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Autore: Drizzit    06/10/2024    0 recensioni
"Shattered Souls" è una storia avvincente che intreccia segreti, traumi e orrori nascosti nel passato. Alice Mason, una giovane donna tormentata dalla morte del padre, viene catapultata in un incubo quando trova una scatola misteriosa davanti alla sua porta. Al suo interno, un’agghiacciante scoperta: una lingua umana. Questo macabro avvertimento la costringe a rivivere il suo passato e a cercare la verità su ciò che è realmente accaduto a suo padre.
Mentre Alice lotta per non farsi travolgere dall'oscurità, un detective viene chiamato a indagare su un recente omicidio legato al caso. Quello che inizialmente sembra un semplice crimine si trasforma in qualcosa di molto più inquietante, spingendolo a scavare in segreti che nessuno avrebbe mai voluto riportare alla luce.
Insieme, Alice e il detective si trovano a percorrere un viaggio oscuro fatto di segreti, incubi e rivelazioni sconvolgenti. Più scavano nel mistero, più si rendono conto che il male che affrontano non appartiene solo al passato, ma è ancora vivo e presente.
"Shattered Souls" è una corsa contro il tempo, in bilico tra incubo e realtà, dove ogni risposta porta a nuovi inquietanti interrogativi.
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Il viaggio verso casa si svolgeva in un silenzio pesante, quasi soffocante.

 Alice fissava fuori dal finestrino, mentre le luci dei lampioni sfilavano lente e monotone lungo la strada bagnata dalla pioggia. Ogni tanto, il rumore regolare dei tergicristalli riempiva lo spazio vuoto tra lei e la dottoressa Weaver, ma oltre a quello, c’era solo un silenzio opprimente.

La dottoressa guidava senza dire nulla per un po’, ma lanciava occhiate frequenti verso Alice. Alla fine, come se non potesse più sopportare quella calma forzata, la sua voce si sollevò, delicata ma carica di preoccupazione. “Alice, stai bene?”

Alice non rispose. Continuava a fissare la strada, i palazzi che scorrevano lenti davanti a lei come se appartenessero a un mondo distante, un mondo al quale non sentiva di appartenere più. Le sue mani erano serrate sulle ginocchia, le nocche bianche per la tensione. Non aveva la forza né la voglia di rispondere, e più di tutto, non sapeva cosa avrebbe dovuto dire.

La dottoressa sospirò piano, il suo volto riflesso nel finestrino accanto ad Alice, una figura indistinta e sfocata nella pioggia che scivolava sul vetro. “Sai, non devi affrontare tutto questo da sola,” cominciò, la sua voce calma e controllata. “Capisco che tu ti senta così… sovraccarica in questo momento, ma è importante che tu sappia che ci sono persone pronte ad aiutarti. Non sei obbligata a portare tutto questo peso da sola.”

Alice continuava a non rispondere. Le parole della dottoressa risuonavano vuote, come se fossero solo eco lontane in una stanza troppo grande per contenerle. Erano parole che aveva già sentito, parole che si ripetevano sempre, in ogni discussione, in ogni colloquio con psicologi, assistenti sociali, poliziotti. “Non devi farlo da sola.” “Puoi contare su di noi.” Eppure, alla fine, si ritrovava sempre sola.

Arrivarono finalmente davanti al suo palazzo. La macchina si fermò dolcemente lungo il marciapiede e la pioggia si fece più forte, picchiettando contro i finestrini come un rumore lontano. Alice fissava l’edificio davanti a lei senza muoversi. C’era qualcosa di pesante nel tornare lì, nel rientrare in quella solitudine che conosceva così bene. Anche se quello era il suo rifugio, era anche il luogo che la intrappolava nei suoi pensieri e nel dolore.

La dottoressa spezzò il silenzio. “Alice,” disse dolcemente, cercando di stabilire un contatto visivo che Alice continuava a evitare. “Non devi affrontare tutto questo da sola, davvero. Lo so che ti sembra impossibile, ma ci sono persone pronte ad aiutarti. Non sei un peso, non devi portare questo fardello senza supporto.”

