Storie originali > Horror
Ricorda la storia  |      
Autore: Dorabella27    20/08/2024    7 recensioni
Settembre, si sa, è un mese traditore: le giornate ci possono illudere, ma la sera cala impietosamente sempre più presto. E in certi momenti, si sa, è sempre bene non restare per strada quando fa buio: si potrebbero fare degli spiacevoli incontri. Racconto horror ironico, in cui forse più di un lettore riconoscerà luoghi e ambienti... per qualche brivido in questa rovente estate!
Genere: Commedia, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Vampiri a S.
“E adesso, me lo dici tu dove siamo? Guarda te! Sembra di stare nel Wyoming!”
La battuta forse non è particolarmente originale, lo ammetto, ma esprime bene il mio disappunto nel vedermi persa in mezzo al nulla della campagna lombarda.
“Ma nooooo, ma che dici…”. Con la sua bella voce da basso profondo, Michele cerca di rassicurarmi, ma io lo so tanto quanto lui che nessuno di noi due ha idea di dove siamo finiti. Accidenti a me e alle mie idee di fare una passeggiata un po’ più ampia della nostra solita camminata sulle cerchie, il “Ring” cittadino. Per chi non lo sapesse, il viale alberato che circonda il castello – o quel che ne resta – e il centro, poco pulsante, della nostra sonnolenta cittadina, viene ironicamente, ma sotto sotto pomposamente, chiamato dai residenti il loro “Ring”. Come se fossimo a Vienna: eh già! Ma gli abitanti di L. invidiano quelli di T., città più grande, più ricca di storia, più attrezzata, e cercano sempre di enfatizzare tutto quello che L. ha e che manca a T., come, per esempio, il castello. E, in fondo, è tanto piacevole girare lungo il “Ring”, facendo gli esercizi di respirazione e vocalizzi, preludio alla lezione di canto vera e propria. E invece, chi sa mai perché oggi mi è venuto in mente di allargare il giro.
“Senti, ma visto che la giornata è bella, se ci spingessimo oltre l’orto botanico, verso il fiume?”. Da dove mi sia uscita questa idea, non so. Fatto sta che, vocalizzo dopo vocalizzo, eccoci qui: persi nel nulla.
La prima a rendersi conto che eravamo decisamente fuori strada sono stata io.
“Michele, senti: ma non è che siamo un po’ troppo lontani? Ce la facciamo a tornare indietro prima che faccia buio?”. Settembre è traditore, si sa: le giornate della terza decade, nelle ore di luce del pieno mattino e del primo pomeriggio, possono avere il calore e lo splendore che illude di far vivere ancora qualche sussulto dell’estate; ma poi il buio cala prima, e l’umidità è implacabile.
“Ma no, ma no: sta’ serena!”
“Guarda che all’ultimo cui hanno detto di stare sereni…”, mi viene spontaneo rispondere, ma Michele mi blocca: “Guarda: se seguiamo il fiume è impossibile perdersi”. La risposta ha un che di logico che mi tranquillizza. Passa un’altra mezz’ora di chiacchiere ed esercizi di tenuta del respiro, e poi … poi, complice un attimo di sosta silenziosa, trascorsa con gli occhi fissi sul fiume, mi rendo conto di un piccolo particolare.
“Ma, Michele, il S. scorre da nord a sud, giusto?”
“Sì, e allora?”.
“E allora siamo fuori strada!”
“Perché?”
“Perché per tornare a L. dobbiamo andare verso sud, ma qui stiamo andando a nord, in direzione contraria a quella in cui scorre l’acqua. O no?”-
La domanda è puramente retorica, una cortesia, diciamo, perché sono stra-sicura di quello che dico.
“E forse hai ragione”, conviene Michele; ma l’ “Ohhhh!” di soddisfazione che mi uscirebbe spontaneo di bocca viene smorzato dal fatto che ormai ci avviciniamo al tramonto.
“Sì, ma hai idea di dove siamo adesso? E dell’ora cui ritorneremo?”.
“Ma siamo qui vicino”. Minimizza lui.
