Premure tra sospettati
“Sei stato tu a uccidere Theo Galavan?” gli chiese con ferocia Barnes, alla sede della GCPD.
“Per l’ultima volta, no,” insistette Jim a denti stretti, sperando di essere abbastanza convincente.
“Se mi stai mentendo, lo capirò.”
Barnes era un osso duro e si era fissato particolarmente con lui in quel periodo. Jim non poteva biasimarlo davvero, dopo tutto ciò che era successo. Galavan aveva tentato di manipolarlo e poi, quando il detective si era comunque schierato contro di lui, non aveva fatto altro che provocarlo e alla fine Jim aveva dato di matto in pubblico.
Inoltre era stato davvero lui a ucciderlo, ma questo non lo sapeva nessuno.
Nessuno a parte…
“Pinguino, sai dove si nasconde?” sbraitò allora Barnes, che non sembrava assolutamente intenzionato a lasciar cadere l’argomento.
“Certo che no!” esclamò Jim, stanco del suo interrogatorio pubblico.
Era grato che Barnes non avesse mai scoperto del suo rapporto con Oswald Cobblepot, di tutti i favori che il criminale gli aveva fatto nel tempo, altrimenti sarebbe stato ancora più agguerrito nei suoi confronti.
Jim sperava che quel calvario finisse presto, così da potersi mettere al lavoro. Barnes gli stava facendo perdere del tempo prezioso in domande che non lo avrebbero portato da nessuna parte, perché lui non intendeva ammettere nulla. E malgrado fosse irremovibile su questo, anche il suo capo lo sembrava sui propri dubbi, il che rischiava di intrappolarli in un circolo vizioso.
Alla fine lo lasciò libero e così, profondamente infastidito dalla situazione, Jim poté tornare al lavoro. Si sedette quindi alla sua scrivania, posizionata di fronte a quella di Harvey, e prese a esaminare i documenti che gli erano stati lasciati.
O almeno ci provò, perché sapeva che il discorso non era definitivamente chiuso, ma era stato solo rimandato.
Il giorno prima Jim aveva ucciso Theo Galavan dopo averlo desiderato così tanto… C’era bisogno di ripulire la città da una persona marcia come lui, capace di manipolare gli altri per sembrare nel giusto mentre, in realtà, uccideva in nome di una vendetta personale. E per poco non aveva ucciso anche Bruce.
Lo aveva desiderato davvero e aveva ceduto all’oscurità dentro di sé, ma già ne pagava il prezzo. Il senso di colpa non era poi così presente come avrebbe potuto immaginare in precedenza, ma piuttosto aveva la sensazione di essere sporco, di essere diventato come quegli agenti corrotti che Barnes aveva cacciato dal distretto, il suo primo giorno. Inoltre aveva la sensazione che prima o poi sarebbe stato scoperto, quindi lo avrebbero chiuso a Black Gate e avrebbero buttato via la chiave.
Dopotutto, il suo capo non sembrava intenzionato a lasciar perdere l’idea che lui c’entrasse qualcosa con l’omicidio di Galavan.
Nel frattempo era iniziata la caccia all’uomo, perché Oswald era l’altro sospettato. Il principale, in realtà dato che era al vertice della malavita di Gotham. Dato che aveva dei motivi personali per uccidere Theo Galavan.
C’erano diversi testimoni che lo collocavano sul posto, insieme a Gilzean e ad altri scagnozzi. Inoltre aveva steso Barnes, e questo Jim lo aveva confermato nella sua versione dei fatti.
L’elemento che più faceva pensare alla sua colpevolezza, però, era il suo ombrello spinto giù per la gola di Galavan, anche se a ucciderlo era stato un colpo di pistola. Un colpo esploso da Jim, per la precisione.
“Davvero non sai dove si trova Cobblepot?” gli chiese Harvey, sollevando lo sguardo dal suo lavoro per fissarlo su di lui.
Non c’era sospetto nella voce del suo amico, la sua era solo una domanda dettata dal fatto che fosse a conoscenza del loro rapporto. Non che sapesse cosa fosse successo davvero quella sera.
Jim rispose con uno sbuffo e, dopo essere tornato chino sulle scartoffie, scosse la testa.
Ma Oswald Cobblepot era esattamente dove Jim lo aveva lasciato, e dove lo rivide quella sera stessa… Ovvero, a casa sua.
Infatti erano andati insieme al porto, con l’auto di Oswald e Galavan chiuso nel bagagliaio. Per una volta nessuno dei suoi scagnozzi lo aveva accompagnato né li avevano visti andare via insieme, come se ciò che stesse per accadere fosse un segreto che sarebbe dovuto restare tra loro due. E in effetti era così.
Jim ne fu grato a ripensarci a mente fredda, perché non sarebbe stato tranquillo all’idea di un secondo testimone dell’omicidio, e forse Oswald non si era fatto accompagnare proprio perché lo aveva intuito.
Oswald Cobblepot era sempre in grado di prevedere le mosse altrui… Jim lo aveva scoperto molto presto, dopo il suo arrivo a Gotham, ed era una delle qualità che lo rendeva temibile e inquietante. Sembrava sempre un passo avanti agli altri.
Giusto Galavan era riuscito ad aggirare questa sua dote, facendo rapire e poi uccidere sua madre.
In ogni caso, Jim era rimasto a guardare mentre Oswald ficcava l’ombrello nella gola di Theo Galavan e poi, stremato dalle decisioni prese quella sera, aveva accettato che il criminale lo accompagnasse a casa. Durante il viaggio in auto, però, uno dei suoi sottoposti lo aveva chiamato per avvisarlo che le indagini sul suo conto erano già iniziate e che la villa era stata compromessa.
Sicuramente aveva altri posti in cui rifugiarsi, ma era sembrato problematico andarci subito, e così Jim, davanti al suo sguardo preoccupato e insofferente, aveva parlato senza pensare:
“Puoi fermarti da me, se non ti dispiace dormire sul divano.”
Una volta arrivati a destinazione aveva iniziato a pentirsene, ma ormai era troppo tardi, e così aveva specificato che non voleva altri criminali in casa sua ed era andato a dormire. Quella mattina un’altra ondata di pentimento lo aveva travolto quando, raggiunto il soggiorno, aveva trovato Oswald già sveglio.
Vedere il suo brutto muso sin dal mattino presto non gli piacque per niente, ma almeno aveva preparato la colazione e Jim, dopo un infruttuoso dibattito interiore ostacolato dalla stanchezza, decise che avrebbe potuto mangiarla senza preoccupazioni.
Oswald stava sicuramente escogitando la sua mossa successiva, perché stava esaminando una cartina di Gotham e intanto prendeva appunti riguardo a qualcosa su dei fogli bianchi che doveva aver trovato in uno dei mobili del salotto.
“Ho preso in prestito dei fogli, spero che non ti dispiaccia,” gli aveva detto, rivolgendogli uno dei sorrisi che a lui non erano affatto nuovi.
“No, fai pure,” aveva risposto con nonchalance Jim mentre si riempiva un piatto di uova strapazzate e pane tostato, decidendo che non gli interessava.
Non intendeva farsi intaccare dalla presenza del gangster in casa sua, né dalle sue azioni in casa sua. Sperava solo che quella situazione sarebbe durata poco.
Oswald sembrava rinato rispetto alla sera prima. Aveva l’aria calma, anche se era decisamente concentrato sui suoi piani, ed era tornato a sorridergli e a guardarlo come un tempo. Anche nella sua voce si percepiva una certa tranquillità che nell’ultimo periodo era stata sostituita dalla collera.
Una parte di Jim, molto in profondità nella sua mente, fu felice di vedere che fosse tornato come prima, ma il detective si premurò di zittire subito quel pensiero superfluo.
In confronto a lui, Jim sembrava tornato dal regno dei morti. Era stanco, e non certo perché non aveva ancora bevuto la sua prima tazza di caffè mattutina. La preoccupazione per le ripercussioni di ciò che aveva fatto lo aveva tormentato per tutta notte, prima obbligandolo a faticare per addormentarsi e poi con degli incubi.
In confronto, il fatto che Lee lo avesse lasciato qualche giorno prima, stanca della sua rabbia nei confronti di Galavan e del suo atteggiamento burbero e testardo dell’ultimo periodo, non era che un pensiero lontano e poco rilevante.
Quella sera, quando Jim tornò a casa dopo il lavoro, sperò di trovare l’appartamento vuoto. Per sua sfortuna non fu così.
Oswald era ancora nel suo soggiorno e stava litigando al telefono. Non capì con chi stesse parlando, ma i toni erano accesi.
Jim riuscì a carpire giusto qualche parola prima che il criminale lo notasse e abbassasse la voce, per poi chiudere la chiamata con delle frasi fintamente calme, di circostanza.
“James, bentornato,” gli disse, mentre il detective appendeva la giacca all’ingresso.
Che strano tornare a casa e ricevere il bentornato da un criminale… Il pensiero toccò la mente di Jim abbastanza a lungo da rendere ancora più strana quella situazione, dopodiché lui lo scacciò.
“Qualche problema?” gli chiese, sforzandosi di mantenere piatto il tono di voce.
Prima di rispondere a parole, Oswald gli rivolse un sorriso tirato.
“Niente di preoccupante. Purtroppo alcuni dei miei rifugi sicuri sono stati compromessi, ma ho mandato degli uomini a controllarne altri,” rivelò, al che Jim annuì con finto interesse. “Sembrerebbe che io sia costretto a restare qui ancora per un po’.”
Jim non avrebbe voluto sapere nulla degli affari di Oswald, ma in un certo senso questa volta riguardavano anche lui, dato che lo stava ospitando segretamente. Prima trovava una soluzione e prima poteva andarsene di lì, il che era proprio ciò che Jim desiderava.
“Hai già cenato? Stavo per preparare qualcosa,” continuò Oswald, avviandosi verso il frigo.
“Non ce n’è bisogno, possiamo ordinare,” ribatté Jim, maledicendosi per la fretta che lo aveva fatto tornare a casa anziché fermarsi a mangiare un boccone al volo da qualche parte.
Così sarebbero stati costretti a cenare insieme.
“Oh, insisto,” gli rispose Oswald, che sembrava stranamente felice all’idea. “Mi stai offrendo asilo, vorrei sdebitarmi in qualche modo.”
