sempre un “ma”
Ma… ma quella racchia di mia moglie non era d’accordo.
Non che io le avessi mai chiesto un parere, s’intenda.
Lei, in fondo, non c’entrava niente… eppure, per manie di protagonismo, si convinse che eravamo un “triangolo”.
Se ne saltò fuori con qualcosa che suonava tipo; “torno da mia madre se non la lasci”.
Ed io, che, nonostante le sue manie, la amavo, mi preoccupai, e le dissi; “ cara, mi raccomando, portati il maglione di lana.”
Lei ascoltò il mio consiglio, solo che si prese anche metà della casa e della mobilia, più gli alimenti mensili, naturalmente.
Eppure era sempre stata una donna talmente comprensiva.
Una gran arrabbiatura doveva averla spinta così in là; o, come lo chiamerò ora per ricollegarmi, un gran giramento di scatole mosso dall’amore per me.
A chi non è mai capitato? Chi non ha tradito la moglie e non le ha mai causato un giramento di scatole?
Esatto, tutti no? Ergo; l’amore muove anche i giramenti di scatole.
Soprattutto quelli delle racchie.
In generale, diciamo i giramenti.
Ma è brutto giramenti… meglio rotazioni.
Come quella della terra intorno al sole.
Quindi, se 2+2 fa 4, l’amore muove la rotazione della terra intorno al sole, ergo, muove il mondo.
Mi piace come frase; l’amore muove il mondo.
Ci starebbe bene come nome ad un’organizzazione benefica; l’amore muove il mondo, dona anche tu al 338 675 89 04 per aiutare chi ha bisogno.
Che poi, ora seriamente, siamo tra noi, voi, donereste?
No? Allora, mi sa che mi sono sbagliato, l’amore non muove una pippa.”
La folla si alzò, facendo cadere una cascata di applausi su quel monologo appena improvvisato.
Il presentatore rientrò in scena con un sorriso stampato sul volto ed un microfono.
“Signori, il maestro dell’improvvisazione, il sommo entertainer, Marco Lorusso!”
La folla alzò ovazioni al pronunciare di quel nome: chi fischiava, chi chiedeva un bis, chi semplicemente applaudiva, chi, scarso di fantasia, imitava i cori di bravo della platea.
Lorusso sorrise imbarazzato, portando la mano in alto, sopra la testa, facendo segno di smettere.
Il presentatore si voltò verso di lui, mostrandogli tutte e 32 le zanne, poi gli si avvicinò e gli porse la mano.
Lorusso la strinse; “sudaticcia” pensò.
Il presentatore si rivolse verso il pubblico.
“E’ un onore per noi avere come ospite stasera il maestro del teatro d’improvvisazione, Marco Lorusso; colui che da più di trent’anni mette un sorriso sui nostri volti e della felicità nei nostri occhi.”
La folla belò di nuovo all’unisono, Lorusso, quasi disgustato, arrossì.
“Giustamente riconosciuto come “il comico”, stasera si accompagnerà alla stella emergente, la nuova luce del firmamento, la nuova gemma della corona del teatro; Michele Guizzichè!”
Ecco, ora sì che arrivavano fischi e urla.
Sembrava quasi che con Lorusso, fino a quel punto, non si fosse che scherzato.
L’entertainer se ne accorse e sfoggiò le sue zanne; sotto le luci del palcoscenico brillavano bianche come l’invidia.
Il presentatore porse una mano ad una quinta, come per tirarne fuori Michele, che rispose al richiamo al pari d’un cane bene addestrato; camminò dritto verso il padrone, gli fece qualche festa con una o 2 barzellette e poi si sedette al suo posto, accanto a Lorusso.
Se il sommo maestro non avesse saputo che era un uomo, avrebbe giurato d’averlo visto scodinzolare.
“E adesso, un pezzo totalmente improvvisato del nostro astro nascente; Michele Guizzichè!”
Applauso, Lorusso e il presentatore si nascosero in una quinta, uno a bere, l’altro ad osservare, a cercare di carpire, ad invidiare.
