Disclaimer: i fatti narrati sono ispirati ad un vecchio videogioco di cui ho adorato la storia, ho modificato i nomi e alcune cose rendendolo un vero e proprio romanzo Giallo. Enjoy it.
Nightmare in the snow
Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte delle persone esiste, questo è tutto.
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Tutto è iniziato qui, dove altro poteva succedere. New York, capitale dell’universo. Scacchiera scelta dal destino per l’ultima grande partita. ero una pedina come tante e vivevo come tale. Ma quella notte il caos è entrato nella mia vita.
Nevicava a più non posso quella sera, i fiocchi cadevano fitti, imbiancando tutto quanto, cancellando i contorni della città come un pittore che ridisegna il mondo. Io, invece, ero lì, nel bagno di una diner qualunque, con le pareti imbrattate dal tempo e il pavimento ricoperto di piastrelle opache. Perché fossi lì? Non lo ricordavo. La mia mente era una tabula rasa, un vuoto totale. Come se fossi stato risucchiato fuori dalla realtà e gettato in una scena di cui non ero né regista né attore protagonista, ma solo spettatore inerme. Sentivo ogni sensazione con chiarezza agghiacciante: il freddo della ceramica del water sotto di me, il metallo freddo del coltello nella mia mano e il calore del sangue che scorreva lungo i miei avambracci. Un contrasto che mi scuoteva dentro.
Non riuscivo a controllare nulla. Ero bloccato, come legato alla sedia in un cinema a guardare un film che non volevo vedere. La cosa più spaventosa era che non potevo nemmeno distogliere lo sguardo. Ogni volta che provavo a muovere un muscolo, la mia volontà sembrava dissolversi in un nulla incolmabile. Osservavo la scena da dentro il mio stesso corpo, ma come se fossi incatenato.
Mi alzai dal water, i miei arti si muovevano da soli, percosso da spasmi incontrollabili, piccoli scatti elettrici che percorrevano la mia colonna vertebrale come scariche improvvise. Il bagno era immerso in un silenzio innaturale, rotto solo dal ronzio del neon sopra la mia testa. Aprii silenziosamente la porta del separé, e vidi un uomo. Era appena finito di urinare e si stava lavando le mani al lavandino. Non mi aveva ancora notato. L'acqua scorreva sotto le sue dita, e io lo osservavo con occhi spenti, ma dentro di me qualcosa gridava.
Con un passo lento e rigido mi avvicinai, cercando disperatamente di riprendere il controllo. Sentivo la tensione crescere, come se fossi intrappolato in una spirale che mi trascinava verso il fondo. Ogni passo che facevo mi sembrava più irreale del precedente. Poi, all’improvviso, in un battito di ciglia, non ero più lì. Vedevo un'altra scena: un uomo incappucciato, circondato da candele tremolanti. Si muoveva come me, i suoi gesti erano i miei. Era lui che mi stava controllando? Sentivo la sua presenza dentro di me, le sue mani invisibili che muovevano i fili del mio corpo come un burattinaio.
Quando l’uomo al lavandino si girò, il mio corpo si mosse da solo. Con entrambe le mani impugnai il coltello e lo affondai nel suo petto. Non c’era esitazione, solo una furia cieca e automatica. Il metallo penetrò nella carne con una facilità disarmante, e l'uomo non ebbe nemmeno il tempo di urlare. I suoi occhi si sgranavano, increduli, il suo corpo crollò al suolo con un suono sordo. Il suo respiro si spezzò, morente. Dovevo aver colpito il cuore, tanto era precisa la coltellata, ma la mia furia non si placava.
Salì a cavalcioni sul corpo dell'uomo, osservando i suoi occhi azzurri dietro gli occhiali. Si erano già spenti, ma sembrava ancora che mi guardassero, come a chiedermi perché avessi fatto una cosa simile. Eppure, non lo conoscevo, non sapevo chi fosse. Non c’era ragione, nessun motivo logico, e questo era il pensiero più agghiacciante di tutti.
Un’altra coltellata, ancora più profonda. Sentii il suo corpo spezzarsi sotto di me, il respiro che si strozzava sempre più, la vita che si spegneva. Ogni colpo affondava come una sentenza, ma con la terza coltellata, qualcosa cambiò. Mi sentii strano, come se all’improvviso il burattinaio avesse lasciato i fili. Il peso del mio corpo sembrava crollare, come una marionetta priva di comandi. Le mani mi tremavano e, in un attimo, fui invaso da una sensazione assurda e amplificata: il gracchiare di un corvo fuori dalla finestra mi perforava le orecchie. Era talmente forte che mi sembrava stesse gridando direttamente nella mia testa.
Il coltello cadde dalle mie mani, rotolando lontano, mentre io mi ritrovai con i palmi appoggiati sulle fredde mattonelle del pavimento. Mi inginocchiai sopra l'uomo, inspirando aria a pieni polmoni, come se fossi appena emerso da un incubo. Finalmente, il controllo tornò. Mi guardai intorno con occhi nuovi, come se solo ora fossi davvero lì. Ma la realtà era peggiore dell'incubo: ero ancora sopra il cadavere di quel pover’uomo. Il sangue si stava lentamente spargendo sul pavimento, formando una pozza scura e vischiosa.
Ero libero, ma il prezzo di quella libertà era la vita di un innocente.
Inorridii. Balzai in piedi, il respiro spezzato, il cuore che martellava forte nel petto come un tamburo impazzito. Guardai il corpo immobile, la pelle pallida e i vestiti macchiati di sangue. Era morto. L'avevo ucciso. La verità mi colpì come uno schiaffo in pieno volto: avevo appena tolto la vita a un uomo. Le mie mani tremavano mentre le portavo alle tempie, stringendo il cranio come se volessi schiacciare via il senso di colpa, il rimorso, il terrore. Come poteva essere successo? Cosa mi stava succedendo?