Il gangster raggiunse il tavolo dove i fogli erano aumentati rispetto a quella mattina, ma erano tutti raggruppati in una pila ordinata, e li prese per spostarli sul tavolino del salotto. Mentre lo osservava fare questo e andare ad aprire il frigo, Jim riportò alla mente tutte quelle volte in cui aveva chiesto un favore a Oswald, o aveva accettato un aiuto che gli veniva proposto. Tutte le volte lui gli aveva detto che non avrebbe dovuto fare niente in cambio.
Jim sentì dentro di sé la strana urgenza di ripetergli quelle parole, che fosse per prenderlo in giro o per scherzare sulla situazione, ma si trattenne perché non voleva parafrasarlo. Non voleva rendere proprie delle parole di Oswald, né lasciare sottinteso che fossero davvero amici, come l’altro si ostinava a sostenere.
Perché per Jim non lo erano affatto, anzi era impossibile pensarlo.
“Non mi devi nulla,” gli disse comunque, cedendo stancamente all’impulso di sottolinearlo.
Oswald aveva già tirato fuori dal frigo gli ingredienti per preparare chissà che cosa e le parole di Jim non fecero vacillare le sue intenzioni, perché continuò a tagliare la carne come se niente fosse.
“Non importa,” dichiarò poi, la voce resa ancora più calma dal tono spento, o forse concentrato. “Non voglio stare con le mani in mano.”
Quelle parole bastarono a zittire Jim, che in effetti poteva immaginare come si sentisse. Chiuso in casa sua perché lo stavano cercando in tutta Gotham, lontano dai suoi sottoposti, l’unica cosa che poteva fare era riflettere sul piano da adottare da quel momento in avanti.
Quindi Jim lo lasciò fare, decidendo che avesse senso che volesse tenersi impegnato, e che lui non avrebbe avuto problemi a mangiare qualsiasi cosa volesse cucinare.
Inoltre, restare entrambi in soggiorno con niente da fare in attesa che arrivasse la loro cena ordinata al ristorante era uno scenario che implicava un silenzio pesante oppure una conversazione forzata. E l’idea non gli piaceva per niente.
Quindi, se Oswald doveva rimanere lì ancora per un po’, tanto valeva che si concentrasse in qualcosa, qualcosa che non lo riguardasse e che non prevedesse per forza la sua presenza.
Jim quindi lo lasciò solo a gestire la cucina mentre andava a lavarsi e a cambiarsi indossando degli abiti più comodi.
Quando uscì dal bagno venne accolto da un profumo gradevole, qualcosa che gli fece anticipare un pasto ricco e saporito, e suo malgrado fu curioso di assaggiare quello che Oswald stava preparando per loro.
“Ti serve una mano?” gli chiese, e si sorprese nel vederlo sobbalzare alle sue parole.
Doveva essere così concentrato nella preparazione da non accorgersi dei passi di Jim, tornato in soggiorno.
“No, siediti pure, è quasi pronto ormai,” rispose, la solita voce gentile incrinata ancora una volta da una nota spenta.
Jim fece come gli era stato detto, notando la tavola già apparecchiata. Oswald non gli aveva lasciato niente da fare per aiutarlo.
Presto gli porse un piatto e il detective, scoprendosi molto affamato, impugnò le posate per prepararsi ad assaggiarlo.
“Gulash,” annunciò Oswald, sedendosi a sua volta davanti alla propria porzione. “È una ricetta di famiglia. Spero che ti piaccia.”
Jim gli rivolse lo sguardo, improvvisamente consapevole del perché fosse così concentrato nella preparazione, e adesso ne sembrasse fiero ma anche triste. Doveva essere un piatto che gli preparava spesso sua madre. E così annuì sforzando un accenno di sorriso prima di assaggiare.
“Molto buono,” gli accordò, decidendo di non toccare più di così l’argomento.
“Mi fa piacere,” rispose Oswald, con una punta di gioia in più nella sua voce rispetto a prima.
Si fecero entrambi silenziosi mentre mangiavano, ma era chiaro quali pensieri aleggiassero tra loro. Malgrado la cena deliziosa, l’atmosfera non era delle migliori.
Una volta finito, Jim si alzò per primo annunciando che avrebbe lavato i piatti e posizionò le stoviglie che aveva usato nel lavello, aprendo l’acqua perché si scaldasse in attesa che anche Oswald finisse di mangiare.
Trovò davvero strano, all’inizio, sapere di avere un criminale in casa eppure dargli le spalle. Trovò ancora più strano quando la sensazione scemò e lui iniziò a non farci più caso, come se fosse del tutto normale. Come se si trattasse di un amico, lì in quanto ospite a cena.
Tentare di scacciare quel pensiero fu più difficile che con i precedenti, perché nell’aria erano rimaste tante parole non dette riguardo alla madre di Oswald, domande che Jim non aveva fatto e ricordi che Oswald non aveva rievocato ad alta voce.
Non si scompose quando se lo ritrovò accanto, a porgergli il suo piatto ormai vuoto.
“Mi dispiace… per tua madre,” gli disse, spinto da una forza interiore che non riuscì a soffocare. “Mi sarebbe piaciuto poter fare qualcosa.”
Il criminale gli rivolse un sorriso tirato, un’espressione calma che non riusciva a celare del tutto la sua tristezza. Lo aveva visto disperato in quel periodo, furioso con Galavan, ma adesso che era morto lui doveva sentirsi molto meglio, per quanto stesse ancora affrontando un lutto.
“Ti ringrazio,” gli rispose, senza aggiungere altro.
Suo malgrado, Jim decise di continuare la conversazione perché c’erano delle cose di cui dovevano discutere, parte dei pensieri che lo tormentavano mentre si trovava al lavoro.
Pensieri che, doveva ammetterlo, erano svaniti quasi del tutto quando era tornato a casa, trovando Oswald ancora nel suo soggiorno, che si offriva di preparargli la cena. E Jim si accorgeva della cosa soltanto adesso.
Una volta a casa con lui si era sentito molto più leggero, come se fosse stato sollevato dal peso che gli si era accumulato addosso dormendo male e poi subendo l’interrogatorio di Barnes al lavoro, per non parlare delle occhiate dei colleghi. Ma quella sera, ora se ne rendeva conto, aveva avuto un po’ di respiro.
“Dobbiamo parlare di alcune cose,” disse, iniziando a strofinare i piatti.
Inaspettatamente Oswald non tornò seduto, restò in piedi accanto a lui e non disse altro in attesa che continuasse.
“Riguardo come sono andate le cose ieri sera,” aggiunse.
“Io ho ucciso Galavan,” dichiarò con sicurezza il criminale, come se fosse la pura verità. “C’è altro da dire?”
“Sì,” rispose Jim, per quanto la sua risposta immediata l’avesse sorpreso.
Era chiaro sin da subito che Oswald volesse prendersi la colpa, quasi a farsene un vanto, altrimenti non gli avrebbe ficcato il suo ombrello giù per la gola. Che però lo dichiarasse così, senza la minima esitazione o rabbia, questo non se l’era aspettato.
“Nel caso ti prendessero, dobbiamo concordare una versione dei fatti,” sottolineò, pronto a ripetere anche a lui quella che aveva riferito a Barnes.
Oswald sorrise e scosse la testa.
“Stai immaginando lo scenario peggiore o pensi di consegnarmi? Perché se si tratta della prima opzione, non accadrà,” disse il criminale, con una sicurezza che infastidì Jim. “Comunque se dovesse accadere mi atterrò alla tua versione, che probabilmente è stata questa: io e i miei uomini abbiamo rapito Galavan, tu hai provato a impedircelo e ci hai seguiti, ma poi ci hai persi di vista.”
Il detective schiuse le labbra mentre si voltava a guardarlo. Era esattamente la sua versione dei fatti, e non ne avevano mai parlato prima.
Oswald gli rivolse un sorriso compiaciuto, forse perché aveva intuito ciò che gli passava per la testa.
“Ti aiuto ad asciugare i piatti,” dichiarò, e Jim si arrese alla sua intenzione di aiutarlo passandogli uno straccio pulito.
“Perché sei così sicuro che le cose andranno come vuoi tu?” gli chiese, non riuscendo a frenare la curiosità.
“Perché mi stai ospitando, James,” rispose con tranquillità Oswald, qualcosa di caldo a colorargli la voce. “Mi stai dando tempo di riorganizzarmi, mentre i miei uomini agiscono per mio conto. Se non fosse per te, probabilmente mi avrebbero già preso e sbattuto in prigione.”
Jim ponderò la sua risposta per qualche istante mentre finiva di lavare la pentola usata per il gulash.
Era grazie a lui che Oswald era ancora libero, e che probabilmente sarebbe rimasto tale. Se ne pentiva? In effetti no.
Francamente, per Galavan Jim provava una rabbia simile alla sua, anche se non così radicata. Inoltre riusciva a immaginare cosa significasse voler vendicare la morte della propria madre.
Infine, e non era cosa da poco, in realtà Galavan lo aveva ucciso lui, non Oswald.
Se lo avessero imprigionato, allora sarebbe stato più giusto prendere anche Jim, per quanto il detective non fosse un criminale recidivo.
Quindi, in fondo, gli andava bene così. Sempre sperando che Oswald se ne andasse presto per la sua strada, ovviamente.
“Sapevi che ti avrei offerto ospitalità?” gli chiese, ritrovandosi improvvisamente curioso a riguardo.
In effetti, Oswald era in grado di prevedere i comportamenti degli altri, amici o nemici che fossero.
“No, non avevo minimamente preso in considerazione questo scenario,” rispose, e Jim si sentì sollevato.
Sapere che lo aveva previsto lo avrebbe fatto sentire usato, ora che ci rifletteva per la prima volta.
“Allora cosa avresti fatto, se non fosse stato per me?” gli chiese, passandogli la pentola perché asciugasse anche quella.
“Non lo so, non avevo ancora vagliato le mie opzioni. Forse mi sarei ricongiunto con i miei uomini, per fuggire con loro da qualche parte. Forse mi sarei nascosto da solo per le strade di Gotham, tra la povera gente, dove non mi avreste cercato,” iniziò a elencare, mentre Jim immaginava quei diversi scenari. “Magari avrei considerato di tornare da Edward, ma alla fine non lo avrei fatto. L’ho già disturbato abbastanza.”
Edward, ovvero Nygma. Certo, Jim non ci aveva pensato ma loro due erano amici. Era davvero strano pensare che un criminale del calibro di Pinguino fosse diventato amico di un tecnico della GCPD. Ricordava il momento in cui lo aveva scoperto come uno dei più surreali della sua vita.