Il primo pensiero di Lorusso, una volta nascosto dalle tenebre del telo nero, fu, in relazione all’introduzione del monologo del giovane teatrante; “elementare”.
Poi, gli si spalancarono gli occhi.
Per un momento, si sentì preso in giro; tutto ciò che prima sembrava banale, semplice e quasi infantile nella sua composizione, quel monologo che sembrava sciocco e senza spezie tutt’a un tratto per una battuta buttata lì aveva preso sapore, aveva preso senso.
Ciò che prima sembrava solo un elenco di gag legate da remote analogie era diventato lo schema di una storia complessa, lo schema di un soliloquio piccante, certo, meno complesso del suo, ma più brillante.
Era la dimostrazione che l’ingenuità batteva l’esperienza.
Lorusso strinse i pugni, ascoltò meglio, pensò “banale”.
Poi, dopo poco, pensò, mordendosi la lingua; “non banale, gustoso.”
Non era neanche a metà di quel monologo quando decise di andarsene a casa a farsi una doccia; sarebbe tornato in un paio d’ore, giusto in tempo per concludere quella serata così disastrosa per il suo ego.
Così lasciò il palco e si avviò verso il parcheggio.
Mentre camminava, rimuginava tra se e sé su quel cagnolino che, nonostante tutto ciò che non era, sapeva inventare come lui non aveva mai saputo.
Prese la chiave della macchina dalla tasca dei pantaloni, facendo quasi cadere il suo fazzoletto di stoffa bianco.
“ecco dove ti eri cacciato.” Commentò.
Lorusso lo prese e se l’appuntò al taschino, aprì la portiera, e mise in moto.
Mentre era nella sua auto, il comico pensava a tutto fuorché che alla guida; infatti, assieme alla sua cena precotta, gli stava sullo stomaco un’invidia nera per quella genialità, tanto non riusciva a digerirla che gli occupava la testa, rivangando memorie di glorie passate, su quei palchi di legno marcio che, per un biglietto di 5000 lire, venivano resi vivi da sketch, scenette, pezzi di cabaret …
Bei tempi erano quelli; non serviva nulla all’intrattenitore se non l’ingegno e la passione, nessun effetto speciale se non quelle luci scassate, che a volte c’erano, e a volte no, il costume era tutto ciò che l’immaginazione e l’abilità dell’entertainer potevano permettersi, senza troppi fiocchi, troppi tessuti costosi, solo una tenuta elegante, resa bella più dall’atmosfera che dal taglio.
Era stato in una di quelle sere che aveva finalmente raggiunto la notorietà; il pubblico, in visibilio, si era alzato in piedi, aveva lasciato cadere le sedie di plastica e aveva composto un’orchestra d’applausi, aiutando la critica a decidere se stroncarlo o spedirlo sul grande schermo.
Dopo quello spettacolo, Lorusso era andato a bere qualcosa, per festeggiare, con quei suoi nuovi amici dello staff con cui trovava un punto di comune accordo solo con il nettare.
“sì, qualcosa” bofonchiava ironicamente il comico “solo 4 o 5 bottiglie di vino rosso”.
Fu uno dei suoi compagni di vino, che, forse un poco più brillo di lui, per un motivo perso tra i bicchieri, gli aveva rimesso a posto il naso con uno di quei cazzotti che non ti scordi più.
Sembrava che avesse le mani di marmo; quando ci fu lo scontro tra il setto nasale e le nocche, Lorusso credette che l’avesse appena sfigurato una statua, e non un uomo.
Col naso pendente a sinistra, Marco rimise in pari i conti sullo stomaco dell’altro, nel mentre che la comitiva, accecata dall’alcol, cercava di capire cosa accadeva tra la nebbia dell’inibitore; tanto ci misero a comprendere che quando finalmente si mossero quei due avevan già quasi preso i coltelli.
Com’era concio Lorusso, dopo il combattimento; non apriva nemmeno gli occhi, l’unico segno di speranza era il suo petto che andava su e giù.
Uno disse qualcosa, altri sputarono qualcos’altro, c’era chi diceva che aveva paura delle formalità dell’ospedale, chi sussurrava di prigione, chi lo credeva morto e suggeriva di non accertarsi del contrario, di lasciarlo lì; se si fosse svegliato buon per lui.