Mi aggrappai con forza ai capelli, cercando di fermare i pensieri che mi avvolgevano come una morsa soffocante, ma all'improvviso la mia visione periferica fu catturata da un dettaglio. I miei avambracci erano ricoperti di sangue. Ma non era il sangue della mia vittima. No, questo era il mio. Il dolore esplose all'improvviso, come una lama che mi trafiggeva i nervi. Solo adesso potevo percepirlo, come se il mio corpo avesse atteso il momento giusto per svegliarsi dallo shock.
Le ferite sui miei avambracci bruciavano come fuoco, e il sangue colava lento, appiccicoso. Feci qualche passo incerto verso il lavandino, ogni respiro si faceva più pesante, e aprii il rubinetto. L’acqua fredda mi fece rabbrividire mentre sciacquavo via il sangue, ma quando passai le dita sulle ferite, sentii subito che non erano tagli casuali. Erano incisioni precise, nette. Ma cosa mi ero inciso? Cercai di guardare meglio, ma non riuscivo a capirlo. C'era un disegno, un simbolo, ma la mia mente era troppo confusa per metterlo a fuoco. Decisi di non pensarci troppo in quel momento. Dovevo concentrarmi su altro: se qualcuno fosse entrato in quel bagno in quel momento, sarei stato finito. Arrestato all'istante.
Mi sciacquai il viso, sentendo gli schizzi gelidi sul viso che mi riportavano un minimo di lucidità. Alcuni erano schizzi di sangue, della vittima stavolta. Mi strofinai la pelle con foga, come se potessi cancellare tutto con quell'acqua. Guardai i miei avambracci martoriati e, tremante, tirai giù le maniche della giacca, nascondendo le ferite come se potessero sparire sotto il tessuto. Poi, con il cuore in gola, guardai il corpo dell'uomo.
Non potevo crederci. Mi sembrava impossibile che fossi stato io. Eppure, eccolo lì. Il cadavere era reale, la macchia di sangue sul pavimento era reale. Mi avvicinai, con passi incerti, e lo afferrai da sotto le braccia. Sentii il suo peso morto, inerte, contro il mio corpo. Lo trascinai verso uno dei tre cubicoli, quello in fondo, spingendolo dentro con fatica. Chiusi il separé dietro di me, cercando di non guardare più il suo viso. Ma c'era un problema. Una lunga striscia di sangue tracciava il percorso dal lavandino al cubicolo, un segno evidente di ciò che avevo appena fatto.
Guardai in giro, il panico cominciava a prendere il sopravvento. Dovevo nascondere le prove, ma come? I miei occhi si posarono su uno straccio abbandonato in un angolo. Lo afferrai e iniziai a pulire il pavimento. Strusciavo forte, come se con ogni colpo potessi cancellare anche il peso di quell'orribile colpa. Il sangue si attenuava, diventava meno visibile, ma non spariva del tutto. Forse non bastava, ma era il meglio che potessi fare. Un po' più sollevato, respirai a fondo, cercando di mantenere la calma.
Dovevo capire cosa mi era successo. Non ero pazzo, lo sapevo. Non era stata una mia scelta. Qualcosa o qualcuno mi aveva costretto a compiere quel gesto orribile. Ma chi avrebbe mai creduto a una storia del genere? Nessuno. Dovevo solo andarmene da lì, il più velocemente possibile.
Mi chinai a raccogliere il coltello che avevo lasciato cadere sul pavimento. Non potevo lasciarlo lì. Se qualcuno lo avesse trovato, sarebbe stata la prova schiacciante. Pensai al cestino dell’immondizia per un istante, ma era troppo ovvio. Non potevo rischiare. Guardai i tre cubicoli. Uno era quello dove avevo nascosto il corpo. Il secondo era quello dove avevo vissuto il mio incubo. Mi diressi verso il terzo. Aprii la cassetta dell'acqua del water e vi infilai dentro il coltello, sperando che nessuno avrebbe mai pensato di guardare lì.
Finalmente, ero pronto a uscire. Uscire da quel bagno diventato una scena del crimine. Ma appena oltrepassai la soglia, il mio stomaco si contrasse in un nodo. Vidi un poliziotto. Seduto al bancone, stava parlando con la cameriera, una tazza di caffè fumante davanti a lui. Il sangue mi si gelò nelle vene. Il cuore prese a battere forte, ogni battito rimbombava nella mia testa come un martello. Non volevo essere scoperto. Non volevo finire in galera. Io ero innocente!
Cercai di muovermi senza fare rumore, come un’ombra. Raggiunsi il mio tavolo, evitando lo sguardo del poliziotto. La cameriera aveva lasciato lo scontrino, un pezzo di carta banale che in quel momento mi sembrava il simbolo della mia fuga. Non guardai nient’altro. Presi i soldi che avevo e li lasciai sul tavolo, senza curarmi che fossero di più del dovuto. Volevo solo andarmene da quel posto maledetto.
Una volta fuori, la bufera di neve continuava imperterrita. La visibilità era ridotta al minimo, i fiocchi turbinavano nell’aria come spettri danzanti, ma mi sentivo meglio. Respirai a fondo e accelerai il passo. Dovevo trovare un taxi, allontanarmi il più in fretta possibile da quel quartiere, prima che qualcuno scoprisse il cadavere.