A quanto pareva, Oswald si era trovato ferito e in difficoltà e Nygma, che passava di lì, lo aveva soccorso. Una storia curiosa, certo non del tutto improbabile.
In ogni caso, il loro rapporto rimaneva strano visti i ruoli che ricoprivano, perciò Jim valutò l’idea di indagare sul conto del tecnico, in futuro. Ma per il momento mise da parte il pensiero.
Comunque, comprese che la GCPD avrebbe potuto cercarlo anche a casa di Nygma, già solo perché Jim sapeva della loro amicizia, e in tal caso Edward si sarebbe trovato nei guai a causa di Oswald. E se davvero erano amici, capiva perché avesse scartato l’idea di chiedere di nuovo aiuto a lui.
Quanto a come erano andate davvero le cose, non chiese perché avesse accettato subito la sua ospitalità. Probabilmente c’entrava il fatto che avevano ucciso Galavan insieme, perciò erano già legati a doppia mandata dalla complicità.
Gli argomenti di conversazione urgenti erano terminati e le stoviglie pulite e asciutte, perciò Jim le mise a posto. A questo punto avrebbe voluto ritirarsi nella sua stanza, ma esitò per un istante.
“Grazie,” si spinse a dire, trovando davvero strano il modo in cui quella parola gli fosse uscita, dato che l’aveva rivolta a un gangster.
Non specificò per cosa lo stesse ringraziando, trovando difficoltoso aggiungere che fosse per l’aiuto in cucina. In ogni caso, Oswald gli sorrise. Sembrava che la tristezza che lo aveva accompagnato durante il pasto si fosse dissipata, il che fece sentire Jim un po’ sollevato, per quanto non avrebbe voluto ammetterlo a se stesso.
“Figurati, Jim,” gli rispose, poi si fece avanti fino a raggiungere il divano.
Doveva essere difficile muoversi senza il supporto di un bastone o del suo ombrello, Jim lo realizzò solo in quel momento. Decise che l’indomani avrebbe cercato tra i suoi ombrelli se c’era qualcosa che poteva dargli, tanto probabilmente ne aveva uno in più che avrebbe potuto fare al caso suo.
Dopotutto, quello che portava con sé era finito nella gola di Galavan, per questo adesso camminava senza.
“È abbastanza comodo? Il divano, intendo. Dimmelo se vuoi qualche altra coperta,” disse, spinto da chissà quale misteriosa forza interiore a riservargli quelle premure.
Oswald gli rivolse uno sguardo sorpreso insieme al solito sorriso, che questa volta gli sembrò davvero genuino.
“Non serve, ma ti ringrazio. Buonanotte Jim.”
“Buonanotte,” rispose, per poi decidersi finalmente a imboccare il corridoio che portava alla propria camera da letto.
Trovò strano che un criminale fosse l’ultima persona che vedeva la sera, oltre che la persona a cui dare - e da cui ricevere - un augurio di buonanotte. Lo trovò davvero molto, molto strano, e si ritrovò a pensarci a lungo anche una volta che si fu messo a letto.
L'indomani, quando si svegliò e trovò Oswald in soggiorno che preparava la colazione, gli sembrò tutto meno strano rispetto al giorno prima.
“Buongiorno,” gli disse, attirato dal profumo di uova e bacon.
“Ben svegliato, James. Siediti pure, la colazione è quasi pronta,” lo invitò il criminale, e Jim fu ben contento di obbedire.
Il caffè era già in tavola, proprio dove lo aveva trovato la mattina prima, ma questa volta il detective fece caso al fatto che Oswald bevesse tè. Doveva averne trovata una confezione messa da parte molto tempo prima, perché Jim non lo consumava affatto.
Quindi il caffè lo aveva preparato appositamente per lui, perché fosse pronto al suo arrivo. Trovò che il gesto fosse premuroso, ma si sforzò di scacciare subito via quel pensiero.
“Serviti pure,” gli disse Oswald, posizionando un piatto pieno al centro della tavola.
Jim non se lo fece ripetere due volte, intanto che Oswald già consultava i suoi appunti mentre beveva un sorso di tè. Si era messo al lavoro sin dal primo mattino, forse perché annoiato dalla mancanza di cose da fare finché si trovava lì, forse perché determinato a ultimare presto la sua strategia.
E chissà che quella strategia non avesse a che fare proprio con l'andarsene.
Consumarono la colazione in silenzio, dopodiché Jim si alzò ricordando che voleva cercare un supporto che gli fosse utile nel camminare.
Si mise a guardare nell'armadietto all'ingresso, dove sapeva di avere almeno un ombrello in più, in caso di necessità. Dopotutto, era facile che si rompessero perciò averne uno di scorta faceva sempre comodo.
Individuò i suoi sul fondo del mobiletto, perciò dovette spostare diverse cose prima di riuscire ad arrivarci.
“Cosa cerchi?” gli chiese Oswald, avvicinandosi.
“Questo!” annunciò con fin troppa enfasi, porgendogli l'ombrello.
Era semplice e interamente nero, ma era anche l'ultimo che aveva comprato. Era il meno malandato, quindi quello che sarebbe durato di più, con un po’ di fortuna.
“Puoi usarlo, se vuoi,” gli disse con più calma, porgendoglielo.
Oswald osservò prima l'ombrello e poi lui, la sorpresa ben riconoscibile nel suo sguardo.
“Grazie,” gli disse, chiaramente felice per quella premura, e lo prese dalle sue mani con attenzione, come se fosse qualcosa di prezioso. “Sicuro che non ti serva? Sembra nuovo…”
Jim fece un cenno con la mano come per dire di lasciar perdere.
“Ne ho altri, nel caso dovesse piovere. Questo mi farebbe piacere se lo usassi tu,” rispose, quindi prese la giacca dall'attaccapanni perché ormai era ora di andare. “Purtroppo non ho altro che potrebbe andare bene e tornare a casa con un bastone avrebbe un che di sospetto.”
“Decisamente,” concordò Oswald, concentrato a esaminare l'ombrello mentre provava a impugnarlo e a pesarci sopra parte del suo peso, forse valutandone la solidità. “Ma non ce n'era bisogno.”
Jim rispose scuotendo la testa.
“A me non serve, quindi è tuo se lo ritieni utile,” insistette, sperando di non sembrare troppo pressante.
In effetti non sapeva nemmeno perché gli interessasse tanto.
“Adesso vado,” annunciò, mentre finiva di mettere le scarpe.
“Buon lavoro James,” lo salutò Oswald, non senza mostrargli un sorriso.
Jim si ritrovò a pensare a lungo a quel sorriso, mentre si dirigeva al lavoro. Non seppe nemmeno lui il perché.
Era felice di aver fatto una cosa buona per Oswald, visto quanto fosse inaspettatamente pacifica - e favorevole anche per lui - la loro convivenza.
Una volta entrato al lavoro, però, tutti quei pensieri stranamente felici vennero spazzati via.
Gli sguardi dei colleghi erano affilati come pugnali e Barnes era ancora di umore nero. Improvvisamente Jim si ritrovò catapultato nella realtà, una realtà in cui era l'assassino di Galavan e tutti i suoi colleghi sospettavano di lui, e in cui ospitava in segreto a casa sua l'altro sospettato.
Sospirò impercettibilmente mentre si metteva a sedere, sperando che nessuno lo disturbasse.
La sua dose di scartoffie mattutina era già pronta sulla sua scrivania, perciò non perse tempo e si mise al lavoro.
Con Galavan morto, e le indagini sul suo omicidio in mano ad altri detective, Jim si trovava a corto di cose stimolanti da fare. I pazzi che lui aveva fatto uscire da Arkham erano ancora in circolazione, alcuni di loro almeno, ma sembravano essersi dileguati.
“Buongiorno Jimbo!” lo salutò Harvey arrivando con passo sicuro.
Prima di mettersi a sedere gli porse un caffè preso d'asporto e un sacchetto di ciambelle.
“Buongiorno, a cosa devo l'onore?” gli chiese.
Non aveva affatto appetito dopo la colazione abbondante consumata a casa, ma decise di prendere comunque una ciambella visto che Harvey aveva avuto quel pensiero gentile.
“Ho pensato che qualcosa di dolce avrebbe risollevato un po’ il morale a tutti. Tranne a Barnes, per lui ci vorrebbe un miracolo,” aggiunse acidamente, e riprese il sacchetto per scegliere una ciambella anche per sé.
Chiamò a raccolta i colleghi e alcuni di loro si avvicinarono per prenderne una, ringraziando Harvey e fermandosi alla sua scrivania per scambiare due chiacchiere.
Jim bevve un sorso del suo caffè. La propria scrivania era proprio lì davanti e, dato che gli altri lo ignoravano, quella ressa iniziava a dargli fastidio.
“Ehi Gordon. Per la cronaca, io non ho sospetti su di te,” disse improvvisamente un collega, attirando gli sguardi degli altri presenti. “Hai visto quell'ombrello, no? È stato palesemente Pinguino!”
Altri annuirono.
Si trattava solo di un pugno di colleghi, ma questo cambiò drasticamente l'atmosfera e Jim ne fu sollevato.
Le chiacchiere continuarono giusto per un paio di minuti, il tempo che Barnes si affacciasse dal suo ufficio per gridare a tutti di tornare al lavoro.
“Grazie per prima, Harvey,” disse Jim al suo partner, mentre erano fuori per la pausa pranzo.
Avevano appena preso degli hot dog da mangiare al volo, niente di sofisticato ma almeno erano usciti all'aperto. Malgrado l'atmosfera fosse cambiata in meglio quella mattina, Jim era stato felice di poter prendere una boccata d'aria.
“E di che, quando vuoi. Anzi, magari potresti offrirmi la cena in cambio,” butto lì, probabilmente perché ormai il pranzo lo avevano già pagato.
E Jim fu sul punto di dirgli che andava bene, ma rimase in silenzio per un istante, conscio che Oswald si trovasse a casa sua e che lui non avrebbe avuto modo di avvisarlo del suo ritardo.
“Che c'è, hai già altri piani?” gli chiese il suo partner, sollevando un sopracciglio.
“Diciamo di sì,” rispose Jim, preferendo rimanere sul vago.
“Possiamo parlare?”
Jim alzò lo sguardo dal documento che stava compilando e non poté fare a meno di nascondere la sorpresa quando vide Lee davanti alla sua scrivania. Anche Harvey la stava osservando, dalle sue spalle, ma notando lo sguardo di Jim tornò al lavoro facendo finta di niente.