Fece una pausa, aspettando una reazione che non arrivò. La sua voce si fece ancora più morbida, quasi una supplica. “Non è debolezza chiedere aiuto. Nessuno può farcela da solo, soprattutto dopo tutto quello che hai passato. So che è difficile fidarsi, ma… sono qui per te. Non solo come psicologa, ma come qualcuno che si preoccupa davvero per te.”

Alice rimase immobile, il silenzio tra loro sempre più denso. Le parole della dottoressa le scivolavano addosso, come acqua che non riusciva a penetrarla. La stanchezza, il peso delle aspettative, e il dolore che non trovava mai pace continuavano a gravare su di lei, rendendo tutto sordo e distante.

La dottoressa Weaver tirò un sospiro leggero, poi si sporse un po’ verso il sedile di Alice e le porse un piccolo biglietto da visita. “Questo è il mio numero personale. Puoi chiamarmi in qualsiasi momento, per qualsiasi cosa. Non devi affrontare tutto da sola. Ricordatelo, ok?”

Alice prese il biglietto meccanicamente, senza guardarlo. Le sue dita lo stringevano debolmente, sentendo solo la consistenza fredda della carta, ma non rispose. La pioggia continuava a tamburellare sui vetri, coprendo il silenzio tra loro.

Quando la dottoressa capì che Alice non avrebbe detto nulla, annuì lentamente, accettando il suo bisogno di spazio. “Va bene,” disse con voce tranquilla. “Ricorda solo che ci sono, se hai bisogno.”

Alice finalmente si mosse, aprì la portiera e scese dall’auto. Si tirò su il cappuccio della felpa, cercando di proteggersi dalla pioggia, e chiuse la portiera senza guardare indietro. Ma prima di avviarsi verso il portone del palazzo, si fermò un attimo, voltandosi per un breve istante verso la dottoressa. “Grazie,” sussurrò, a malapena udibile sopra il rumore della pioggia.

La dottoressa Weaver le fece un debole sorriso, anche se dietro quel sorriso c’era una preoccupazione palpabile. “Buona notte, Alice.”

Alice si voltò di nuovo, il biglietto da visita ancora stretto nella mano, e si avviò verso il suo appartamento.

Alice si avvicinava al portone del palazzo, la pioggia che le scivolava sul cappuccio e i suoi pensieri che si mescolavano con il rumore costante delle gocce. Ogni passo sembrava pesante, come se l’idea di tornare a casa fosse un’altra sfida da affrontare. Stava per raggiungere l’ingresso quando notò una figura familiare. Mike era lì, in piedi davanti alla porta del suo appartamento, le chiavi in mano, come se fosse appena rientrato.

I loro sguardi si incrociarono, e Mike si fermò, colto di sorpresa. “Ehi, Alice…” la sua voce era bassa e incerta, ma c’era una preoccupazione sincera nei suoi occhi. Fece un passo verso di lei, facendo tintinnare le chiavi tra le dita. “La polizia è venuta a farmi un sacco di domande oggi… era per quel pacco, giusto? Quello che ti hanno lasciato.”

Alice abbassò lo sguardo, cercando di evitare il contatto visivo. Non voleva parlarne, non voleva che Mike si preoccupasse. La sola idea di coinvolgerlo in quel caos la metteva a disagio. Le mani le tremavano leggermente, strette nelle maniche della felpa, e la sua voce era appena un sussurro quando finalmente rispose.

“Non… non devi preoccuparti per questo.” Le parole le uscivano lente, come se ogni sillaba richiedesse uno sforzo enorme. Non sapeva neanche lei cosa dire, non voleva mentire ma allo stesso tempo non voleva raccontargli tutto.

Mike la guardava con crescente preoccupazione. “Alice… non sembri stare bene,” disse, facendo un altro passo verso di lei. “Se c’è qualcosa che non va, puoi dirmelo.” Il tono della sua voce era gentile, ma anche un po’ impacciato, come se non sapesse bene come avvicinarsi alla situazione.