Fu una fortuna per l’attore che tra i suoi commensali ce ne fosse uno provvisto di pietà; e che, dopo che tutti l’abbandonarono sopra un bidone della spazzatura, l’avesse condotto di nascosto da “Cuoricino francese”.
Quell’anonimo bussò tre volte alla porta della francese a tarda notte, interrompendo una “conferenza” di lei ed un magistrato, si fece aprire da lei in vestaglia, strappata, con solo un po' di pizzo a coprirla veramente; lei stava per rovesciargli addosso tutto ciò che poteva formulare con la lingua quando notò il comico, alzò un sopracciglio, lo compatì con gli occhi e li fece entrare, adagiò Lorusso su di un letto, mandò via l’anonimo, e poi, dopo aver rimboccato le coperte al moribondo, finì la conferenza.
Quando l’attore si risvegliò era l’indomani, verso le 3 del pomeriggio, e solo allora si accorse che forse il giorno prima non aveva solo bevuto.
Mentre si guardava intorno non riconosceva niente se non il sole ed il cinguettio degli uccelli; tutto nella stanza gli stava dicendo che non era a casa sua, che quello non era il suo letto, che la sera prima era successo qualcosa di diverso dal solito.
Mentre metteva ancora a fuoco, notò una figura che non aveva l’aria né di un mobile né di un soprammobile: notò una figura che aveva la siluette di qualcosa di cui lui era totalmente sprovvisto a casa sua, notò la figura di una donna.
Una donna alta, rossa di capelli, non grassa ma neanche magra, intenta a rammendare un vestito verde squillante, strappato su un fianco; uno di quei capi che non si portano, se si può dire, normalmente per le strade se non si è venditori di particolar prodotto… ma io, non mi soffermerò sulla merce, perché francamente, non è un argomento che mi interessa approfondire.
Basti solo dire che le fattezze dell’indumento fecero subito capire all’attore con chi aveva a che fare, e gli fecero porre dubbi ancor più grandi su cosa era accaduto quella notte; tanto che, per assurdo, se non avesse visto il vestito, sarebbe stato più sicuro di conoscere se stesso e le proprie debolezze.
Lei non lo aveva ancora notato, tanto era presa dal rammendo, così lui la poteva vedere solo di spalle: o, nel caso particolare della francese dove la scollatura arrivava ben più in giù, di schiena.
Questo momento in cui uno conosceva l’altro solo dalle intuizioni, in cui perfino il tempo sembrava fermarsi per permettere al comico di scoprire chi lei fosse dalle pieghe dei capelli, dalla pelle olivastra, o dalla cucitura imprecisa, terminò con la caduta di un rocchetto di filo.
Poi fu un gioco di sguardi.
Entrambi rimasero immobili a specchiarsi l’uno negli occhi dell’altro.
Poche domande, dirette, precise, un piatto argentato d’imbarazzo con contorno di goffaggine, risatine, pudore, un risveglio riassunto con poco.
Lorusso strinse forte il volante, quanti frammenti, ricordi di una giovinezza perduta, di un tempo in cui era come quel cagnolino, in cui le idee gli venivano alla mente come le farfalle alle luci notturne.
Come quando si è tra i propri pensieri si aumenta il passo, così Lorusso passò dalla quarta alla quinta guidato da quei ricordi perduti che in quel momento di debolezza gli venivano davanti agli occhi più vivi della strada che percorreva.
La francese, la francese, la francese, come gli bruciava la francese… forse solo quel comico da strapazzo.
Lui l’aveva amata la francese, ma amata davvero, tutt’ora la amava, anche se l’aveva rinchiusa nella sua immaginazione, l’aveva costretta tra le sue glorie passate, ancora adesso, che era vecchio, che era saggio, che ne aveva viste altre, che aveva conosciuto altri nettari, ancora in quel momento il suo miele era il più dolce per lui.
Lei gli aveva regalato ciò che tutte le altre donne non avrebbero mai potuto; gli aveva donato l’ispirazione, lei, per un anno e mezzo, con i suoi modi dolci ma netti, con le sue carezze, con la sua voce, gli aveva ispirato ogni pezzo.