“Certo…” le disse, domandandosi cosa volesse.
Lee lo stava ignorando da un po’, ovvero da quando le indagini sul caso Galavan si erano fatte scottanti e Jim aveva perso lucidità. Dopo tutti i suoi discorsi sul “lato oscuro” di Jim e i tentativi di psicanalizzarlo senza però offrirgli davvero un aiuto, lo aveva cacciato dal suo appartamento e non aveva dimostrato alcun segno di ripensamento.
E così Jim si era buttato sul lavoro, scoprendo che lei non gli mancava poi così tanto. Soprattutto dal momento in cui non lo capiva e lo trattava in quel modo.
“In privato,” suggerì la dottoressa, quindi con un sospiro malcelato il detective si alzò e la seguì al piano di sotto, dove c’erano i laboratori della scientifica.
“Come stai, Jim?”
“Una favola,” rispose, senza nemmeno provare a nascondere la sua ironia.
“Sul serio, Jim, sono preoccupata. Ci ho riflettuto e non credo che tu possa essere stato capace di commettere un omicidio, ma tutta questa pressione per il fatto che sei un sospettato sarebbe troppo pesante per chiunque,” argomentò, e lui capì dal suo sguardo che era davvero in pensiero.
Però non gli importava. Scoprire che lo aveva creduto colpevole non fu una sorpresa per lui, che anzi lo aveva dato per scontato. In quanto a sapere che ora avesse cambiato idea… Beh, sentiva che non lo riguardasse affatto.
“Ho sopportato situazioni peggiori,” buttò lì, evitando di sottolineare che era stato un soldato.
Anche il periodo in cui a Gotham rischiava di scatenarsi una sanguinosa guerra tra bande era stato tosto, ma quella volta Jim non era stato davvero sotto ai riflettori. Non a lungo, almeno, perché era vero che lo avevano creduto l’assassino di Oswald Cobblepot, ma poi lui si era presentato alla centrale a dimostrare a tutti di essere ancora vivo.
In effetti quella era solo una delle volte in cui il criminale lo aveva salvato.
“Fammi un favore, non preoccuparti più per me,” le chiese, pronto ad andarsene, ma Lee lo afferrò per un braccio.
“Jim, aspetta! Mi dispiace per come mi sono comportata. Avrei dovuto esserci, sostenerti, e invece ti ho lasciato solo… Mi manchi,” aggiunse, nello sguardo la speranza di convincerlo a tornare da lei.
Lui non si mosse e continuò a guardarla con freddezza, al che la dottoressa gli lasciò libero il braccio.
“Siamo stati bene insieme, Lee,” le concesse, ma nemmeno un po’ di malinconia emerse dalla sua voce. “Ma è finita ormai. Ti auguro di essere felice.”
Detto questo, imboccò le scale senza guardarsi indietro.
Quando tornò seduto alla propria scrivania lo fece con uno sbuffo e con l’umore leggermente peggiorato. Harvey lo studiò con sguardo attento, ma alla fine non disse niente né gli chiese cosa fosse successo.
“Bullock! Gordon!” li chiamò Barnes, facendoli sobbalzare entrambi.
Il motivo per cui li volesse vedere doveva avere a che fare con il lavoro, non con il caso sulla morte di Galavan, altrimenti non avrebbe chiamato anche Harvey.
“C’è stato un omicidio,” annunciò, e loro si alzarono in piedi.
Il resto del pomeriggio fu impegnativo, ma Jim fu felice di non doversi occupare delle scartoffie per un po’.
Lui e Harvey si recarono sul posto insieme a Edward Nygma e altri due agenti, e qui trovarono una donna morta. Un uomo dall’aria scossa aveva scoperto il cadavere e uno degli altri poliziotti stava già procedendo a raccogliere la sua deposizione.
Loro esaminarono la scena del crimine e dopo, una volta tornati alla sede della GCPD, cercarono di mettere insieme le informazioni a loro disposizione.
Era tardi e non avevano particolari piste da seguire per il momento, perciò staccarono dal lavoro alla solita ora per tornare ognuno a casa propria.
Una volta giunto fuori dal suo appartamento, Jim vide la luce accesa e registrò nella sua mente il fatto che Oswald si trovava ancora lì, ma si sarebbe stupito altrimenti. Ciò che lo stupì fu che non gli dispiaceva di sapere il criminale ancora in casa sua, anzi solo una volta dentro poté tirare un sospiro di sollievo dopo la lunga giornata lavorativa.
“Giornata intensa?” gli chiese Oswald.
Si era voltato nella sua direzione mentre cucinava, una grossa pentola davanti a lui e il mestolo ancora in mano. Gli stava sorridendo come al solito e, suo malgrado, Jim dovette ammettere che vederlo lo fece sentire un po’ meglio.
“Sì,” rispose brevemente.
Dopo essersi tolto la giacca e le scarpe raggiunse il mobiletto degli alcolici e vi estrasse una bottiglia di scotch, quindi se ne versò un bicchiere. Sentiva di averne bisogno, e il calore del liquore che gli scendeva in gola gli fu di conforto.
Mentre finiva il suo bicchiere, stando in piedi accanto al mobiletto, il suo sguardo si posò ancora su Oswald. Aveva l’aria felice mentre cucinava per loro, e qualsiasi cosa fosse aveva un buon profumo.
Tornare a casa e trovarlo intento a cucinare era un po’ come essere sposati, o come convivere. Come se avessero una relazione.
Il pensiero attraversò la mente di Jim e lui non lo trovò disgustoso, stranamente. Anzi, per qualche motivo avvertì una stretta al petto perché non era così.
Jim era single e Oswald… Beh, era un criminale, e per di più stava al vertice della malavita della città. Se anche fossero stati insieme, non sarebbe rimasto a casa sua per sempre. Presto Jim avrebbe ripreso a tornare a casa e a trovarla fredda, vuota, e a scaldarsi con una cena presa d’asporto da qualche parte.
Oppure avrebbe conosciuto qualcuno e intrapreso una nuova relazione, e quindi si sarebbe fermato spesso da questa persona, come era solito fare. Ma il pensiero, per qualche motivo, gli diede la nausea.
“Qualcosa non va?” gli chiese Oswald, rivolgendogli uno sguardo preoccupato.
Doveva essersi accorto che Jim non aveva mai smesso di osservarlo da quando era rientrato a casa.
Scosse la testa e guardò il suo bicchiere ormai vuoto, quindi lo posò sul bancone.
“Sono solo stanco,” disse, consapevole che si trattasse di una mezza verità. “Se vuoi prendine anche tu,” aggiunse, facendo riferimento allo scotch, e finalmente si decise ad andare a farsi una doccia.
I pensieri di poco prima non lo abbandonarono, lanciandolo in riflessioni scomode che lo turbarono. Perché sapere Oswald che lo aspettava a casa lo faceva sentire bene? E perché sapere che presto se ne sarebbe andato gli provocava sconforto?
Davvero Jim si sentiva così solo che stava iniziando ad abituarsi al ruolo che Oswald si era scelto finché stava a casa sua?
Questa domanda senza risposta gli fece sperare ancora di più che se ne andasse presto, così da togliergli dalla testa ogni pensiero molesto che lo riguardava.
Quando tornò in soggiorno, con indosso vestiti comodi e con i capelli ancora umidi, lo trovò che riempiva i piatti. Aveva preparato una zuppa ricca che si rivelò anche molto buona. Proprio ciò che ci voleva, dopo aver affrontato il freddo della sera per tornare a casa.
Jim si accorse di star osservando Oswald solo quando lui incontrò il suo sguardo, e nei suoi occhi lesse dell’imbarazzo. Così il detective tornò a concentrarsi sul proprio piatto, o almeno ci provò.
Iniziava ad apprezzare i loro momenti silenziosi insieme, nei quali poteva rilassarsi o perdersi segretamente a guardarlo, a constatare come anche i movimenti semplici che compieva mentre mangiava sembravano studiati, eleganti.
E quando Jim se ne accorse lo trovò molto grave, quindi decise di prendere parola.
“Come sta andando la ricerca di un altro rifugio?” gli chiese.
Non voleva sembrasse che intendeva mettergli fretta, ma un po’ era così. Inoltre non voleva dargli l’impressione di potersi fermare a oltranza… anche se una parte di Jim stava iniziando a trovarlo accettabile, anzi persino piacevole come scenario.
Oswald si pulì le labbra con un tovagliolo e gli offrì un sorriso tirato. Jim, per qualche motivo, si ritrovò a osservare la sua bocca per un momento di troppo prima di riscuotersi e tornare a guardare il proprio piatto, fingendo indifferenza.
“Ci vorrà ancora un po’ di pazienza, temo. I miei uomini hanno incontrato diversi problemi.”
Probabilmente i problemi in questione erano stati causati dalle indagini di Barnes, si disse Jim, ma forse non era tutto. Sapeva che Butch Gilzean aveva preso il controllo della malavita di Gotham, ed era ovvio che cercasse di ostacolare le macchinazioni di Pinguino, per paura di perdere già il potere che si era ritrovato tra le mani.
E in effetti, dato che Butch era stato un suo sottoposto, era probabile che anche lui conoscesse i rifugi segreti di Oswald, o almeno alcuni di essi.
“Ma non temere, non mi tratterrò qui a lungo. Se non dovessi ricevere buone notizie entro la fine della settimana, penserei a un altro piano.”
Jim annuì, trattenendo l’impulso di dirgli che per lui non era un problema. Non poteva farlo, quegli stupidi pensieri superflui dovevano rimanere nascosti nelle profondità della sua mente, per essere conosciuti da lui e da nessun altro.
“Come passi il tempo quando non ci sono?” gli chiese, accorgendosi che non se ne era ancora interessato apertamente.
Oswald doveva essersi annoiato molto, rinchiuso in quella casa.
“Principalmente lavoro, metto a punto le mie prossime mosse o chiedo aggiornamenti ai miei sottoposti. Per telefono, ovviamente. Nessuno di loro sa di preciso dove io mi trovi,” sottolineò, perché sapeva che Jim non voleva altri criminali in casa sua. “A volte accendo la televisione per sentire come vanno le cose in città.”
Aveva risposto, visibilmente sorpreso dall’interesse di Jim, ma probabilmente poteva comprenderlo. Dopotutto, restava in casa sua tutto il giorno, anche mentre lui era fuori.