Alice scosse leggermente la testa, ancora fissando il pavimento. “Non… non voglio coinvolgerti.” La sua voce era un misto di timidezza e stanchezza. Non era facile per lei parlare, e Mike lo capiva.

Mike esitò un attimo, cercando di capire come rispondere senza sembrare invadente. Non voleva forzarla, ma era evidente che qualcosa non andava. “Non dico che devi raccontarmi tutto,” disse infine, con un tono più calmo. “Solo… se hai bisogno di qualcosa, sono qui.” Fece una pausa, incerto se spingersi oltre. “So che magari non ci conosciamo bene, ma… mi sembri davvero giù.”

Alice strinse le labbra, cercando di nascondere l’ansia che le cresceva dentro. Le sue spalle si abbassarono leggermente sotto il peso delle parole che non riusciva a pronunciare. “Grazie…” mormorò infine, la sua voce un soffio appena percettibile.

Mike annuì, vedendo che forse non avrebbe ottenuto molto di più. Sentiva che avrebbe dovuto dire qualcosa in più, qualcosa di più rassicurante, ma le parole gli sfuggivano. “Ok… comunque, se cambi idea o hai bisogno di qualcosa, basta bussare. Io… sono qui.”

Alice finalmente alzò lo sguardo verso di lui per un breve istante, con un leggero cenno del capo. “Sì… grazie,” ripeté, prima di voltarsi lentamente verso le scale. 

Mentre salì i gradini uno alla volta, Alice non poteva fare a meno di pensare a Mike. Era sempre stato gentile con lei, quasi troppo, e una parte di lei voleva davvero avvicinarsi a lui, lasciarlo entrare, magari anche solo per sentirsi meno sola in quel caos. Ma come poteva? Come poteva trascinare qualcuno dentro una vita così incasinata?

Arrivata al suo piano, si fermò davanti alla porta del suo appartamento. Il peso di tutto ciò che le gravava addosso sembrava soffocarla. La gentilezza di Mike era stata una piccola luce in quella giornata oscura, ma sapeva che non poteva permettersi di affidarsi a quella luce. La sua vita era un groviglio di segreti e dolore che non voleva esporre a nessuno, tantomeno a lui.

“Non posso farlo, non posso trascinarlo in questo.” Era un pensiero che si ripeteva nella sua testa, un mantra che sembrava l’unica cosa a cui aggrapparsi. Mike meritava di essere felice, lontano da tutto quello che stava succedendo a lei.

Girò la chiave nella serratura, e il suono del metallo che scattava sembrava amplificato nel silenzio del corridoio. Una volta entrata, chiuse la porta alle sue spalle e si appoggiò contro di essa, il respiro affannoso. 

Era di nuovo sola.

La solitudine la avvolgeva, come una coperta fredda e pesante. Mike era lì, vicino a lei, eppure sembrava lontano anni luce. Nonostante tutto, una piccola parte di lei desiderava tornare indietro, bussare alla sua porta e dirgli tutto, lasciare che qualcuno condividesse quel fardello che portava da sola. Ma ogni volta che quel pensiero affiorava, veniva spazzato via dalla paura.

“Non posso,” si disse, cercando di convincersi che quella fosse la cosa giusta da fare.

Si guardò le mani, tremanti, poi tirò un lungo respiro. Doveva muoversi, non poteva permettersi di restare ferma troppo a lungo. La pioggia l’aveva inzuppata, i vestiti le aderivano addosso, freddi e pesanti. Con un gesto lento, iniziò a togliersi la felpa, lasciando cadere il tessuto umido sul pavimento. Il freddo della stanza le colpì la pelle, e sentì il brivido attraversarle la schiena.

Si sfilò anche i jeans, cercando di non pensare a tutto quello che le era appena accaduto. Il rumore delle domande della polizia, il nome di Loomis, e soprattutto il volto preoccupato di Mike le tornavano in mente come fantasmi. Voleva scacciare quei pensieri, ma continuavano a riemergere, uno dopo l’altro.

Con movimenti lenti e automatici, si tolse anche la maglietta e rimase in piedi, nuda tranne che per la biancheria. Sentiva la pelle gelata, ma non era solo colpa della pioggia. Era il peso di tutto ciò che stava accadendo, un freddo che partiva da dentro.