E più che seguiva la sua memoria, più l’acceleratore sparava i suoi chilometri sulla strada, povero il motore, che piangeva come un bambino e lo pregava di svegliarsi, ma lui, ebbro di lei, non lo sentiva.
Si sforzava di ricordare, la rivedeva adesso, accanto a lui.
Lui stava buttando giù idee per la serata; l’aveva vista preparare il caffè, l’aveva vista pulire, l’aveva vista rammendare, l’aveva vista leggere, e la sua testa, ancora dolorante dall’esperienza della settimana prima, aveva ricominciato a funzionare.
Per il cervello gli giravano battute, un piccolo monologo, frecciatine, uno spettacolo di una mezzoretta abbondante, forse 40 minuti, sapeva già anche come chiamarlo; satira da casalinga, sì, satira da casalinga, che nome geniale, si diceva tra sé.
In quegli ultimi giorni aveva passato il tempo a riprendersi e la francese non aveva avuto il coraggio di sbatterlo fuori, non so dire se fossero amici, so solo che non si erano sgraditi l’uno all’altra.
Satira da casalinga scoppiò come un fuoco d’artificio, e a seguire anche “vita da strada” “le donne e il ricamo” “caffè senza zucchero” convivenza da marciapiede” fecero le loro figure.
E scorsero i giorni, scorsero i mesi, e lui smise di rincasare a casa propria, e cominciò a chiamare “la sua stanza” quella della francese.
Forse in quel momento erano innamorati, sì, lo erano, almeno, gli sembrava così: programmavano di vivere insieme, sognavano una bella casetta, magari qualche bambino, e la francese si sentiva molto vicina al mettere l’anello.
Ma Lorusso lo sapeva che non avrebbe funzionato, lo sentiva, tutto correva veloce, e la carriera era un cavallo solitario da cavalcare, uno di quelli che corre in testa a tutto, senza la compagnia di nessuno, nemmeno della propria musa.
Quando fu il momento sparì nella notte per ricomparirle sui manifesti, sotto, a grandi lettere, “il più grande comico del mondo in “amore o carriera?”” e lei borbottava tra sé e sé qualcosa riguardo all’essere uomo e non un burattino.
Tanto era rapito da questi pensieri che ritornò per sbaglio al parcheggio del teatro, a tutta velocità naturalmente.
E poi fu tragedia.
Perché per ironia della sorte il povero Michele Guizzichè stava proprio andando alla sua auto, tranquillo, stanco della serata.
E Lorusso, non volendo, lo prese in pieno.
Un rumore terrificante squarciò il silenzio del parcheggio, Lorusso corse fuori dall’auto e si gettò sul collega.
“E’ morto? Sarà morto? L’ho ucciso?” la sua testa non ragionava infettata da queste domande.
A terra lo aspettava il povero Michele, con la testa sanguinante, il cuore fermo, il respiro assente, gli occhi guardavano chissà cosa a sinistra, forse la sua anima che ascendeva all’altro mondo.
Michele giaceva sopra una pozzanghera del proprio sangue, esanime.
Marco non ci voleva credere: si mise le mani nei capelli, chiamò il comico più volte per nome supplicandolo invano di respirare, di sbattere le palpebre, ma la morte ormai aveva preso il sopravvento.
In questi momenti le persone impazziscono, perdono la ragione, non sanno più cosa fare, e spesso fanno azioni sciocche, stupide.
Ma Marco era un comico, lui aveva fatto del “riderci su” un’arte, lui era un maestro nel far sghignazzare la gente su avvenimenti terribili e agghiaccianti.
E fu proprio in quel momento di somma tragedia che ebbe l’illuminazione: un pezzo.
Un pezzo, sì, un pezzo, un pezzo su come aveva ucciso il suo collega, un monologo da sbellicarsi dalle risate su come aveva nascosto cinicamente e freddamente il corpo.
Era così assurda come storia che nessuno ci avrebbe creduto, così incredibile ed improbabile, e poi era una mossa stupida confessare al mondo di essere l’assassino, talmente stupida che l’avrebbero scartato a priori.