Era così strano che Jim se ne interessasse? O lo era perché si trattava di Oswald? Jim lo chiese a se stesso, ma iniziava a sentirsi molto confuso a riguardo.
Il silenzio calò di nuovo e, mentre finiva di mangiare, Jim si ritrovò a osservarlo ancora, questa volta consapevolmente, cercando di essere più discreto.
Le sue dita affusolate che tenevano il cucchiaio, la sua espressione rilassata, i suoi occhi chiari e svegli, sempre pronti ad analizzare ciò che accadeva…
C’era qualcosa di magico nell’avere Oswald nel suo salotto, mentre nessun altro sapeva che lui si trovasse lì. Era ricercato al momento, ma nessuno si sarebbe mai sognato di andare a cercarlo nell’appartamento di Jim Gordon, per quanto fosse anche lui un sospettato nello stesso caso.
Ancora una volta fu lui a finire di mangiare per primo, e mentre posava i piatti nel lavello ebbe un’idea che decise di non ignorare.
“Torno subito,” annunciò, e andò nella sua stanza con l’intenzione di cercare qualcosa nell’armadio.
Oswald si era portato un solo cambio d’abito, che evidentemente aveva pronto nella sua auto per ogni evenienza. Auto che aveva fatto recuperare da uno dei suoi uomini, perché non iniziassero a cercarlo in quella zona se l’avessero trovata.
Quel cambio era un altro dei suoi completi e Oswald lo aveva indossato proprio quel giorno, il che fece domandare a Jim se non avesse bisogno di altro, e se non fosse scomodo a rimanere sempre con quei vestiti addosso.
Quanto ad altre necessità, Jim aveva prodotti per il bagno a sufficienza e persino qualche spazzolino nuovo per ogni evenienza, ma ai vestiti non aveva proprio pensato. E come per il bastone, immaginò che sarebbe sembrato sospetto se qualcuno lo avesse visto acquistare degli abiti che non erano della sua taglia.
Sapeva però di aver conservato dei vestiti acquistati in passato per sbaglio, perché non della taglia giusta, e presto li trovò. Si trattava di un paio di pantaloni, ma anche di una maglietta e un maglione, tutto quanto in dei tessuti comodi sui toni scuri. Niente di troppo brutto da indossare per uscire, ma sapeva che Oswald non lo avrebbe mai fatto.
Se li avesse accettati, però, magari sarebbe stato più comodo a dormire con quelli, piuttosto che in camicia e pantaloni del completo.
Jim prese i vestiti piegati e li portò con sé in soggiorno, mentre si sentiva sempre più in imbarazzo all’idea di proporgli di prenderli.
Oswald stava già lavando i piatti, e Jim se ne dispiacque perché sentiva che almeno quel compito doveva rimanere suo, quindi posò gli indumenti sul divano e lo raggiunse con l’intenzione di fermarlo.
“Non serve che li lavi tu,” gli disse, prendendogli dalle mani il piatto che stava asciugando.
“Per me non è un problema,” rispose Oswald, rivolgendogli uno dei suoi soliti sorrisi.
“Insisto. Qui finisco io,” dichiarò, e posò il piatto con l’intenzione di pensarci dopo.
Oswald probabilmente non si era ancora fatto la doccia quel giorno. Anche il giorno prima, Jim lo aveva sentito andare in bagno e aprire l’acqua solo dopo essersi chiuso nella propria stanza per la notte.
Probabilmente stava facendo così per non creargli problemi occupando il bagno, chissà. In ogni caso, doveva proporgli subito i suoi vestiti altrimenti avrebbe cambiato idea per il disagio che provava solo a pensarci.
“Ho pensato che magari volessi cambiarti, anche solo per la notte,” buttò lì evitando di guardarlo in faccia, mentre si muoveva verso il divano per riprendere in mano i vestiti. “Questi li ho comprati tempo fa e non mi vanno. Ho pensato che magari potrebbero essere della taglia giusta per te.”
Oswald sgranò gli occhi e schiuse le labbra, ma non diede subito voce ai suoi pensieri così Jim continuò.
“Se non dovessero andare bene, sentiti libero di cercare qualcosa nel mio armadio mentre non ci sono,” disse, ma subito temette di aver esagerato.
Perché si stava dimostrando così disponibile, oltre che premuroso? Non aveva senso, eppure c’era una forza che gli attanagliava il petto e che gli suggeriva che fosse giusto così.
“Non potrei mai, Jim,” rispose finalmente Oswald, ma non era ciò che lui aveva sperato.
“Insisto,” ribatté quindi, avvicinandosi perché li prendesse. “Deve essere scomodo rimanere così per tutto il giorno. Sei a casa mia, non fare complimenti e va’ pure a fare la doccia se vuoi.”
Oswald finalmente si decise e accettò i vestiti con mani tremanti, sibilando un “grazie” che sapeva di incertezza. Jim si domandò se non avesse forzato troppo la mano, e se lui non avesse accettato solo per zittirlo, o in nome della riconoscenza visto che gli stava dando asilo in casa sua.
Non era certo di aver fatto qualcosa di buono. In ogni caso, il criminale si chiuse in bagno e Jim scacciò via ogni pensiero superfluo tornando al lavello per asciugare le stoviglie e metterle via.
Quando Oswald tornò in soggiorno, Jim si era seduto sul divano e stava guardando le notizie in televisione. L’ex sindaco Aubrey James era tornato a far parlare di sé, accettando di ricoprire la carica che gli era stata offerta fino alle successive elezioni. Il che aveva dello scandaloso.
Certo, Galavan lo aveva rapito e aveva vinto l’opinione pubblica con l’inganno, ma il sindaco James era un corrotto.
Sentendo i passi di Oswald, Jim si voltò e rimase sorpreso dal suo aspetto.
Aveva indossato davvero i suoi vestiti, che su di lui sembravano leggermente grandi ma comodi. Il tessuto dei pantaloni era un po’ troppo lungo, ma questo non sembrava dargli problemi nei movimenti. Inoltre aveva lavato via le restanti tracce di gel dai capelli, e le ciocche che normalmente gli ricadevano sulla fronte adesso erano state riportate dietro un orecchio.
Vedere la sua fronte scoperta lasciò Jim quasi più spiazzato rispetto che vederlo con addosso dei vestiti casual.
“Sono ridicolo?” gli chiese Oswald, con l’imbarazzo che gli imporporava leggermente le guance.
E Jim dovette sforzarsi per non ripensare a quell’adorabile dettaglio, perché ormai lo aveva notato e quindi era troppo tardi per cancellarlo dalla sua mente.
“No,” rispose, con un briciolo di esitazione nel tono. “Pensavo solo che se uscissi così nessuno ti riconoscerebbe.”
Oswald rise e la sua espressione passò da incerta a genuinamente divertita.
“Mi stai cacciando via, detective?” gli chiese, al che Jim non poté evitare di ricambiare il suo sorriso.
“Nah. Vieni a sederti,” lo invitò, facendosi più in là sul divano.
Quella proposta si rivelò subito estremamente stupida.
Il divano di casa sua non era poi così grande, anche se all’occorrenza ci si poteva dormire sopra. Il che comportava che ci fosse uno spazio vuoto tra loro due, ma che fossero comunque più vicini che mai.
E in questo modo Jim poté sentire su Oswald il profumo dei suoi prodotti per il bagno, il che gli diede alla testa. Si impegnò con tutte le sue forze per non pensarci, ma alla fine cedette e si alzò, intenzionato a chiudersi nella propria stanza.
“Vado a dormire,” annunciò, e senza più guardarlo in faccia sparì nel corridoio.
L’indomani, quando si svegliò, trovò Oswald seduto a tavola che leggeva un vecchio giornale. La colazione era già pronta, perciò dopo averlo salutato si accomodò per mangiare qualcosa in fretta mentre beveva la sua tazza di caffè.
Sarebbe voluto scappare al lavoro, perché quella notte non aveva fatto altro che pensare a lui, il che gli faceva credere di essere impazzito.
Improvvisamente vedere il viso di Oswald come prima cosa al mattino, sentire la sua voce dolce che gli augurava una buona giornata, non era più qualcosa di sgradevole. Anzi, gli causava delle sensazioni piacevoli che si portava dentro, almeno finché non varcava le porte della sede della GCPD.
Cosa sarebbe stato meglio, correre al lavoro a farsi trafiggere da decine di sguardi sospettosi o trattenersi un altro po’ a casa con lui, finché ne aveva il tempo?
E così Jim si alzò da tavola deciso a lavare i piatti, perché in effetti al mattino usciva in tutta fretta senza neanche pensare a mettere in ordine.
Quando Oswald gli si avvicinò, Jim non ci fece nemmeno caso talmente era perso nei suoi pensieri.
“Me ne sarei occupato io,” dichiarò il criminale, appoggiando con delicatezza una mano sulla sua spalla destra.
Jim inalò rumorosamente, colto alla sprovvista, e serrò la sua presa sul piatto che stava pulendo.
“S-scusami, non intendevo toccarti,” disse subito Oswald con voce tremante, ritraendo la mano.
Jim tornò in sé, scosse la testa per fargli capire che non era successo niente e si voltò alla sua destra, dove lo trovò che si stringeva la mano incriminata nell’altra, tenendo lo sguardo basso.
“Ero solo sovrappensiero,” precisò, mentre gli consegnava il piatto.
Oswald lo prese e tornò a guardarlo negli occhi, ancora scosso da quel rifiuto del suo tocco.
Gli occhi di Jim si ancorarono ai suoi quasi fossero magneti che lo attraevano. Si perse in essi, distraendosi di nuovo da ciò che stava succedendo.
“Qualcosa non va?” gli chiese quindi Oswald.
“Forse…” si lasciò scappare Jim, che non si era accorto di aver schiuso le labbra mentre lo ammirava. “Vado al lavoro,” annunciò poi, e dopo averlo detto si affrettò a mettere le scarpe, prendere la giacca e uscire, senza accorgersi di avere ancora le mani bagnate.
Quel giorno Jim non fece caso alle occhiate dei colleghi mentre varcava le porte d’ingresso, perché troppo preso dai pensieri che ancora gli frullavano in testa.
Ricambiò i saluti dei pochi agenti che avevano ripreso a rivolgergli la parola e andò a sedersi al proprio posto, dove si mise subito al lavoro sul caso. Harvey lo raggiunse poco dopo, apparentemente di buon umore, e dopo averlo salutato fece lo stesso.
Per fortuna avevano un caso a cui dedicarsi, altrimenti per Jim sarebbe stato difficile non distrarsi.