Mike. Non poteva smettere di pensare a lui. La sua gentilezza, la sua preoccupazione sincera. Era l’unica persona che, anche solo per un attimo, l’aveva fatta sentire un po’ più leggera. Forse avrebbe voluto aprirsi con lui, dirgli tutto quello che le stava divorando dentro, ma come poteva farlo? Come poteva trascinarlo dentro quell’abisso in cui si trovava? Mike meritava di vivere una vita normale, felice, non di essere intrappolato nella sua oscurità.

Si fermò davanti al piccolo specchio appeso nel corridoio. Il riflesso che vide non era quello di una persona sicura. I suoi occhi erano stanchi, gonfi per lo stress, e il viso pallido le dava un’aria spettrale. Si strinse le braccia al petto, come a cercare di trattenere il freddo che sentiva crescere dentro di lei.

“Non posso farlo,” pensò ancora una volta, fissandosi negli occhi attraverso lo specchio. Mike meritava di essere felice, lontano da tutto quel caos che stava divorando la sua vita. Ma anche se cercava di convincersi che fosse la cosa giusta da fare, una piccola parte di lei dubitava sempre di più. E se avesse avuto torto? Se si fosse sbagliata e lui fosse stato davvero in grado di aiutarla, o almeno di alleviare quel peso?

Scosse la testa, come per liberarsi da quel pensiero. “È meglio così,” sussurrò, girandosi verso la camera da letto.

Si infilò una vestaglia asciutta e tornò verso il bagno per buttare i vestiti fradici nel cesto della biancheria. I suoi piedi nudi facevano piccoli rumori sul pavimento freddo, e tutto sembrava tornare a quella routine che conosceva fin troppo bene: solitudine, silenzio, e i suoi pensieri.

Accese la luce fioca del bagno e si fermò davanti al lavandino. Le mani si posarono sul bordo di ceramica fredda, stringendolo con forza mentre si chinava in avanti, il viso vicino allo specchio. Chi era ormai? Non si riconosceva più. Le immagini di quel pacco, delle domande, del terrore che aveva provato si mescolavano in un vortice confuso nella sua testa.

Un rapido sguardo all’orologio appeso alla parete le rivelò che erano passate le 11 di sera. Il giorno era scivolato via senza che se ne rendesse conto, ma la stanchezza che sentiva non era quella che si risolve con il sonno. Non aveva mangiato per tutto il giorno, eppure non sentiva fame. Solo un vuoto crescente che sembrava espandersi dentro di lei.

Guardandosi di nuovo allo specchio, si accorse che le sue guance erano più scavate di quanto ricordasse, la pelle tesa e pallida. Sembrava un’estranea nel suo stesso corpo. Ma in fondo, che importava? Anche il semplice atto di prendersi cura di sé, come mangiare o riposare, sembrava quasi superfluo. Come se nulla di tutto ciò potesse realmente colmare quel vuoto.

Alice spense la luce del bagno, lasciando la stanza immersa nel buio e nel silenzio. Si diresse verso la camera da letto, i piedi nudi che scivolavano sul pavimento freddo. Ogni passo sembrava pesante, come se le sue stesse gambe fossero fatte di piombo. Raggiunse il letto e si lasciò cadere sopra di esso, sentendo il morbido abbraccio delle lenzuola contro la pelle ancora gelida. Non si preoccupò nemmeno di sistemarsi bene; si limitò a tirare la coperta sopra di sé, cercando disperatamente di scacciare il freddo che sembrava provenire da dentro.

Si rannicchiò su un lato, con il viso rivolto verso il muro. La stanza era buia, ma la sua mente era ancora invasa da pensieri e immagini che non le permettevano di trovare pace. Il nome di Loomis continuava a ronzare nella sua testa, mescolandosi con le immagini del pacco e il volto preoccupato di Mike. Era tutto un caos indistinto che non riusciva a mettere a tacere.

Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi solo sul ritmo lento del suo respiro.