E poi, come con la francese, i monologhi migliori erano quelli ispirati da eventi veramente accaduti.
Così la sua mente cominciò a far girare le rotelle: trascinare il corpo? Sottolineare come era pesante, magari un commentino sulla dieta e… perché no? Su diete più sane… pulire il sangue con i copri sedile? La condizione dei posti di lavoro oggigiorno con un pizzico di sarcasmo per gli spazzini… nascondere l’ucciso nel retro macchina? Commento sagace su come oggigiorno uccidere una persona sia molto più difficile che ai suoi tempi per via delle moderne tecnologie tipo le telecamere… ah già, le telecamere.
Marco si voltò di scatto mentre metteva il povero Michele nel bagagliaio; che fortuna che fosse un teatro da poco, si disse, e che li sotto non ce ne fossero.
Mise i copri sedili con cui aveva asciugato il sangue a far compagnia al povero collega, poi si guardò le mani; rosse di crimine, grondanti di malefatte, gocciolanti di sangue.
Forse questo fu il suo ultimo istante lucido, in cui si accorse veramente di ciò che aveva fatto, prima di sprofondare in una impercettibile, leggera, distante, follia.
Aveva un fazzoletto da qualche parte… in tasca forse… no… un momento! Certo! Nel taschino!
Lo prese con un sorriso da bambino, i suoi occhi ormai parevano timide pupille senza anima, che con l’ingenuità di un bambino non capivano di aver ucciso un uomo.
Si pulì le mani facendo in modo che, miracolosamente, parte del fazzoletto rimanesse bianca, lo ripiegò con cura e lo ficcò nel taschino.
Si specchiò nello specchietto retrovisore: meno male, non aveva rovinato i capelli, una mentina giusto per gradire, e via, dentro il teatro.
Un’ora aveva impiegato a nascondere Michele, doveva andare diritto sul palco senza passare dal via.
Intanto, nel parcheggio sotterraneo, la spazzina si mise ad urlare: quella che credeva fosse una grossa macchia d’olio sotto l’auto del comico si era rivelata troppo rossa, color morte bordeaux per essere esatti.
Ma nessuno la sentì di sopra, Lorusso stava per andare sul palco.
“E ora il maestro dell’improvvisazione, il padre della comicità, il fantastico, l’unico il solo Marco Lorusso.”
Una cascata di applausi, Lorusso si accorse che il pubblico era davanti a lui solo in quel momento, e allora i suoi occhi si illuminarono, sorrise all’aria, il suo sguardo era chissà dove, volava da qualche parte, mentre gli ultimi barlumi di ragione scappavano con una solitaria e silenziosa lacrima.
“Grazie, davvero, siete un pubblico meraviglioso, siete sempre stati un pubblico meraviglioso… ho per voi un pezzo speciale, l’ho appena scritto.
Si chiama; “come ho ucciso Michele Guizzichè”.”
Il pubblico scoppiò a ridere, Marco le vedeva quelle risate, le vedeva venirgli incontro e abbracciarlo, le vedeva con quelle sue pupille enormi e le salutava sorridendogli con un sorriso tutto denti.
“Beh, come ci si potrebbe aspettare, ho iniziato con l’ammazzarlo.
Lo so, lo so, è un modo banale di cominciare un omicidio, ma che ci potevo fare? Io sono un tradizionalista, amo una bella tazza di thè prima di coricarmi e un bell’omicidio accidentale prima di cena.
Perché in realtà io non volevo ucciderlo, no no, davvero, non era mia intenzione; ma sapete come succede no? Due persone si incontrano, una in macchina a letale all’ora e l’altra sta camminando al buio nel parcheggio sotto il teatro… e niente… è stato un colpo di fulmine per lui… o forse un colpo frontale? Che importa, il fatto è che è rimasto secco dall’amore… e poi è rimasto secco davvero.
Io sono andato nel panico, insomma, mettetevi nei miei panni; non capita tutti i giorni di trovare un uomo steso in terra con il cranio spaccato che galleggia nel suo stesso sangue… o sì? Che razza di giornate avete, si può sapere? Comunque, per me è una cosa insolita… e fin qui, credo che sia un bene.