Finalmente, vidi un taxi. Aprii la portiera e mi ci infilai dentro, chiedendo al tassista di portarmi a Brooklyn. Mentre il veicolo si allontanava, guardai fuori dal finestrino, il silenzio della città innevata faceva da contrasto con il caos che avevo dentro di me. Quella notte aveva distrutto ogni certezza. Avevo sempre pensato di essere una persona normale, ma ora tutto era cambiato. Avevo ucciso un uomo senza motivo, e la mia mente era a pezzi.
Cosa mi stava succedendo?
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Emma’s POV
Quella sera, mentre mi godevo un raro momento di tranquillità sul divano, il telefono squillò. Una chiamata dalla centrale. Era bastata quella vibrazione per spezzare l'illusione di una serata calma. Il dovere mi chiamava, e non c'era scelta. Mi vestii rapidamente, infilando la giacca di pelle e allacciandomi gli stivali con la precisione automatica di chi lo fa ogni giorno. Noah, il mio collega, sarebbe passato a prendermi.
Fuori, la neve cadeva fitta, un manto bianco copriva ogni cosa, e le strade erano ormai impraticabili se non con le catene montate alle ruote. Appena salii sulla macchina di Noah, il freddo si insinuò comunque sotto la giacca. Lui mi salutò con uno sbadiglio stanco.
“Brutto il turno di notte, eh?” gli dissi, cercando di rompere il silenzio gelido.
“Non me ne parlare,” rispose Noah, con il viso segnato dalla stanchezza.
I suoi capelli biondi erano nascosti sotto un berretto di lana che sembrava sempre troppo piccolo. Mi sorpresi a pensare a quanto in fretta fosse passato il tempo. Lavoravamo insieme da oltre un anno, e sebbene fosse cresciuto tra le gang del Bronx, ora era un poliziotto integerrimo, anche se a volte imprevedibile.
Guidò fino al locale, un diner che non avevo mai notato prima, una di quelle caffetterie aperte tutta la notte, il cui neon rosso, ormai consunto, ronzava leggermente sopra la porta. Il poliziotto di turno ci stava già aspettando all'interno.
"Da Doc, ci siamo," disse Noah, indicando l'insegna, stringendosi nel suo cappotto mentre scendeva dall'auto.
“Sempre quando entro io in servizio… sembra che ogni squilibrato della città decida di fare casino.”
"New York è così, Noah," ribattei, mentre scendevo dall'auto.
"Non è la città che non dorme mai?" Feci un sorriso rapido, scostando la neve fresca dal tettuccio. Era vero. La città sembrava avere un ritmo proprio, oscuro, scandito da eventi che si ripetevano notte dopo notte.
Il freddo era tagliente, e mentre mi avvicinavo all'ingresso del diner, lo sentii insinuarsi sotto la pelle.
“Se vuoi lamentarti fallo dentro, non ho voglia di morire congelata mentre ti ascolto,” dissi con una mezza risata, cercando di riscaldarmi muovendomi più velocemente. Noah rise, seguendomi a ruota.
"Sei tu il capo, Emma," scherzò, ma il suo tono tradiva la stanchezza.
Entrammo nel locale. Dentro, l'atmosfera era surreale. Il silenzio, il ronzio delle luci al neon e l'odore forte di caffè stantio. Sembrava quasi che il tempo si fosse fermato. A sinistra, una fila di divanetti scarlatti, a destra il lungo bancone con gli sgabelli in pelle consumata. All'angolo, un juke-box d'epoca, spento, ma ancora carico di quella nostalgia che si trova solo in posti così.
Il locale era deserto, tranne per un poliziotto che stava seduto in fondo al bancone, lo sguardo perso. Mi avvicinai a lui, mentre Noah lo salutava con un cenno.
“Agente Martin, come va?” chiesi, la mia voce tagliando l’aria immobile.
Lui sollevò lo sguardo, i baffi bianchi gli davano un’aria più vecchia, più stanca di quanto probabilmente fosse.
“Buonasera, detective. La stavo aspettando. Hey, Noah!” Salutò il mio collega, che rispose con il suo solito sorriso sornione.
Ma io dovevo andare dritta al punto.
“Che cosa abbiamo qui?” domandai, le mani sui fianchi, mentre studiavo la situazione.
“Omicidio,” rispose Martin, con una calma inquietante. Indicò la porta in fondo al locale, la porta del bagno.
“Ho trovato il cadavere lì dentro.”
"Come mai eri qui? Sei in servizio?" Lo guardai per un momento, scrutando il suo viso per capire se c’era qualcosa che non diceva.
Non ricordavo turni notturni per lui.
“No, ero fuori servizio. Mi fermo sempre qui dopo il lavoro. Il caffè di Olivia è il migliore della città,” spiegò, e il suo sguardo si spostò verso una donna seduta in un angolo, la cameriera, con la testa china e le mani che tremavano leggermente sul tavolo.
“Qualcuno ha visto qualcosa di strano?” chiesi, mentre continuavo a osservare il locale, cercando di cogliere ogni dettaglio. Il rumore del neon, il leggero ticchettio di un orologio appeso al muro, il lieve odore di disinfettante che ora impregnava l’aria. Tutto sembrava sospeso.
“Nessuno ha notato niente,” disse Martin, scuotendo la testa con un’espressione stanca.
“Ma c’era un cliente che è uscito poco prima che trovassi il corpo.”
Bene. Un sospetto, finalmente.
“Chi è la vittima?”
Martin si schiarì la gola.
“James. James Robinson. Cliente fisso del diner. Olivia potrà dirvi di più.” Indicò la cameriera con un cenno del capo.
Lei sembrava fragile, spezzata, quasi come se fosse stata lei la vittima. I suoi occhi fissavano il tavolo, incapaci di guardare altro. Le sue mani tremavano ancora, giocando nervosamente con un fazzoletto.