“Ti vedo bene, Jimbo,” gli disse il suo partner, mentre erano in pausa pranzo.
Già che erano usciti per andare a interrogare dei sospettati, si erano fermati in un diner e adesso stavano aspettando che la cameriera portasse loro il pranzo.
“In che senso?” gli chiese Jim, intuendo che c’era un sottinteso nelle parole dell’amico.
“Dopo la morte di Galavan eri uno straccio, ma adesso hai ripreso colorito. E visto come ti sei comportato quando hai visto Lee ieri, non credo che sia merito suo…” osservò, al che Jim si grattò nervosamente la nuca.
“Non parliamo di Lee, per favore,” gli chiese, in un tentativo disperato di portare altrove il pensiero del suo partner.
“Ma io non voglio parlare di lei,” sottolineò lui, accennando un sorriso a mezza bocca. “Tu ti vedi con qualcuno, di’ la verità. La donna dell’appuntamento di ieri sera.”
Jim strabuzzò gli occhi, poi ricordò di avergli lasciato credere che era impegnato con qualcuno a cena. E in effetti non era poi falso.
“Non mi sto davvero vedendo con qualcuno,” rispose, dopo aver ponderato attentamente cosa dire.
“Non provare a raccontarmi cazzate. Ieri sera non vedevi l’ora di andare via, ed è tutto il giorno che hai la testa altrove.”
Jim abbassò lo sguardo sulla sua tazza di caffè e ne bevve un sorso per prendere tempo.
“Forse è vero che mi sto vedendo con qualcuno… ma non è come pensi,” precisò.
“Scopate e basta quindi? Ma no Jim, io avrei detto che da parte tua c’è del sentimento,” ribatté, e lui spalancò gli occhi per l’indignazione.
“No! Non c’è proprio niente per ora!” esclamò, mantenendo basso il tono di voce.
Proprio in quel momento la cameriera li raggiunse con i loro piatti e Jim la ringraziò mentalmente per averli interrotti.
“Per ora…” ripeté con malizia Harvey, mentre prendeva in mano il suo hamburger.
Jim lasciò libero un sospiro.
“È un uomo, Harvey,” gli rivelò con fatica.
Per non parlare di quale uomo fosse…
Il suo partner rimase fermo per un istante, la bocca aperta per mordere il suo panino mentre la sorpresa prendeva il sopravvento.
“E allora? Non è mai troppo tardi per scoprirsi dell’altra sponda, evidentemente. Goditela!” lo incoraggiò, e finalmente riuscì ad addentare il suo pranzo.
Jim rimase stupito dalla sua reazione, ma decise di non commentare oltre. Se solo avesse saputo di chi si trattava, era certo che Harvey sarebbe impallidito e lo avrebbe dissuaso in ogni modo possibile.
Ma non poteva dirglielo, nessuno doveva sapere che Oswald Cobblepot si nascondeva in casa sua. E dato che si trovava lì, era difficile scampare all’effetto che iniziava ad avere su Jim. Insomma, incominciava a sentirsi fottuto e non ne era del tutto dispiaciuto.
Non del tutto, ma in parte sì perché razionalmente non riusciva a capire come fosse finito in quella situazione, né accettava che a piacergli fosse un uomo e per di più un criminale del suo calibro.
Ma ormai non poteva più mentire a sé stesso, Oswald gli piaceva. Dannazione, aveva sempre cercato di tenersene alla larga, ma adesso che vivevano sotto lo stesso tetto si era scoperto improvvisamente interessato a lui, il che aveva dell’assurdo!
Oswald si era sempre comportato bene con lui, era stato felice di vederlo e gli aveva fatto dei favori assicurandogli che non avrebbe mai chiesto niente in cambio. Ma non c’era altro, Jim non aveva mai letto nessun secondo fine nel suo comportamento e non poteva esserci.
Si era invaghito di un criminale che aveva sempre cercato di essergli amico, e doveva fingere - per il proprio bene - che non fosse così. Ma come fare, visto che se lo ritrovava in casa?
“Non dirlo a nessuno, Harvey,” gli chiese, prima di prendere in mano il suo hamburger per decidersi finalmente a mangiare, anche se la fame gli era passata.
“E a chi vuoi che lo dica? Ho la bocca cucita.”
Il pomeriggio fu particolarmente fruttuoso, infatti lui e Harvey individuarono il colpevole e lo portarono alla centrale. Una notte in cella e avrebbe confessato, era solo questione di tempo.
“Andiamo a bere qualcosa?” propose Harvey, in vena di festeggiamenti.
Jim stava per accettare, ma poi il sorriso gli si spense sul viso al pensiero di non tornare subito a casa da Oswald.
“Ho capito, vado da solo,” disse il suo partner, dandogli una pacca sulla spalla un attimo prima di indossare la giacca per andarsene.
Sulla strada di casa, Jim si fermò a prendere la cena d’asporto. Era presto, quindi aveva motivo di credere che Oswald non avesse ancora preparato niente da mangiare.
Se poteva, quella sera intendeva risparmiarglielo. Aveva già fatto tanto, che fosse per la volontà di ripagare la sua ospitalità o meno, e anche Jim voleva fare qualcosa per lui. Ma soprattutto, voleva festeggiare il modo in cui si era conclusa la giornata lavorativa.
Appena rientrato in casa trovò Oswald che puliva il bancone della cucina. Tutta la casa in realtà aveva un buon odore, e persino lo strato di polvere che decorava i suoi pochi libri era sparito.
“Sei tornato presto,” osservò Oswald, prima di voltarsi per finire il lavoro.
Quel giorno indossava il maglione che gli aveva offerto Jim, ma sotto di esso portava uno dei pantaloni dei suoi completi. Il tessuto era attillato e, senza la lunghezza della giacca a nascondergli il sedere, Jim si ritrovò a osservarlo. Dovette sforzarsi per spostare lo sguardo altrove e dimenticare momentaneamente ciò che aveva immaginato.
“Sì. Oggi io e Harvey abbiamo risolto un caso,” disse, per spostare la sua attenzione verso argomenti sicuri. “Grazie per aver pulito la casa… Ammetto che ce n’era bisogno, ma non dovevi sentirti in dovere di farlo tu.”
“Oh, ma non è stato così,” ribatté Oswald. “Non avevo molto da fare e mi serviva qualcosa per tenermi impegnato.”
Jim continuò a osservarlo mentre metteva via lo straccio e si lavava le mani. Gli sembrava più allegro del solito.
“Ho comprato la cena,” annunciò, accorgendosi di avere ancora i sacchetti in mano. “Volevo festeggiare e mi dispiaceva che cucinassi tu per la terza sera di fila.”
“Avresti potuto uscire con i tuoi colleghi,” osservò il gangster, sorpreso.
“Preferivo tornare a casa,” ammise Jim, dopo un attimo di indecisione.
Sperò che non intuisse che c’era dell’altro, anche se effettivamente era così. Voleva tornare per festeggiare insieme a lui.
Oswald gli rivolse un sorriso che da solo bastò a confermargli che aveva fatto bene a prendere quella decisione.
“Apparecchio io la tavola,” si offrì, quindi Jim gli consegnò i sacchetti e andò a lavarsi le mani.
Aveva preso la cena in un ristorante cinese della zona, e aveva abbondato non sapendo cosa gli potesse piacere, perciò alla fine si trovarono entrambi con tanto tra cui scegliere e tanto da assaggiare, e probabilmente sarebbe avanzato qualcosa anche per l’indomani.
Si era decisamente fatto prendere la mano.
Aveva preso anche due birre perché non gli sarebbero sembrati veri festeggiamenti senza alcolici, e Oswald ne accettò volentieri una.
Durante la cena si dimostrò interessato al caso e così Jim gli raccontò qualche dettaglio, convinto del fatto che ormai il loro sospettato avrebbe confessato.
“In quanto alle indagini su di me, hai idea di come stiano procedendo?” gli chiese poi, non sembrando affatto turbato.
Jim scosse la testa.
“Non so molto. Barnes crede ancora che io c’entri qualcosa con la morte di Galavan… Temo che non si darà pace finché non ti avrà trovato. Però non credo ci siano grosse novità, altrimenti ne avrebbero parlato tutti al distretto,” rifletté ad alta voce.
Era strano, ma dopo il primo giorno Jim aveva cambiato completamente atteggiamento a riguardo. Se all’inizio si era sentito sempre sul punto di essere scoperto, e aveva temuto che andassero a cercare Oswald persino a casa sua, lentamente aveva iniziato quasi a dimenticarsi di tutto quanto.
A casa aveva altro a cui pensare e le sue preoccupazioni svanivano del tutto, invece al lavoro gli era stato finalmente affidato quel caso, il che lo aveva tenuto impegnato. Gli ultimi due giorni non erano andati poi così male, anche se non avrebbe potuto affermare di sentirsi davvero sereno quando si trovava alla sede della GCPD.
Alle sue parole Oswald annuì e un sorriso compiaciuto si aprì sul suo viso.
Che fosse contento di essere ritenuto il colpevole? Di aver lasciato il segno? Impossibile, non a quel punto almeno. Galavan era morto da tre giorni e Oswald non gli era mai sembrato tanto allegro, in effetti.
“Perché lo chiedi?” domandò Jim, intenzionato a indagare sulla cosa.
Oswald alzò lo sguardo dalla sua cena e rivolse a lui quel sorriso, gli occhi che gli brillavano di entusiasmo.
“Perché forse tutto quanto sta per risolversi,” rivelò, spiazzando completamente Jim. “Non intendo cantare vittoria prima del tempo, ma in mancanza di un altro rifugio in cui spostarmi ho deciso di prendere in mano la situazione.”
“Cosa vuoi dire?” gli chiese il detective, posando le sue bacchette.
Oswald sembrava felice che glielo avesse chiesto, forse perché voleva vantarsi del suo piano.
“Ho pensato a una nuova strategia per tirare fuori entrambi dai guai e ho messo in moto gli eventi. Vedrai,” disse, senza però rispondere davvero alla sua domanda.
Jim non reagì, se non tornando concentrato sulla propria cena. L’idea che Oswald stesse per lasciare casa sua gli strinse lo stomaco in una morsa.
Aveva detto che avrebbe pensato a un piano se non avesse trovato un rifugio sicuro entro la fine della settimana, ma era solo giovedì. Jim non si aspettava che agisse prima, non aveva minimamente considerato la possibilità.