“Vicino un corno! Scusa eh, eravamo partiti che erano le tre e mezza, adesso sono le sette…”
“Ma no, ma no”, obietta Michele, “Ci siamo trovati alle tre e mezza, ma prima abbiamo preso il caffè e la granita, poi siamo passati in biblioteca a restituire il tuo libro… saremo partiti alle quattro e mezza. E abbiamo fatto anche qualche pausa camminando. Non possiamo essere tanto lontani da L.”
“Sarà”, dico con tono scettico. “Ma qui comincia a imbrunire. E se una biscia ci taglia la strada? O un pitone?”, chiedo, allarmata.
“Una biscia…? Ma le bisce sono innocue. E il pitone…scusami: ma i pitoni in Lombardia non vivono allo stato brado!”
“Ma non li leggi i giornali? Non li vedi i TG?!”, mi accaloro io. “Non hai visto che cosa è successo vicino a S.?”. Oddio, nemmeno io sono proprio quel che si dice una aficionada dei TG, ma, più che altro, seguo la cronaca locale e le “curiosità dalla provincia” del quotidiano del capoluogo, significativamente ribattezzato “il bugiardino”.
“No, che cosa?”, chiede lui.
“È successo che hanno trovato su una strada campestre un pitone di 5 metri e mezzo tagliato a metà! Un trattore evidentemente ci è passato sopra!”
“E che ci faceva un pitone per una strada campestre della bassa lombarda?”.
“EHHHH! Ma come? È chiaro che è stato comprato e amorosamente allevato: poi, per chi sa quale motivo, il proprietario si è scocciato di dargli i topolini vivi da mangiare, si è trasferito e non se lo è portato dietro, è morto e gli eredi incivili hanno liberato il serpente … e che ne so?! Comunque mi spieghi che cosa facciamo se incontriamo un pitone?”.
“Ok, ok, io direi di stare tranquilla. Mi hai spiegato che può capitare, e ci credo, ma, insomma, per la legge dei grandi numeri, penso che un pitone nelle vicinanze di S. basti e avanzi per i prossimi cinquant’anni; direi che possiamo stare tranquilli. Intanto segui me e vedrai che in men che non si dica siamo a L.”
Rassicurata – in fondo, sarò patriarcale e vecchio stile, ne convengo, ma un uomo che prende il comando con voce ferma e aria decisa ha sempre il potere di confortare – mi zittisco e lo seguo.
Dopo forse un’ora di cammino, di L. non si intravede nemmeno la periferia. In compenso si vedono le cupole tonde alla base e affilate verso l’alto, della chiesa principale di S.
“Ma dove accidenti siamo, Michele?!”, sbotto io.
“Ehm…beh, ecco… ehm…”, balbetta lui.
“Te lo dico io dove siamo: quella è S. ! E adesso?”
“E adesso andiamo e cerchiamo un bus o un taxi per tornare a L. Non ti preoccupare! In fondo è ancora estate…e cavolo! Infatti, guarda tu quante zanzare ci sono ancora!”, dice, battendosi prima la nuca e poi il collo con il palmo della mano.
Quanto mi dà sui nervi Michele quando ostenta una padronanza della situazione che non ha. Comunque ora ci siamo: l’abitato è a vista, e, dopo poco, percorso l’ultimo tratto di strada campestre, ci ritroviamo sull’asfalto della provinciale. Ormai è buio, però, e la mia arrabbiatura non mi toglie la lucidità per vedere che tutti ci fissano in un modo a dir poco strano. Diffidente, mi verrebbe da dire. Persino allarmata.
E tutti, fra uno sguardo torvo e l’altro, si affrettano in casa, chiudendo porte e gelosie.
“Io qui non vedo la pensilina del bus, sai?”, mi dice Michele. Ed è vero: non c’è più vicino alla rotonda con l’edicola, e non c’è più davanti alla Chiesa.
“E adesso?”, ha anche l’improntitudine di chiedere.
“E adesso ….”, cerco di continuare la frase. Ma non ci riesco. Poi, un’idea. “E adesso, suoniamo in parrocchia e chiediamo. Guarda, la casa parrocchiale è qui accanto alla chiesa”.