“Noah, segnati tutto,” dissi, il tono ora più brusco, mentre il mio collega tirava fuori il suo piccolo bloc-notes e iniziava a prendere appunti. Non c'era tempo da perdere.
“Quella è la cameriera, giusto?” indicai la donna seduta, che già avevo notato prima.
Era in evidente stato di shock, con la divisa rosa pallido spiegazzata, seduta in un angolo, lontana da tutto, come se volesse sparire.
“Si, Olivia Flores,” confermò Martin.
"Se posso permettermi, detective... sia delicata con lei. È ancora molto scossa."
L’empatia nella sua voce mi colpì. Era evidente che conoscesse bene quella donna. Forse erano amici fuori dal lavoro, e lui si preoccupava sinceramente per lei. Gli sorrisi con comprensione.
“Grazie dell’aiuto, William. È tardi, puoi anche tornare a casa. Meriti un po’ di riposo.”
Lo chiamai per nome addolcendo per un attimo il mio tono di voce. Stava per rispondere, ma non congedarsi.
“La ringrazio, detective, ma preferisco aspettare. Voglio assicurarmi che Olivia torni a casa sana e salva. Non la lascerò da sola.”
Annuì. Non potevo fare altro che rispettare la sua decisione. William era un buon agente, e chiaramente nutriva un affetto sincero per la cameriera. Mi avviai verso Olivia con passo deciso ma non aggressivo. Più mi avvicinavo, più notavo i dettagli. La sua divisa, ormai segnata dal tempo e dalle lunghe ore di lavoro, aveva delle macchie di caffè qua e là, come se avesse cercato di pulirsi frettolosamente le mani. I capelli castani, con ciuffi bianchi che spuntavano a tradimento, erano raccolti in una crocchia disordinata. Il volto, segnato dalla stanchezza e dallo shock, era rivolto verso il tavolo.
Mi sedetti di fronte a lei, cercando di non farla sentire in trappola. Sollevò lo sguardo, i suoi occhi azzurri, gonfi di lacrime trattenute, incontrarono i miei. Era chiaro che aveva pianto, ma ora si sforzava di restare calma. Le sue mani, appoggiate sul tavolo, tremavano leggermente.
"Olivia?" cominciai con un tono gentile.
"Sono la detective Emma Roberts, mi sto occupando di questo caso. Mi dispiace disturbarti in un momento così difficile, ma avrei bisogno di farti qualche domanda." La mia voce era morbida, ma professionale.
Sapevo che in queste situazioni bisognava bilanciare la delicatezza con la necessità di raccogliere informazioni.
Lei annuì debolmente, abbassando lo sguardo di nuovo sulle sue mani.
"Faccia pure..." rispose con un filo di voce, quasi meccanica, come se stesse cercando di restare forte nonostante il dolore e il trauma.
Volevo iniziare con qualcosa di semplice, qualcosa che non la facesse sentire troppo sotto pressione.
“Lavori qui da molto tempo?” chiesi, cercando di farla parlare, di metterla a suo agio.
"Saranno undici anni il mese prossimo..." rispose, facendo una breve pausa.
“Ne ho viste di tutti i colori qui: ubriachi, gente fuori di testa, drogati. Una volta ci hanno persino rapinato. Ma... un omicidio? Non era mai successo prima. Povero James... era una brava persona, sempre gentile con tutti.”
Le sue parole uscirono in un sussurro, quasi soffocate dal peso del ricordo. Si perse per un momento nei suoi pensieri, come se stesse rivedendo tutti gli episodi violenti che aveva dovuto affrontare nel corso degli anni. Ma era chiaro che nulla l'aveva preparata a questo.
Decisi di andare dritta al punto che più mi premeva.
“Olivia, cosa puoi dirmi del cliente che è uscito prima che il corpo di James fosse scoperto?”
Si agitò un po', spostando le mani dal tavolo alle ginocchia, quasi volesse smettere di toccare qualcosa, come se le sue mani non fossero al sicuro da se stesse.
"Non ci ho fatto molto caso... sembrava un tipo qualunque," disse, con lo sguardo perso.
"Non so... forse stava leggendo... o almeno, mi è sembrato così."
“E che aspetto aveva? Puoi descrivermelo?” provai a chiedere con pazienza, sperando che qualche dettaglio affiorasse.
"Era giovane, credo... di media altezza. Ma non l’ho guardato molto. Mi dispiace..." rispose, abbassando di nuovo lo sguardo, visibilmente frustrata per non poter essere d'aiuto.
Capivo il suo stato: lo shock, il trauma, e la routine quotidiana che a volte impedisce di notare i dettagli. Non potevo biasimarla. La memoria gioca brutti scherzi quando ci si trova sotto pressione, e lei aveva visto chissà quanti clienti quel giorno.
Mi resi conto che insistendo non avrei ottenuto molto di più. Decisi quindi di cambiare argomento, cercando di portarla su un terreno più sicuro.
“James era qui da solo? Ha parlato con qualcuno?”
Olivia annuì.
“Sì... veniva sempre da solo. Ma ci conoscevamo. Era un cliente fisso. Parlava spesso con me, della sua vita... del suo lavoro. Non era una persona che dava fastidio a nessuno.”
Il dolore nel suo tono era palpabile. James doveva essere stato una delle poche persone a cui si era affezionata, in un ambiente dove i volti erano spesso solo di passaggio.
"Il tempo, il lavoro, le solite cose. Non parlava mai con nessun altro." Olivia sospirò profondamente, le sue spalle crollarono leggermente mentre pronunciava quelle parole.