Ma era così che le cose sarebbero dovute andare. Se ne sarebbe andato, presto o tardi, e se sarebbe successo prima del previsto allora tanto meglio. Jim provò a dirsi questo, anche se sapeva di non pensarlo davvero.
“Metto io a posto,” dichiarò quando entrambi ebbero finito. “Vai pure a lavarti per primo, se vuoi.”
“Grazie, allora ne approfitto,” rispose Oswald, alzandosi e dirigendosi verso il bagno.
Adesso che era solo, Jim sospirò. Prese gli avanzi e li mise nel frigo, dopodiché buttò le confezioni vuote e finì la poca birra rimasta. Cercò di schiarirsi le idee ma lo trovò impossibile, e quindi si sedette sul divano e accese il televisore in attesa che Oswald tornasse.
Ci mise poco, e quando tornò da Jim lo fece con indosso la maglietta e i pantaloni che gli aveva prestato.
Il detective cercò di non pensarci e si chiuse in bagno a sua volta. La stanza era ancora calda e questo fece virare i suoi pensieri in territori pericolosi, che Jim non era certo di voler esplorare.
Inoltre era tutto pulito, e il detective cercò di concentrarsi su questo. Oswald doveva aver pulito da cima a fondo anche il bagno, il che era sorprendente.
Anzi, era assurdo pensare che proprio lui aveva fatto questo. Il criminale più pericoloso di Gotham, che probabilmente alla sua villa non muoveva un muscolo, preferendo che fossero i suoi sottoposti a occuparsi di tutto. Eppure si era dimostrato in grado - e volenteroso - di fare i lavori di casa, forse perché non aveva trovato di meglio per passare il tempo.
Aprì l’acqua calda, si spogliò in fretta ed entrò nella doccia.
Se Oswald fosse stato una donna, e lui lo avesse ospitato per qualsivoglia motivo, Jim gli sarebbe saltato addosso molto presto, non riuscendo a negare l’attrazione che provava. Ma lui era un uomo, e questo non era nemmeno il maggiore dei problemi.
Tra loro c’erano così tanti trascorsi spiacevoli, per non parlare dei loro ruoli nella società che li rendevano agli antipodi, che era difficile per Jim ragionare lucidamente, perché avrebbe dovuto considerare tutto quanto.
Ma francamente, iniziava a non interessargli più.
Oswald era lì, in casa sua, e magari se ne sarebbe andato già l’indomani. Se voleva fare qualcosa per cambiare la loro relazione, o almeno provarci per evitare di restare con il rimpianto, il momento era ora.
Uscito dalla doccia normalmente sarebbe andato nella sua camera, invece questa volta tornò in soggiorno. La tv era ancora accesa e trasmetteva l’ennesimo discorso di Aubrey James.
Dopo che erano emerse le prove del suo rapimento per mano di Galavan, il sindaco James aveva ritrattato la sua dichiarazione secondo cui a rapirlo sarebbe stato Pinguino. In ogni caso, ora insisteva che andava catturato e processato per l’omicidio di Theo Galavan, altrimenti la città non sarebbe mai stata sicura.
Aubrey James girava in base al vento, basando le sue dichiarazioni su quelle del miglior offerente. O forse, in questo caso, stava solo cercando di riportare dalla sua parte l’opinione pubblica, e aveva deciso di farlo sfruttando quello che poteva diventare un nemico comune.
Jim spense il televisore, infastidito al pensiero dei trascorsi che c’erano stati con il sindaco. Se solo non avesse ritrattato la sua testimonianza durante il processo, allora magari Galavan sarebbe stato vivo, rinchiuso a Black Gate, e loro non sarebbero stati indagati.
Però così Oswald non sarebbe stato lì con lui.
Jim vide che era tornato in cucina e stava parlando al telefono. Sembrava molto felice, il che gli mise curiosità. Con chi stava parlando? Avrebbe voluto saperlo, ma sarebbe stato maleducato avvicinarsi apposta per origliare.
Comunque non ce ne fu l’occasione, perché Oswald notando il suo ritorno salutò e chiuse la chiamata.
“Pensavo che saresti andato subito a dormire,” gli disse, mentre Jim si avvicinava con la scusa di versarsi un bicchiere d’acqua.
“Tra poco,” rispose solo, quindi si riempì un bicchiere e ne bevve un sorso. “Con chi stavi parlando, se posso chiedere?”
“Oh, solo con un vecchio amico,” rispose Oswald con un sorriso, liquidando la questione.
Sentire quell’appellativo rivolto a qualcun altro gli fece male, ma cercò di non badarci.
“Anche io sono un vecchio amico, ma non ho il tuo numero,” gli fece notare, dando voce ai suoi pensieri.
Oswald gli rivolse uno sguardo sorpreso, forse perché aveva ammesso per la prima volta che erano amici, forse perché gli aveva appena chiesto il suo numero.
“P-possiamo rimediare subito,” dichiarò con un tremito di incertezza nella voce e un sorriso diverso a increspargli le labbra.
Jim ricambiò il sorriso e prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni, pronto ad aggiungerlo alla rubrica. Si rese conto da solo che non avrebbe dovuto segnare il suo nome completo, per non rischiare che qualcuno lo vedesse, ma decise che ci avrebbe pensato in un secondo momento.
“Posso?” gli chiese Oswald, e Jim gli passò il suo cellulare.
Salvò il numero per lui, ma non gli chiese se potesse fare lo stesso. Quando Jim si riprese il telefono, sfiorandogli volutamente le dita, fece partire subito una chiamata.
“Ecco, adesso anche tu hai il mio,” dichiarò.
Ancora una volta lo vide sorridere come se quel gesto non fosse affatto scontato. Come se pensasse che Jim non avrebbe voluto che il proprio numero fosse nella sua rubrica telefonica. Un tempo era stato così, certo, ma adesso non più.
“Credi che te ne andrai presto?” gli chiese, per prepararsi psicologicamente.
“Sì, non sarò un disturbo ancora a lungo,” disse subito, mentre rimetteva il telefono in una delle tasche dei pantaloni.
“Non sei un disturbo,” ribatté Jim, dando finalmente voce ai pensieri che aveva cercato di soffocare in quei giorni. “Credo che sentirò la tua mancanza…”
E non gli sarebbe mancato perché lo aspettava a casa o perché cucinava per lui. Anche se la sua cucina gli sarebbe mancata, e questo era pronto ad ammetterlo.
Gli sarebbe mancato perché era lui, e perché in quei giorni aveva capito cosa significava viverci a stretto contatto. E aveva scoperto che non era qualcosa di brutto, anzi era qualcosa che avrebbe voluto continuasse.
Non si pentì di averlo detto perché vide Oswald arrossire mentre gli rivolgeva uno sguardo incredulo, le labbra schiuse per la sorpresa.
“Mi stai prendendo in giro, James? Non è divertente…” gli disse a bassa voce, aggrottando leggermente le sopracciglia.
“Non potrei mai,” rispose e diminuì di un passo la già breve distanza che li separava.
Oswald emise un gemito sorpreso quando Jim appoggiò la mano sinistra sulla sua guancia destra, ma un attimo dopo mise una mano sulla sua e puntò gli occhi nei suoi.
Aveva cambiato atteggiamento, non sorrideva più, ma sembrava completamente rapito da ciò che stava succedendo. E non era ancora successo niente.
Anche Jim rimase rapito dalla sua espressione, dai sentimenti celati in quello sguardo e dalla vicinanza con le sue labbra.
Forse Oswald lo ricambiava, ma era stato bravo a nasconderlo in quei giorni. Forse le sue offerte di amicizia di un tempo celavano davvero un interesse più profondo, come Jim aveva iniziato a sperare.
E adesso che si trovavano così vicini, nella segretezza del suo appartamento, avrebbe voluto stringerlo a sé, baciarlo e farlo suo, ma sentiva anche di non voler correre, di non dover esagerare per paura che cambiasse idea o che si pentisse. Per paura di rovinare tutto… come se il Re di Gotham fosse in realtà qualcosa di fragile che andava trattato con attenzione.
E questo pensiero gli tolse il fiato, ma gli impose anche di annullare la distanza che li separava.
“Posso?” chiese, ormai troppo vicino alle sue labbra per poter trovare la forza di volontà necessaria a tirarsi indietro.
Oswald rispose con un impercettibile cenno del capo e Jim, finalmente, cedette a un sentimento che aveva cercato di nascondere persino a se stesso.
Premette le labbra sulle sue, morbide e incerte, tremanti a quel contatto. E malgrado stesse reagendo così timidamente, Oswald portò il braccio sinistro dietro al suo collo per esortarlo a continuare, o almeno a non allontanarsi da lui. Ma Jim non ne aveva nessuna intenzione.
Rese più intenso il bacio e lo sentì gemere nella sua bocca, un suono inebriante che avrebbe voluto sentire molto meglio, molto di più.
Quando Oswald schiuse le labbra, Jim ci infilò la lingua per farle incontrare la sua. Lo spinse lentamente contro il bancone della cucina e seguì l'istinto di posizionare una gamba tra le sue cosce.
Si allontanò per riprendere fiato e rimase rapito dalla sua espressione. Era trafelato, aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi. Non lo aveva mai trovato così bello.
Jim arretrò di un passo, le mani ancora sulla schiena dell’altro anche se non sapeva come ci fossero finite.
Avrebbe voluto cedere all’istinto ma non poteva, era troppo improvviso e troppo importante per lui. Non voleva rischiare che i suoi sentimenti passassero per la frenesia di una serata.
Così cercò di trattenersi mentre si avvicinava di nuovo, questa volta per appoggiare un bacio delicato sulla sua guancia destra. Sentì Oswald tremare tra le sue braccia, e prima che Jim potesse ritrarsi davvero lui lo afferrò per gli avambracci.
“Cosa significa, James?” gli chiese, la voce resa un sussurro disperato e gli occhi ancora puntati nei suoi.
“Proprio ciò che sembra,” rispose, dopodiché si sforzò di articolare meglio il suo pensiero. “In questi giorni trascorsi insieme, dentro di me è scattato qualcosa… E ho capito che non voglio che il nostro rapporto torni com’era un tempo. Tu… non volevi?” gli chiese, temendo di aver travisato i suoi segnali o di aver esagerato.
“Certo che lo volevo,” rispose subito Oswald, con un’enfasi che lo stupì. "Cioè, tu mi piaci da molto tempo… Ma non pensavo che potessi mai…”
Non terminò la frase, mentre abbassava lo sguardo forse riflettendo su ciò che era appena successo.