Forte della mia decisione, mi avvicino e suono il campanello. Intanto, naso all’insù, guardo i due campanili che bordeggiano la facciata. Non mi è mai piaciuta la chiesa di S., monumentale, sì, ma decisamente strozzata da un sagrato troppo stretto e che dà direttamente sulla trafficatissima strada provinciale, un autentico ingorgo perenne. E poi, poi … io avrei sempre giurato che di campanile ce ne fosse uno, non due. Due sono i campanili della chiesa maggiore di L., ma non di S. E quelle vezzose cupole che si avvitano verso l’alto, come quelle del Cremlino, o di certe chiese ortodosse, o come dei ciuffi di panna montata appena usciti dalla siringa di un pasticciere…ma che vado a pensare. Si vede che ho fame…Nel frattempo, la porta si apre, e dall’andito buio emerge, sotto la luce fioca del lampione un volto decisamente noto: viso allungato, baffi radi, un’espressione inconfondibile. Ma che ci fa Vincent Price a S.? Dietro di me, Michele sussurra un “min…!” appena percettibile, ma io con la mano sinistra, da dietro le spalle, gli faccio cenno di no, di stare zitto e aspettare. Dietro la testa emerge un corpo allampanato, avvolto in una tonaca nera dagli infiniti bottoni. Il solo tratto di luce è quello del clergyman. E va bene: il parroco di S. somiglia in tutto e per tutto a Vincent Price da vecchio. Succede, capita. Insomma: non mi hanno riferito le mie studentesse che una delle lettrici all’università di B. mi somigliava tanto che non solo l’avevano scambiata per me, ma si erano persino risentite perché la presunta me stessa non le salutava? E mi avevano anche mandato una fotografia perché credessi loro, e in effetti la somiglianza c’era, e bella forte. E poi anche in Irlanda, mia cugina non aveva incontrato la mia sosia? Una giovane signora russa accompagnata da due bambini biondi e vivaci, che l’avevano fatta sbigottire, come se le avessi celato la mia famiglia segreta.
Insomma, può accadere. Certo, forse io sono un tipo un pelino più comune di …don Vincent, ma insomma…
“Buonasera, don …” e non mi viene il nome perché la scritta sul campanello è illeggibile.
“Buonasera, entrate, entrate, non state qui fuori a parlare: è molto poco sicuro”.
“Perché le macchine sfrecciano a poca distanza ..?”, chiedo, stupita e cercando di dare un senso razionale a quelle parole.
“Anche”, dice don Vincent mentre ci fa strada. E, appena anche Michele è entrato, con uno scatto felino, il parroco corre a chiudere la porta a chiave e mette anche un catenaccio e un fermo di acciaio che attraversa il vecchio e solido legno.
“Venite, venite”, continua, e ci invita ad accomodarci in un salottino tutto centrini e bibelots che potrebbe essere uscito direttamente da una poesia di Gozzano. C’è anche il busto di Napoleone; manca solo il pappagallo impagliato. Comunque. Io comincio a parlare: “Ecco, vede, don  ….”, e lo guardo, come a chiedere, con lo sguardo, che mi dica il suo nome, a me ancora ignoto. Ma niente, non raccoglie. Allora vado avanti: “So che sembra strano, ma noi siamo partiti da L. per fare una camminata lungo il corso del S. e ci siamo persi. Siamo arrivati in centro e volevamo prendere un bus, ma non ci sono più le pensiline, e nemmeno una piazzola per taxi..”
“E non ne troverete uno, cari ragazzi. Non mi dite nulla di strano. In verità, sarebbe difficilissimo, per non dire impossibile, lasciare S. prima di domani”.
“Ma no! Ma come!”, sbotto io, incredula.
“Purtroppo”, spiega “don Price”, imbarazzato, unendo i polpastrelli delle mani, “da quando a S. sono arrivati i vampiri…”
“I vampiri?! Ma scherza, vero?”, gli tronco le parole in bocca.
“Nient’affatto, benedetta ragazza. Ha notato i miei poveri parrocchiani, con che paura e con che fretta si ritiravano nelle loro case, sbarrando porte e finestre?”.
“Sì…”
“E avete notato come vi guardavano”.
Annuiamo entrambi (e intanto penso: oh, finalmente ha preso atto che c’è anche Michele).
“Ogni forestiero può essere un vampiro. Specialmente se arriva al tramonto. Per cui vi ospiterò io, per la cena e poi per la notte”.