Il letto sembrava accoglierla in una stretta lenta e opprimente, e anche se il sonno non arrivava subito, Alice sentiva le sue palpebre farsi sempre più pesanti. I pensieri, dapprima confusi e aggrovigliati, cominciavano a dissolversi lentamente, uno dopo l’altro, fino a lasciare spazio solo al buio.

Alla fine, il suo corpo cedette, scivolando nell’incoscienza. Le immagini nella sua mente, dapprima frammentate, iniziarono a prendere forma, fondendosi in un sogno che si stava facendo strada nel suo subconscio.

Alice era stesa su un letto, ma non era quello del suo appartamento. Il materasso sotto di lei era duro, freddo, simile a quello di un ospedale. Sentiva le lenzuola ruvide contro la pelle, ma non riusciva a muoversi, come se il suo corpo fosse paralizzato. Guardando verso il soffitto, il suo sguardo si appannava e tutto sembrava oscillare, distorto. Era di nuovo una bambina, poteva sentirlo nel corpo più piccolo, nelle gambe corte che non toccavano il bordo del letto.

Intorno a lei, voci sussurravano parole che non capiva. Erano voci basse, professionali, ma anche inquietanti nella loro indifferenza. Usavano termini che Alice non riusciva a decifrare, ma che suonavano freddi e lontani, legati alla neuroscienza e alla psiche.

“Stimolazione neurale… Dobbiamo controllare i livelli di risposta cognitiva.”

“Prepara l’iniezione, dosaggio minimo di 0,5 millilitri… e pronti per il prossimo impulso.”

Cinque figure si muovevano attorno al letto, ombre avvolte in camici bianchi, il volto nascosto dietro mascherine che coprivano tutto tranne gli occhi. Quegli occhi… sembravano vuoti, privi di ogni emozione. Tra di loro c’era una donna, lo capiva dalla sagoma minuta e dalla voce più delicata, ma anche lei era un’ombra indistinta. Non riusciva a vederla in volto, la mascherina la nascondeva, così come faceva con gli altri.

Alice provava a parlare, a muoversi, a protestare, ma la sua bocca non riusciva ad aprirsi. Era come se le sue corde vocali fossero state bloccate. Voleva urlare, ma non usciva alcun suono. Il suo corpo era intrappolato, fermo, vulnerabile.

Poi, sentì un forte stridio, come un dispositivo che si accendeva. Un elettroshock. La figura alla sua sinistra premeva dei pulsanti su una macchina, e in un attimo Alice sentì una scarica attraversarle il corpo. Era una scossa improvvisa, violenta, che la fece inarcare la schiena, gli occhi sbarrati dal terrore. Il dolore era insopportabile, eppure non poteva muoversi o gridare. Le sue mani erano legate al letto, le dita serrate in una posizione innaturale.

“Ecco, è pronta per il prossimo stimolo,” disse una voce maschile, fredda e distante. Non c’era compassione, solo calcolo.

Le mani di una delle figure si muovevano rapide, inserendo aghi nelle sue braccia. Sentiva il liquido freddo delle iniezioni scorrere dentro di lei, bruciante come fuoco. I volti attorno a lei rimanevano nascosti, e Alice poteva solo immaginare cosa stessero pensando, cosa stessero facendo.

Il terrore la paralizzava ancora di più. E poi lo vide.

L’essere d’ombra.

Lo stesso che aveva visto il giorno della morte di suo padre. Era lì, nell’angolo della stanza, una figura senza contorni definiti, scura, densa. Era fermo, immobile, ma la sua presenza era opprimente, riempiva l’aria. Lo vedeva senza occhi, ma sentiva il suo sguardo penetrante. Il cuore di Alice batteva all’impazzata, ogni battito come un martello che risuonava nella sua testa.

L’essere d’ombra non si muoveva, eppure Alice sentiva che si avvicinava sempre di più, come se il terrore stesso lo portasse a lei. Voleva scappare, voleva urlare per fermarlo, ma non poteva fare nulla.