Mi dipingeva l'immagine di un uomo solitario, riservato. James sembrava il tipo di persona che si mescolava alla folla senza attirare troppo l’attenzione, un cliente fisso che si aggirava nel locale come un'ombra.
Mi sembrava sempre più strano che qualcuno volesse far del male a un uomo così. La sua morte era misteriosa, quasi inspiegabile. Decisi di indagare su quel punto.
“Quindi non sa se James avesse nemici? Qualcuno che potesse desiderare la sua morte?” chiesi, cercando di cogliere ogni sfumatura del volto di Olivia.
Scosse la testa, fissandomi finalmente negli occhi per un istante.
"James era un uomo normale, come tanti. Non riesco a capire come si possa desiderare la sua morte." C’era sincerità nel suo sguardo, una confusione reale.
Forse non conosceva James così bene come pensava, o forse davvero lui non era il tipo da attirare conflitti.
"Ha sentito qualcosa mentre James era nel bagno? Rumori di lotta, o urla?" domandai, cercando di analizzare ogni possibile scenario nella mia mente.
Una lotta avrebbe lasciato tracce, o almeno rumori che qualcuno avrebbe potuto sentire.
“No, non ho notato nulla.” Olivia scosse leggermente il capo, la sua espressione pensierosa, come se tentasse di ricordare ogni dettaglio, ma senza successo.
La morte doveva essere avvenuta rapidamente, in silenzio.
Misi una mano al mento, riflettendo. Se non c'erano segni di lotta, forse la vittima era stata colta di sorpresa, o conosceva il suo assassino abbastanza da non sospettare nulla.
"Cosa è successo prima del delitto? Hai notato qualcosa di strano?" Chiesi, cercando di spingere Olivia a concentrarsi su quei momenti cruciali, che magari erano passati inosservati nella routine della notte.
"Era una notte come le altre..." cominciò, lasciando la frase sospesa nell'aria, quasi intrappolata nella memoria di quel momento.
Ma io avevo bisogno di dettagli, di qualcosa che mi permettesse di ricostruire l'ultima ora di vita di James.
Mi appoggiai leggermente in avanti, cercando di essere rassicurante.
“Puoi dirmi com’è andata?” portai entrambe le mani guantate sul tavolo, tenendo gli occhi ben saldi su quelli di Olivia, cercando di trasmetterle che ero lì per aiutarla.
Olivia esitò, poi finalmente parlò:
“Non c’erano molte persone stanotte, è sempre piuttosto tranquillo durante la settimana. Stavo chiacchierando con William al bancone... non ho nemmeno visto James alzarsi per andare in bagno che... Oh mio Dio..." Le parole si interruppero bruscamente, e Olivia si coprì il viso con le mani, tremando, mentre le lacrime riprendevano a scendere.
Capivo quanto fosse difficile per lei rivivere quei momenti. Con gentilezza, allungai la mano e la posai sul suo avambraccio, sperando di infonderle un po’ di forza.
“Devi essere forte, Olivia. So che quello che è successo è uno shock per te, ma sei l'unica che può aiutarci a trovare il sospetto. E con il tuo aiuto possiamo impedire che accada di nuovo.”
Olivia annuì, stringendo tra le mani un fazzoletto che aveva tirato fuori dalla tasca della sua divisa. Tentò di frenare le lacrime e ricominciare a parlare.
“Il mio turno stava per finire... Stavo parlando con William, James si è alzato per andare in bagno... poi quell'uomo... deve averlo seguito. Ma non l'ho visto uscire. Deve essere sgattaiolato via senza che me ne accorgessi.”
La sequenza degli eventi iniziava a prendere forma. Un uomo misterioso, un gesto rapido e furtivo. Ma era strano che Olivia non avesse notato nulla di particolare riguardo all'uomo prima che tutto accadesse.
"E dopo? Cosa è successo?" chiesi con dolcezza, lasciando che il filo del racconto si dipanasse.
"William è andato in bagno... ed è stato lui a trovare James... morto." Olivia si fermò, le parole quasi le si strozzarono in gola mentre stringeva il fazzoletto con forza contro le labbra. Era devastata.
Trattenni un sospiro. Il racconto di Olivia non offriva molto in termini di nuovi dettagli, ma era evidente che conosceva James meglio di quanto conoscesse il sospetto. Magari la vittima aveva mostrato qualche segno che ci era sfuggito fino ad ora. Decisi di sondare un po' più a fondo.
“Olivia, hai notato qualcosa di diverso in James stasera? Sembrava preoccupato, o stanco, magari agitato?” chiesi, cercando di capire se ci fosse qualche indizio nascosto nella sua routine.
Olivia scosse la testa, come se cercasse di tornare a quei momenti.
“No, era come sempre. Ha persino fatto una battuta quando è entrato... era di buon umore.”
Queste parole complicavano ulteriormente il mistero. Se James era tranquillo e sereno, allora perché qualcuno avrebbe voluto ucciderlo? Qualcosa non quadrava, e l'unico modo per scoprirlo era esaminare il corpo. Ma prima, dovevo chiudere la conversazione con Olivia nel miglior modo possibile.
"Olivia, pensi di poter riconoscere il sospetto se lo vedessi di nuovo?" chiesi, sperando che il suo ricordo, anche se frammentato, potesse offrirci un vantaggio.
Olivia si raddrizzò un po', con una nuova determinazione che brillava nei suoi occhi umidi.
"Farò del mio meglio per ricordare il suo volto. Voglio aiutarvi a prenderlo."
Sorrisi, apprezzando il suo sforzo.
"Perfetto. Domani potresti venire alla centrale? Potremmo lavorare insieme su un identikit."
“Certo. Farò tutto il possibile perché lo troviate.”