Il tono di “don Price” è perentorio, ma io cerco di contrattare: “Ma, padre, la prego: basterebbe che ci prestasse la macchina, e noi…”
“Mia cara ragazza (ora comincia a darmi sui nervi, però, con questo “cara ragazza”), a parte che non ho la patente e non possiedo auto, ma, soprattutto, anche se l’avessi, non vi consentirei mai di esporvi a un così grande rischio: percorrere queste strade di notte! Oh no!”.
Ecco. Siamo fregati. Con aria molto poco entusiasta Michele e io ringraziamo “don Price” e si accomodiamo in sala da pranzo, una stanza che davvero sembra uscita da Villa Amarena. C’è persino la decrepita perpetua – che però non si chiama Maddalena, e il gatto sulla poltrona, che dorme pacifico. Manca solo la falena. Però il menu parrocchiale non è male: la minestrina fatta con l’estratto di carne ex Liebig ha sempre il suo fascino, e se fatta bene ha tutto il sapore dell’infanzia; la bistecca è cotta al punto giusto e le zucchine ripiene e le melanzane sono saporite. Nonostante la situazione assurda, “don Price” e la signora Magda, come la chiama lui, ossequioso, sono due vecchietti simpatici, e insomma, quasi inspiegabilmente, la prospettiva di passare la nottata nella casa parrocchiale, e di tornare l’indomani con il bus delle 7,15 che arriva a L.alle 7, 45, non è poi così spiacevole.
     Dopo il caffé, “don Price”, che ho appreso chiamarsi don Vincenzo  - vedi, a volte, i casi della vita -, ci congeda, e ci conduce alle nostre stanze. Le nostre nel senso che, come dice lui stesso, “non essendo voi una coppia sposata, ho fatto preparare alla mia buona collaboratrice Magda due letti in due stanze separate. Ogni stanza ha un bagno personale, e troverete salviette, spazzolini da denti, dentifricio e tutto quel che vi serve per prepararvi per la notte”.
Ringraziamo e ci chiudiamo la porta dietro le spalle. E per buona misura io la chiudo anche a chiave.
La mia camera somiglia tantissimo alla camera della mia prozia Pina (classe 1908): un letto singolo, alto con la testiera in legno, una toeletta di legno scuro, cassettone intarsiato, tende pesanti che occultano la finestra con gli scuri già chiusi, una bella trapunta rosso scuro. Lenzuola che sanno di spigo e bagno vecchiotto ma luccicante fanno tanto casa dei nonni. In fondo, al di là della bizzarra motivazione addotta da don Vincenzo, quest’avventura non è spiacevole: tanto, domani ho il giorno libero e anche Michele inizia alle 11. Certo, mai più mi fiderò del senso dell’orientamento di Michele, mai! E su quel pensiero sprofondo nel sonno. O meglio, cerco di sprofondare nel sonno: ma non ci riesco, perché, nel dormiveglia, vengo continuamente infastidita da un grattare sinistro di unghie sul legno della porta. Inizialmente, penso al gatto: ma quella vecchia gattona bianca e rossa, Pastasciutta, può grattare con tanta energia?
Sembrano…unghie. Unghie umane? Artigli. Sì. Sembrano proprio artigli!
Ma allora don Vincenzo non mente! Allora ci sono davvero i vampiri a S.! Anzi, sono qui dentro! Ecco, io lo sapevo: è don Vincenzo il vampiro! O forse la vecchia Magda, insospettabile, apparentemente innocua? Io non dovevo fidarmi! Non dovevamo fidarci!
“Via! Via! Vattene! Ho…un crocifisso qui! E ora accendo la luce, sai?!”.
Accendo l’abat-jour, e il grattare si interrompe. La tengo accesa un po’…ma il filo elettrico che la collega alla presa è vecchio, usurato e dopo mezz’ora si surriscalda e  sfrigola. Anzi, mi sembra che parta proprio una scintilla, e allora, pensando che il comodino e la stanza sono tutti in legno e fra morire dissanguata da un probabile vampiro o arrostita in un incendio non so quale sia la sorte peggiore, spengo l’abat-jour. Pochi istanti di buio e quel grattare insistente, sinistro, accompagnato stavolta da ansiti profondi, riprende.