Le figure mediche continuarono il loro lavoro, del tutto indifferenti alla presenza dell’ombra. Continuarono a parlare, a fare iniezioni, a usare l’elettroshock, come se nulla fosse fuori dall’ordinario. Per loro, Alice era solo un oggetto, uno strumento da analizzare.

Poi, improvvisamente, l’ombra si mosse.

Senza alcun suono, senza alcun avvertimento, si proiettò verso di lei. Alice sentì il suo cuore fermarsi per un attimo, il respiro bloccarsi in gola. L’essere oscuro sembrava fondersi con il dolore che stava provando, inghiottendo ogni pensiero, ogni frammento di coscienza. Era come cadere in un abisso senza fine, dove tutto ciò che restava era terrore e vuoto.

In quel momento, Alice riuscì finalmente a urlare.

Un grido straziante, carico di paura, che riecheggiò nel buio e la fece svegliare di colpo, con il respiro affannato, il corpo sudato e tremante. Il letto sotto di lei era lo stesso, ma l’incubo le sembrava ancora reale, come se fosse stata davvero in quella stanza, come se le voci e l’ombra fossero ancora lì, nascoste nell’angolo buio della sua camera.

Si sedette sul letto, stringendosi le ginocchia al petto. Il cuore le batteva ancora troppo forte, il respiro irregolare. L’oscurità nella stanza sembrava più densa, e per un lungo istante, Il respiro di Alice era spezzato, il petto che si sollevava in rapide ondate mentre cercava disperatamente di calmarsi. Il terrore dell’incubo era così reale che la stanza attorno a lei sembrava ancora intrisa di quella stessa oscurità. Si passò una mano sul viso, asciugandosi il sudore freddo, poi guardò verso il comò accanto al letto. Sapeva cosa doveva fare, doveva fermare quegli incubi. 

Non poteva sopportare altri risvegli così.

Con un movimento quasi automatico, si allungò verso il cassetto del comodino. Le mani le tremavano mentre lo apriva, cercando freneticamente tra i vari oggetti che aveva lì dentro. Finalmente le sue dita toccarono il piccolo flacone di plastica, lo tirò fuori e lo fissò per un istante, come se volesse convincersi che fosse davvero l’unica via d’uscita.

I sonniferi.

La promessa di un sonno profondo, senza sogni. Li aveva presi altre volte, nei momenti più bui, quando non riusciva a reggere il peso della notte. E quella notte era sicuramente una di quelle. Il suo respiro era ancora irregolare, e il cuore continuava a martellare nel petto, come se l’essere d’ombra potesse apparire in qualsiasi momento dall’angolo della stanza. Doveva fermare tutto questo. 

Doveva.

Svitò il tappo con mani frementi, quasi agitata. Le compresse scivolarono fuori, una, due, tre, direttamente nella sua mano sudata. Guardò quelle piccole pastiglie bianche, le mani che tremavano così forte da farle quasi cadere. Non importava più niente. Non le importava più se fosse la cosa giusta da fare, l’unica cosa che desiderava in quel momento era un sollievo, una tregua da quel caos.

Con un gesto rapido, si infilò le pillole in bocca e le mandò giù a secco, senza nemmeno prendersi il tempo di bere acqua. Le sue mani ora stringevano il lenzuolo, e chiuse gli occhi con forza, quasi come se volesse cancellare la realtà stessa. Doveva dormire, doveva smettere di pensare. Aveva bisogno di quell’oscurità senza sogni.

“Senza sogni… per favore.” Sperava che quei farmaci le regalassero quella pace temporanea che cercava disperatamente. Forse, forse con loro, avrebbe evitato di sprofondare ancora in quell’incubo, in quel luogo pieno di dolore e terrore.

Si rannicchiò di nuovo sul letto, stringendo le gambe contro il petto. Il buio attorno a lei sembrava chiuderle addosso, ma almeno ora c’era una piccola speranza che quella notte potesse passare senza altre visioni, senza quell’essere d’ombra che la perseguitava.

Mentre il corpo iniziava lentamente a rilassarsi, Alice sprofondava di nuovo in uno stato di incoscienza, pregando che, questa volta, sarebbe stato solo sonno. 

Solo silenzio.
  
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