Anche se le sue informazioni erano limitate, ogni minimo dettaglio poteva essere cruciale.
“Ti ringrazio infinitamente per il tuo aiuto, Olivia,” dissi, alzandomi dal tavolo insieme a lei.
Mentre si alzava, Olivia si permise un piccolo scatto di rabbia, la sua voce tremante di emozione:
“Spero che troviate quel bastardo. Gente così non merita di vivere.”
Le poggiai una mano sulla spalla, decisa.
"Te lo prometto, Olivia. Faremo tutto il possibile per trovarlo. Ora vai a casa e cerca di riposare. William ti accompagnerà."
William, che era rimasto in disparte, si avvicinò in silenzio con il cappotto di Olivia in mano.
La cameriera indossò il cappotto con le mani tremanti, e uscì scortata da William, il poliziotto che l'avrebbe accompagnata a casa. Le sue spalle erano curve sotto il peso della tragedia, e il suo passo era lento, quasi esitante.
"Buonanotte," disse Noah con un cenno del capo, osservandoli mentre si allontanavano.
Mi raggiunse subito dopo, con un'espressione pensierosa.
"Scoperto qualcosa di interessante?" mi chiese, con il solito tono leggero che usava per sdrammatizzare.
Scossi leggermente il capo, il peso della serata ancora tutto addosso.
"Non proprio. La cameriera verrà domani in centrale per l'identikit. Voglio che te ne occupi tu." La mia voce era ferma, ma il pensiero del poco che avevamo in mano iniziava a frustrarmi.
Il sospetto era un’ombra sfuggente.
"Certo, capo," rispose Noah con un sorriso stanco. Mentre ci avviavamo verso il centro del locale, due figure familiari uscirono dal bagno. Gli agenti della scientifica, Logan e Benjamin, si stavano avvicinando con la loro attrezzatura.
"Hey Logan, hey Benjamin," salutai con un cenno e un sorriso.
Erano stati con noi in innumerevoli scene del crimine, e il loro lavoro era sempre stato impeccabile.
"Ciao, Emma," risposero in coro. Subito, i loro sguardi si spostarono su Noah, e Logan non perse tempo a prenderlo in giro.
"È strano vederti in piedi a quest'ora, Noah. Sei caduto dal letto?" Logan ridacchiò, ma la sua battuta venne immediatamente interrotta da un gesto ironico di Noah che si passò la mano sulle labbra screpolate.
"Non farmi ridere, Logan, con questo freddo mi si stanno spaccando le labbra," replicò Noah, tirando su con il naso e facendo uno sbadiglio. Benjamin aggiustò il suo berretto con un mezzo sorriso.
"Hai l'aria di uno che non ha dormito per giorni," disse Benjamin, incrociando le braccia sul petto.
Noah sbadigliò di nuovo, stiracchiandosi come se il suo corpo stesse lottando contro il sonno.
"È la mia terza notte di fila in servizio. Lo sai, amico, se non dormo abbastanza, sembro uno zombie," rispose Noah con un sorriso esausto.
Era vero: senza riposo, era solo una questione di tempo prima che iniziasse a perdere colpi, ma non potevamo fermarci.
"Non dovrebbe volerci ancora molto," disse Logan, cercando di rassicurarlo.
"Anche se, con Emma qui, potresti dover aspettare fino all'alba."
Sentendo il mio nome, drizzai le orecchie.
"Non parlare di me come se non fossi qui," lo ammonii, dandogli un leggero buffetto sul petto.
Tornai rapidamente seria.
"Logan, avete trovato qualcosa?" chiesi, riportando l'attenzione sul caso. Era cruciale non perdere tempo, e sapevo che ogni minuto era prezioso.
"Abbiamo raccolto dei campioni nel locale," disse Logan,
"ma stavamo aspettando te per spostare il corpo." Annuì con un tono calmo, consapevole del ritmo necessario per non commettere errori.
"Ok, andiamo a dare un’occhiata," risposi, facendo un cenno a Noah. Ma lui rimase indietro per scambiare ancora qualche parola con gli altri agenti, mentre io mi avvicinai al tavolo del sospetto, dove Olivia aveva detto che quell'uomo stava seduto. I dettagli spesso parlano più forte delle persone.
Sul tavolo c'era ancora un piatto con carne e patatine fritte, quasi intatto. La forchetta era lì, ma notai subito che mancava il coltello. Davanti al piatto c’era un bicchiere di Coca-Cola mezzo pieno e, stranamente, una tazza di caffè. Mi fermai a riflettere: chi beve caffè e Coca-Cola insieme? Forse non era solo? O era un caffeinomane incallito?
Presi in mano lo scontrino lasciato sul tavolo. Caffè e Coca-Cola non quadravano: il caffè non era nemmeno riportato sul conto. Feci un cenno interrogativo a me stessa, mentre osservavo intorno. Poi notai qualcosa: sotto il divanetto c'era un libro, come se fosse scivolato dalle mani di qualcuno.
Mi chinai per leggere il titolo: La tempesta, di Shakespeare. Una scelta letteraria piuttosto insolita per un assassino, mi venne da pensare. Forse non lo era affatto, forse apparteneva a qualcun altro.
"Logan, qui c’è un libro sotto il tavolo. Puoi analizzarlo per impronte?" chiesi, alzando la voce per farmi sentire dall’altro lato del locale.
"Sarà fatto, Emma," rispose Logan, avvicinandosi con i guanti già calzati e un sacchettino di plastica per conservare il libro come prova.
Lo osservai meticolosamente fare il suo lavoro, mentre Noah finalmente si avvicinava anche lui al tavolo.
"Il cibo è quasi intatto," notò Noah, indicando il piatto.