Accenderei la luce centrale, ma l’interruttore delle camere è fuori, sul muro del corridoio, subito accanto alla porta d’ingresso, come spesso accade nelle vecchie case: e io di uscire anche solo per pochi secondi e allungare la mano nel buio… oh, no, non me la sento proprio! Un pensiero mi attraversa la testa, velocissimo: oddio, e il mio amico? Se la sua serratura cede…
“Michele!”, grido, sperando di svegliarlo, e sperando che mi senta da dietro la porta della sua stanza: “MICHELE! NON APRIRE LA PORTA PER NESSUN MOTIVO! Accendi la luce!”.
Nessun segno di vita dalla stanza di Michele, proprio di fronte alla mia, al lato opposto del corridoio. Che situazione, santo cielo!, che situazione orrenda!
Intanto, quell’atroce raspare riprende, e non ho altro modo di contrastarlo che accendere l’abat-jour, sino a quando, una volta che il filo si è surriscaldato e inizia a emettere uno sfrigolio inquietante, non la spengo; allora lo sfrigolìo riprende, e sono momenti di terrore, durante i quali prego che quella cosa orrenda che sta fuori non riesca ad abbattere la porta (“ma i vampiri hanno davvero bisogno di essere formalmente invitati a entrare?”, mi sorprendo a chiedermi, col cuore in gola, mentre riemergono vaghe memorie di letture di Bram Stoker e di altri romanzi e film del genere. “Ma poi”, mi correggo, “anche se fosse, che bisogno avrebbero? Sono io l’ospite a casa del vampiro. Quel don Vincenzo è losco come pochi! Dovevo capirlo””). E così, passano le ore. Mai luce dell’alba che filtra attraverso le fessure delle gelosie venne accolta con maggior sollievo. Sono sfinita, estenuata, ma almeno intravedo la fine di quel terrorizzante supplizio. Accendo l’abat-jour, spalanco la finestra, e la porta… il corridoio viene parzialmente illuminato. Con cautela, mi sporgo allora oltre la porta e accendo la luce che illumina tutto il corridoio. Mi guardo intorno: niente e nessuno. Chiudo dietro di me la vecchia porta di legno: è tutta segnata, percorsa, nella parte che dà sul corridoio, da graffi e unghiate profonde, che la notte prima, potrei giurarlo, non c’erano; è come se una bestia famelica avesse raspato con rabbia per molto tempo. Rabbrividisco: dunque non l’avevo sognato!
Attraverso il corridoio di slancio e mi fiondo alla porta di Michele, e scopro che non è chiusa a chiave: pazzo! Accendo la luce ed entro di corsa, gridando: “MICHELE! Ma i vampiri c’erano! Era don…” e mi muore la voce in gola: nel suo letto vedo il mio amico, sotto la crudele luce del lampadario a sei braccia, prima contrarsi nel volto in una smorfia di orrore, e poi polverizzarsi letteralmente sotto i miei occhi in un mucchietto di sottile cenere nera. Era lui! Non posso trattenermi dal gridare. In quel momento accorrono, avvolti nelle loro vestaglie scure la perpetua e “don Price”, entrambi in vestaglia; lui regge fra le mani un crocifisso e un paletto. Ma non possono che guardare il mucchietto di cenere che insozza il letto dalle lenzuola candide, con aria mesta. Don Vincenzo dice solo: “Lo sapevo”.
Io inizio a piangere, sconvolta, disperata. Magda cerca di consolarmi, mettendomi una mano sulla spalla….
… e in quel momento mi sveglio. Un incubo, nient’altro che un dannatissimo incubo!
Quando lo racconto a Michele, davanti a un cappuccino, prima di entrare in classe, le sue risate mi travolgono.
“Non sei offeso, vero?”, gli chiedo, quasi mortificata.
“Ma no! Tu, però, la sera, cerca di non mangiare più i peperoni ripieni prima di andare a letto!”, ride di gusto; così gli si scoprono i denti, e noto, per la prima volta, che i canini sono un po’ allungati.
 
   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Horror / Vai alla pagina dell'autore: Dorabella27