Ma ormai il dado era tratto, lui era morto… ovvero… molto morto… mortissimo… e io l’avevo ucciso.
Così ho deciso di mantenere la calma, perché, ricordatelo, non avesse a capitarvi, in queste situazioni dovete sempre mantenere la calma! Comunque, ho pensato che, per far le cose ammodino, avrei dovuto nascondere il corpo.”
L’audience rideva a crepapelle.
“Che pesante che era Michele! Sul serio eh? Consiglio; se pianificate di farvi uccidere un giorno vi prego, vi scongiuro, mettete via un po' di quella pancetta accumulata, santo cielo! Fate un po' di dieta… magari non una di quelle strambe tipo i pizzariani o che so io… ma ci siamo intesi.
Comunque, trascina trascina, mamma mia come pesa, toh guarda, una striscia di sangue! Che conduce proprio al cadavere! Certo che la gente è veramente maleducata oggigiorno, lascia strisce di sangue prorio dove una avrebbe voluto trascinare un corpo! Ah… ops… mi sa che è colpa mia… vabbè poteva andare peggio… posso pulire tutto… ma con cosa? Ci sono! I copri sedili! Solo che sono dannatamente difficili da togliere dai sedili… insomma… non so se avete mai provato a fare una cosa del genere in vita vostra ma, vi consiglio, fate ginnastica, sul serio, sono intoglibili.
Comunque, mentre pulisco penso alla situazione degli addetti alle pulizie italiani, diavolo, forse dovrei lamentarmi meno, insomma, almeno io avevo uno strumento con cui pulire, non so se mi spiego, rispetto alla media io avevo un cencio.”
Intanto la donna delle pulizie, di sotto, è riuscita a chiamare il tizio della sorveglianza, quello grasso e pigro, e a convincerlo ad aprire il bagagliaio con una delle sue forcine… e poi… niente… si sono messi ad urlare in due.
Ma nessuno li poteva sentire, di sopra ridevano troppo.
Ridevano così tanto che Lorusso non sentiva più i pensieri nella sua testa, e le sue pupille ridevano, e i suoi denti vedevano, e le lacrime lo pregavano di smetterla.
“Allora, una volta pulito tutto, sollevo sto grassone, lo chiudo dentro il bagagliaio… che poi… voglio dire, trent’anni fa era molto più semplice uccidere qualcuno… insomma… niente telecamere… meno corbellerie scientifiche… solo un branco di gente che cerca di capire come mai di tutto un uomo si è ritrovato solo un mignolo… insomma… molto più semplice… trent’anni fa per esempio non avrei dovuto pulire il sangue, tanto non avevano gli strumenti per capire che ero stato io… striscia di sangue che conduceva alla mia macchina a parte s’intenda.”
La sicurezza arrivò di sotto e vide il cadavere… chiamarono un’ambulanza sperando in un miracolo e corsero di sopra, ad avvisare l’audience che c’era un serial killer, che avrebbero dovuto trattenerli tutti fino all’arrivo della polizia… e che Lorusso era sospettato di omicidio.
Arrivarono sul palco per il gran finale, il presentatore non li fece andare oltre le quinte, intanto Lorusso finiva quello che, a parer suo, era il suo miglior monologo.
“Allora, ricapitolando, avevo tolto il sangue da terra, avevo nascosto il corpo, ero in tempo per andare a fare il mio monologo per voi… solo che le mie mani erano rosse… rosso sangue.
Nessun problema, prendo il mio fazzoletto…”
Detto questo mise la mano alla tasca del pantalone, con la gente che rideva in sottofondo, ma non riusciva a trovare il fazzoletto… ah già, che sciocco… l’aveva messo nel taschino dopo essercisi pulito le mani, così prese e gentilmente lo tirò fuori, e cominciò a strofinarsi le mani come se dovesse pulirle.
E a quel punto il pubblico smise di ridere.

Seconda storia, nuovo genere
spero piaccia, altrimenti... amen.

 
   
 
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