"Forse è stato disturbato prima di riuscire a mangiare." Annuì, d'accordo.
Qualcosa aveva interrotto quella cena, ma cosa? Guardai ancora intorno e notai vicino alla porta d'uscita un vecchio telefono fisso, montato sulla parete.
"Forse il sospetto ha fatto qualche chiamata da lì," ipotizzai. Decisi di non lasciare nulla al caso.
"Benjamin, puoi procurarmi l'elenco delle chiamate fatte da questo telefono stanotte?" chiesi all’agente.
"Certamente, Emma," rispose Benjamin, annotando la mia richiesta sul suo taccuino.
Feci cenno a Noah di seguirmi verso il bagno. Finalmente era arrivato il momento di vedere da vicino la scena del crimine, il luogo in cui si era consumata la violenza. Varcai la soglia del bagno con un leggero brivido.
Il bagno si presentava come molti altri: alcuni orinatoi sulla destra, i lavandini a sinistra, e in fondo tre separé con le porte chiuse. Uno di quei separé, però, era socchiuso. Mi avvicinai e, lì, nel silenzio della stanza, vidi il corpo di James, poggiato sul water.
La scena era agghiacciante nella sua immobilità. La testa reclinata di lato, il volto pallido. Non c’erano segni di lotta visibili, ma il suo sguardo vuoto, fisso nel nulla, raccontava una storia di morte dolorosa.
Mi avvicinai lentamente al cadavere, cercando di raccogliere ogni dettaglio. L'aria fredda del bagno sembrava amplificare l'odore del sangue, il che rendeva l'atmosfera ancora più opprimente. Noah si sistemò accanto a me, il suo blocknotes pronto a registrare ogni informazione.
"Numerose ferite sul lato sinistro del torace, vicino al cuore," osservai, cercando di mantenere la voce calma.
"Sembrano essere state inferte da un coltello." La mia mente tornò subito al tavolo del sospetto: lì mancava proprio un coltello.
Un collegamento ovvio, ma ancora privo di prove tangibili. Chissà dove fosse finita l'arma del delitto.
Mentre continuavo a osservare il cadavere, notai un'altra cosa che attirò la mia attenzione. Mi scostai e aprii il separé accanto. Qualcosa brillava sul pavimento: una macchia di sangue, piccola ma visibile.
"Noah, qui c’è del sangue," dissi, indicando la chiazza.
"Fallo analizzare a Logan, se non l’ha già fatto." Noah annuì senza dire nulla, prendendo il telefono e chiamando Logan che, come sempre, arrivò rapidamente con il suo kit, pronto a prelevare un campione.
Tornai a concentrarmi sul bagno. Qualcosa non quadrava. La scena sembrava stata “sistemata”, come se qualcuno avesse tentato di nascondere le tracce. I miei occhi si posarono su uno straccio sporco di sangue, abbandonato in un angolo. Era stato usato per pulire, ma il lavoro era stato grossolano, quasi frettoloso.
"Guarda qui," dissi a Noah, indicando lo straccio.
"La vittima è stata uccisa qui, ma il corpo è stato trascinato fino al water. L’assassino ha cercato di nascondere le tracce, pulendo con questo." Mostrai i punti del pavimento dove le tracce di sangue erano ancora visibili nonostante il tentativo maldestro di coprirle.
Noah si avvicinò al cadavere e, mettendo i guanti, iniziò a esaminarlo attentamente.
"La vittima ha ancora il portafogli e la carta di credito. C’è dentro anche un centinaio di dollari. L’assassino non era interessato ai soldi." Annotò velocemente l’informazione, e io feci lo stesso sul mio palmare.
Un altro indizio che ci avvicinava, ma ancora troppe domande senza risposta.
"Pugnalare una persona in un bagno... Devi essere veramente fuori di testa per farlo," commentò Noah, scuotendo la testa.
"Poteva entrare chiunque e scoprirlo." Annuì, riflettendo sul fatto che l’assassino sembrava non essersi preoccupato affatto del rischio.
Un luogo come quello, così pubblico, era una scelta folle. Forse non era una decisione premeditata, oppure l’assassino era stato spinto dalla rabbia, dall’istinto.
Mentre riflettevo su queste ipotesi, Noah si avvicinò al lavandino.
"C’è del sangue qui," disse, indicandolo. Mi avvicinai, osservando le macchie rosse attorno al rubinetto.
"Probabilmente l’assassino si è lavato le mani dopo l’omicidio," ipotizzai.
Era logico: avrebbe voluto ripulirsi prima di lasciare il locale. Ma allora perché non pulire anche il lavandino? Forse era stato frettoloso, oppure in stato di shock. Era un dettaglio importante: stava cercando di coprire le sue tracce, ma non era stato del tutto meticoloso.
"Chissà se è un principiante o qualcuno che ha già ucciso," mormorai tra me e me, mentre Noah si avvicinava all’ultimo separé, ancora chiuso. Il rumore del suo guanto che sfiorava la maniglia sembrò risuonare nella stanza silenziosa. Lo aprì lentamente, e vidi subito un luccichio metallico che attirò la mia attenzione. Noah si chinò e, con estrema cura, tirò fuori un coltello, ancora bagnato e sporco di sangue. Lo teneva delicatamente per la punta, cercando di evitare di contaminare ulteriormente la scena.
"A meno che non ci sia una banda che nasconde coltelli insanguinati nei bagni, abbiamo trovato l’arma del delitto," disse con un sorriso amaro.
"Perfetto," risposi, avvicinandomi. "Dì a Logan di analizzare le impronte sul manico." Noah annuì e si diresse verso l’uscita per consegnare il coltello.