“Che potessi ricambiarti?” disse Jim per lui, rivolgendogli un sorriso appena accennato.
“Già,” rispose Oswald, e anche lui accennò un sorriso timido.
“Io adesso andrei a dormire,” si impose di dire Jim, e solo in quel momento Oswald mollò la presa sulle sue braccia, liberandolo.
Sembrava ancora confuso, e francamente anche Jim lo era, quindi preferiva mettere subito della distanza per poter procedere con più calma.
“Buonanotte, Oswald,” gli disse.
“Buonanotte James,” rispose lui, e il sorriso che gli rivolse questa volta gli sembrò più sincero, anche se era meno ampio rispetto al solito.
Jim sapeva che avrebbe fatto molta fatica a prendere sonno. Soprattutto conoscendo i sentimenti di Oswald e sapendo che si trovava sotto il suo stesso tetto.
Malgrado questo, era anche sorpreso di come fossero andate le cose e soddisfatto. Era riuscito a fargli capire cosa provava e ora sapeva che lui lo ricambiava, il che aveva dell’incredibile.
Quindi anche se presto avrebbe lasciato la sua casa, non sarebbero tornati al rapporto di un tempo. Questo, per Jim Gordon, fu un vero sollievo.
L’indomani Jim si svegliò e come prima cosa andò in bagno. Non aveva dormito un granché e la sua faccia poteva confermarlo, ma si sentiva anche felice. Uno dei pesi che si era portato addosso in quel periodo, ovvero i suoi nuovi sentimenti per Oswald, ormai non lo preoccupava più, anzi gli dava nuova forza.
Entrò in soggiorno e venne accolto dal profumo della colazione, ma inaspettatamente lo trovò vuoto. Oswald non c’era più, e per un istante Jim venne scosso da un moto di agitazione. Poi notò un biglietto sul tavolo, accanto a un piatto lasciato coperto per lui.
Quindi si sedette e iniziò a leggerlo.
“Mio caro James.
Mi scuso per non averti salutato, ma sono dovuto partire presto e non ho voluto interrompere il tuo riposo.
I miei uomini sono venuti a prendermi a un isolato di distanza, perciò non temere: la posizione del tuo appartamento non è stata compromessa e nessuno ha capito che a ospitarmi eri tu.
Quello che è successo ieri sera mi ha sconvolto inizialmente, ma per me è il ricordo importante di qualcosa che spero non finirà così.
Quindi sappi che non sono fuggito a causa tua, bensì per preparare il mio imminente ritorno.
Ho deciso di portare con me l’ombrello e i vestiti che mi hai dato, in onore dei giorni trascorsi insieme. Spero che non sia un problema.
Con la promessa che ci rivedremo molto presto...
Oswald.”
Jim rilesse il biglietto una seconda volta, incredulo. Se da una parte era sollevato di sapere che non era scappato a causa delle sue azioni, e che presto sarebbe tornato in città, dall’altra gli dispiacque immensamente che fosse andato via in segreto, mentre lui dormiva.
Mentre mandava giù a fatica la colazione che gli aveva preparato, che era ancora tiepida, si chiese quale fosse il suo piano e quando si sarebbero rivisti. Purtroppo non poteva far altro che aspettare.
Quella mattina non arrivò al lavoro nel miglior stato d’animo possibile, ma confidava che sarebbe riuscito a distrarsi interrogando il sospettato che aveva arrestato il giorno prima con Harvey.
Trovò il suo collega già seduto alla scrivania, stranamente arrivato prima di lui.
“Ieri ti è andata male?” gli chiese, con una nota provocatoria nella voce.
“Lascia stare,” gli rispose Jim, che non intendeva parlarne o almeno non adesso.
Si accordarono su una strategia per l’interrogatorio, dopodiché tirarono fuori il sospettato per portarlo in una sala apposita, dove lo misero sotto torchio. Le prove erano tutte contro di lui, perciò speravano che confessasse senza troppi complimenti.
Restarono lì più di un’ora, dopodiché riportarono l’uomo in cella, pronti a mettere a verbale la sua confessione. Era andata liscia come avevano sperato, anche se non era stato così facile convincerlo a parlare.
Non fecero neanche in tempo ad allontanarsi dalla sua cella che delle urla invasero la centrale. Entrambi i detective si voltarono verso l’entrata, da dove videro arrivare due agenti che trascinavano con loro Butch Gilzean. L’uomo era in manette e continuava imperterrito a opporsi all’arresto.
“Io non c’entro! Non sono stato io!” esclamò, e quando vide Jim il suo sguardo si ancorò a lui. “Gordon! Diglielo che io non c’ero!”
Dopo averlo urlato, si divincolò e quasi sfuggì alla presa di uno dei due agenti, ma alla fine riuscirono a portarlo fino a una delle celle e a chiudercelo dentro.
Il criminale si aggrappò alle sbarre, ancora intenzionato a farsi ascoltare.
“Gordon! È stato Pinguino, lo sai anche tu!” insistette, lasciando allibito il detective.
Gli ci volle un attimo per capire cosa stesse succedendo. Per qualche motivo, Butch Gilzean era un nuovo sospettato nel caso Galavan. Com’era potuto succedere? Non era nemmeno sulla scena, anche se era vero che era presente quando loro avevano assaltato la villa.
Per arrestarlo dovevano aver trovato delle prove a suo carico, prove che qualcuno doveva aver abilmente contraffatto. Perché doveva essere così, doveva esserci Oswald dietro. Ma come ne era stato in grado?
Solo in quel momento Jim si accorse che Edward Nygma era lì, in disparte, a godersi lo spettacolo con un sorrisetto compiaciuto sulla faccia.
“Ma certo,” pensò.
E per quanto gli sembrasse strano che Oswald avesse sacrificato Butch Gilzean per scagionare sé stesso, era vero che l’uomo lo aveva tradito ed era anche per questo che sua madre era morta.
Ogni pezzo del puzzle andò al suo posto nella mente di Jim, che rimase immobile mentre Butch lo chiamava ancora.
“Gordon! Nel mio ufficio!” esclamò Barnes, riscuotendolo completamente dai suoi pensieri.
Il suo capo era di nuovo infuriato con lui, il che non era affatto strano, perciò si sbrigò a raggiungerlo perché non perdesse la pazienza. Harvey lo seguì con discrezione, fermandosi a pochi passi dall’ufficio di Barnes.
“Sì, capitano?”
“La tua versione dei fatti per l’omicidio di Galavan. Hai detto che quella sera Pinguino e i suoi uomini hanno portato via Theo Galavan. Chi erano?”
“Non conosco i nomi di tutti, ma Gilzean era con loro, se è questo che vuole sapere,” rispose prontamente, rimanendo in piedi davanti al suo superiore.
“Troppo facile,” esalò lui, quindi sbuffò rumorosamente.
“Cosa sta succedendo, capitano? Credo di essermi perso qualcosa,” ammise Jim, che voleva vederci chiaro sulla questione.
“Nuove analisi hanno determinato la presenza delle impronte di Gilzean sull’ombrello di Pinguino e sulla pistola con cui è stato ucciso Galavan. Sembrerebbe che sia stato lui, e che abbia usato l’ombrello per far ricadere la colpa sul suo capo,” spiegò Barnes, i suoi occhi fissi su Jim però sembravano ancora carichi di sospetto.
Non era convinto, era ovvio.
“Quindi lo avrebbe fatto per toglierlo di mezzo e prendere il controllo della malavita di Gotham?” ipotizzò Jim, completando il quadro.
“Così pare. Abbiamo finito, adesso torna al lavoro,” ordinò, e lui non se lo fece ripetere due volte.
“Che hai fatto stavolta?” gli chiese Harvey, una volta fuori dall’ufficio.
“Niente, voleva riconfermare la mia versione dei fatti. Pare che sia stato Butch a uccidere Galavan,” lo mise al corrente, mentre camminava a passo spedito verso la sua scrivania.
“Che storia. Beh, non mi sorprende,” commentò Harvey, seguendolo e mettendosi a sedere alla propria. “Quindi sei un uomo libero adesso. Bene, festeggiamo mettendo a verbale la confessione del nostro sospettato.”
Jim annuì. Era grato che Harvey non avesse dubbi su di lui, e infatti sapere della presunta colpevolezza di Butch non aveva suscitato nessuna particolare reazione da parte sua. Per lui, il fatto che Jim sarebbe stato scagionato da tutte le accuse doveva essere solo una questione di tempo.
In ogni caso, era finita. Jim poteva tirare un sospiro di sollievo, e con un po’ di fortuna avrebbe rivisto Oswald molto presto.
Certo non immaginava così presto.
Quel pomeriggio, Oswald si presentò alla centrale accompagnato da due dei suoi uomini, uno dei quali era spesso con lui e doveva chiamarsi Gabriel.
Jim non poté fare a meno di accorgersi che l’ombrello con cui si aiutava a camminare era il suo.
Sotto gli sguardi attenti di tutti gli agenti, Oswald raggiunse l’ufficio di Barnes insieme ai suoi sottoposti e rimase lì per un lungo colloquio.
Ogni tanto Jim alzò lo sguardo su di loro, spiando attraverso la finestra che dava sull’interno, ma purtroppo non poteva sapere cosa si stavano dicendo, perciò non riusciva a lasciar andare la tensione che lo aveva accompagnato sin da quando lo aveva visto varcare la soglia del suo posto di lavoro.
Quando uscì, con aria rilassata e soddisfatta, si diresse alla porta stando ben attento a non alzare lo sguardo su Nygma o su Jim.
Più tardi, Jim scoprì che aveva rilasciato direttamente a Barnes la sua versione dei fatti. Gli aveva detto che quella notte aveva davvero tentato di rapire Galavan spinto dalla rabbia, e che lui aveva cercato di fermarlo, ma che poi Butch Gilzean lo aveva aggredito e aveva finito il lavoro da solo al fine di far ricadere i sospetti su di lui.
Così Oswald se n’era andato lontano e aveva trascorso quei giorni in convalescenza. Aveva persino fornito un certificato medico che lo dimostrava.
Per questo non lo avevano trovato, perché era tornato a Gotham solo adesso… proprio quando, guarda caso, loro avevano trovato delle prove che incastravano Gilzean ed erano riusciti ad arrestarlo.
Oswald ce l’aveva fatta.
-FINE-
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…Fine?
Per ora.*
Per ora.*
*prima parte di una serie