Io lo seguii, con la sensazione che non avremmo ricavato altre informazioni da quel bagno.
Una volta fuori, notai la porta sul retro. Era vicina, troppo vicina alla scena del crimine per ignorarla.
"Noah, io do un’occhiata fuori. Magari qualcuno ha visto qualcosa," dissi, già dirigendomi verso l’uscita.
Noah mi lanciò un cenno di assenso, mentre io spingevo la porta e uscivo nel vicolo.
L'aria fredda mi colpì immediatamente il volto, e mi strinsi nel cappotto. Il vicolo era silenzioso, illuminato solo debolmente dalle luci fioche dei lampioni. Voltai lo sguardo e notai una figura seduta accanto a un bidone, dal quale emanava un piccolo fuoco. Un barbone, infreddolito e apparentemente ubriaco, stringeva una bottiglia tra le mani.
Mi avvicinai con cautela.
"Buonasera, signore," dissi con un sorriso, cercando di mostrarmi amichevole.
"Hey, dolcezza," rispose lui con una voce impastata dall’alcol.
"Che posso fare per te?" Dal tono e dall'odore capii subito che era ubriaco fradicio.
"Sa, non dovrebbe stare qui fuori con questo freddo," provai a dirgli.
"Stanotte si gela. Posso far chiamare qualcuno che la venga a prendere." Cercai di essere gentile, ma la mia offerta venne respinta bruscamente.
"Levati di torno!" abbaiò, stringendo la bottiglia più forte.
"Sto bene, non ho bisogno di nessuno!" Il suo tono era diventato aggressivo, ma me l'aspettavo.
"Ho capito," dissi, alzando leggermente le mani in segno di pace.
"C’è stato un omicidio lì dentro." Il mio tono era diventato serio, diretto.
"Hai visto qualcuno o qualcosa di strano?" Non aveva senso continuare a fare la gentile, dovevo arrivare al punto.
Lui smise per un momento di stringere la bottiglia, e i suoi occhi si fecero più attenti, come se qualcosa lo avesse risvegliato.
"Se ho visto qualcosa? Non ho visto proprio niente, io mi faccio i fatti miei," sbuffò il barbone, prendendo un lungo sorso dalla sua bottiglia, gli occhi persi nel vuoto.
Sospirai, combattendo contro la frustrazione che montava dentro di me.
"Ok, me ne vado," dissi, cercando di mantenere la calma.
"Trovati un posto caldo e riguardati." Mi girai per tornare dentro al diner, consapevole che quell'uomo non mi avrebbe dato altre informazioni utili.
"Ho visto qualcuno," disse all'improvviso, con un tono confuso e distante.
Mi bloccai, il cuore accelerando.
"Anzi, ho visto qualcosa... nessuno si ricorda di lui, ma io l’ho visto... l’ho visto uscire dal retro." S'interruppe, il suo sguardo perso in qualcosa di oscuro, come se stesse rivivendo il momento.
"Era malvagio, il diavolo in persona."
Quelle parole mi colpirono come un fulmine. Mi voltai di scatto verso di lui, avvicinandomi di nuovo con una fiamma di speranza accesa dentro di me.
"Che aspetto aveva? Riesci a descrivermelo?" chiesi con tono urgente, il mio sguardo fermo nei suoi occhi annebbiati dall'alcol.
Lui mi fissò per un momento, poi si lasciò andare in una risata isterica.
"Eh? Chi? Chiedi troppo..." le sue parole si trasformarono in farneticazioni incomprensibili.
"Farneticando... farneticando..." continuò a ridere, la sua voce roca e spezzata.
Sbuffai, irritata, rendendomi conto di quanto fosse inutile continuare a fare domande. Che stupida a pensare di poter ottenere qualcosa da un barbone ubriaco! Con un ultimo sguardo disgustato, mi allontanai, lasciandolo alla sua bottiglia e alle sue visioni distorte.
Tornai dentro il diner, la luce fioca all’interno che contrastava con il buio gelido del vicolo. Non appena entrai, vidi Noah al telefono. Il tono sommesso della sua voce mi fece capire che stava parlando con qualcuno di importante, quindi rimasi in disparte, aspettando che finisse la chiamata.
"Tesoro, tranquilla. Torna a dormire, e prima che ti svegli sarò lì accanto a te," disse con dolcezza, chiudendo la conversazione.
Non poteva che essere la sua compagna dall'altro capo del filo. Quando mi vide, gli feci un cenno con la mano, segnalando che era ora di andarcene.
"Sei sicura?" chiese Noah, avvicinandosi.
Il suo volto mostrava preoccupazione, forse per il mio aspetto stanco e affaticato.
"Sì, ho visto abbastanza per stasera. Sono stanca morta," sbadigliai, portando una mano alla bocca.
Gettai uno sguardo rapido all’orologio sul polso, rendendomi conto di quanto tardi fosse. La notte sembrava eterna, e il freddo penetrante non aiutava.
Noah non disse altro. Ci avviammo insieme verso la macchina, il suono dei nostri passi che rimbombava sul marciapiede deserto. Il gelo sembrava avvolgere tutto intorno a noi, come se anche l'aria fosse diventata più pesante dopo la lunga nottata.
Una volta in macchina, accesi il motore, ascoltando il lieve ronzio che riempiva l'abitacolo.
"Non riesco ancora a credere che quell'assassino abbia scelto un posto così esposto per uccidere," dissi, rompendo il silenzio.
Noah annuì, i suoi occhi fissi sulla strada davanti a noi.
"Sì, è strano. Ma forse non è tutto come sembra," rispose.
Il suo tono era riflessivo, come se stesse ancora cercando di mettere insieme i pezzi di quel puzzle contorto.