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Autore: jessym    26/10/2024    0 recensioni
Aurora Bernardi è una quattordicenne timida ed introversa, senza amici e spesso vittima di prepotenze e bullismo. Le sue uniche passioni sono lo studio e la scuola, dove eccelle in ogni materia. Un giorno, per caso, camminando in una stradina secondaria, assiste all’assassinio di un Vice Questore, diventando di fatto l’unica testimone dell’accaduto.Senza volerlo, si ritroverà catapultata in una delicata e contorta indagine di Polizia, tra truffe, corruzione, omicidi ed un’ambigua società multimiliardaria implicata in traffici illeciti con il Medio Oriente, finendo nel mirino di coloro che la considerano già un pericolo. Questo cambierà radicalmente la sua vita, attraverso l’amicizia con una scorbutica Ispettrice di Polizia, fino alla passione travolgente per un uomo molto più grande di lei, un giovane ed affascinante medico appena trasferitosi accanto a casa sua, con cui instaurerà un’intensa relazione di amore e sesso, che causerà profondo disappunto e biasimo da parte di alcuni suoi famigliari e conoscenti. Ma quando la sua vita e la relazione con il suo amato dottore sembrano ormai andare per il meglio, i vecchi nemici del passato rivolgono nuovamente lo sguardo verso di lei, per cui hanno in serbo un terribile destino...
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una fredda mattina di inizio febbraio del 1998, in una piccola villetta alla periferia di Rozzano, mentre una pioggia gelida scioglieva la poca neve rimasta nel giardino, in una camera al primo piano, una sveglia iniziò a trillare.

Prontamente, una mano sbucò da sotto il cumulo di coperte e prese a ticchettare sulla sveglia, finché il suono non cessò, poi si rituffò subito nel caldo tepore del piumone.

Venti minuti dopo, una ragazzina si mise a sedere nel letto, sfregandosi gli occhi e spingendo di lato le coperte. Passati i secondi di intorpidimento, le sue pupille fissarono i numeri in rosso che lampeggiavano sull’orologio del comodino.

Erano quasi le sei e mezza, aveva di nuovo spento la sveglia senza accorgersene ed aveva continuato a dormire; ora era in ritardo, in terribile ritardo!

Aurora Bernardi si catapultò giù dal letto, si tolse in fretta il pigiama e prese un paio di jeans ed una maglia dalla sedia, su cui riposavano da giorni, con un mucchio di altri vestiti.

Poi corse in bagno per lavarsi la faccia e tentare di svegliarsi. La lunga treccia di capelli biondo chiarissimo, che teneva sempre raccolti, era mezza sfatta, ma non aveva tempo per risistemarla.

A volte aveva l’abitudine di ordinarli in due trecce, in alto sulle tempie, ma questo non era il giorno adatto!

Scese le scale a due a due e raggiunse la cucina imprecando per il ritardo; sua madre Elena non c’era, il suo turno di notte alla Casa di Riposo finiva alle sette, come sempre.

Aprì il frigorifero e prese un cartone di latte dalla portiera; non poteva scaldarlo né farsi un caffè, non aveva tempo per niente!

Trangugiò varie sorsate di latte e frugò speranzosa nei pensili della cucina, alla ricerca di qualche merendina o dolcetto, per una rapida colazione. Niente, solo biscotti secchi e fette biscottate.

Rassegnata, infilò le scarpe da ginnastica ed il cappotto, quindi risalì a prendere lo zaino della scuola in camera sua. Per fortuna, aveva l’abitudine di prepararlo la sera prima.

Percorse a passo svelto i cinquecento metri che la separavano dalla casa di sua cugina Melania, una villetta che si trovava al limitare della periferia, dove iniziavano ad esserci i primi condomini e scomparivano pian piano le case con giardini e prati.

< Dove diavolo sei finita? >

Il tono di Melania era piuttosto irritato.

< Se camminiamo veloce ce la facciamo > sentenziò Aurora.

Melania fece una smorfia, poco convinta, ed insieme si avviarono alla fermata dell’autobus, che, dopo un lungo tratto, le avrebbe lasciate a poco meno di un chilometro dalla Scuola: il Liceo Scientifico Alessandro Volta di Milano.

< Visto, ce l’abbiamo fatta. > puntualizzo Aurora appena cinque minuti prima che suonasse la campanella delle otto.

< Dove vai ? > chiese Melania inviperita, vedendo che la cugina aveva preso il corridoio opposto a quello che portava nella loro classe.

< A prendere qualcosa alla macchinetta. >

< Dammi lo zaino almeno ! > esclamò Melania.

Aurora la fissò con aria interrogativa, anche se già intuiva le intenzioni della cugina.

< Devo copiare la versione. > spiegò.

Sbuffando, Aurora le consegnò lo zaino, dopo aver preso il portamonete dal taschino.

Il distributore automatico non offriva molta scelta e lo stomaco brontolava; non aveva voglia di cibi salati di prima mattina, allora optò per un croccante agli arachidi, un paio di piccole merendine al cioccolato ed un plumcake allo yogurt.

Mangiò le merendine ed il plumcake camminando verso la classe ed osservando gli altri studenti che si sedevano nelle loro aule. Raggiunse la sua classe ed il suo posto vicino a Melania, che copiava la versione, continuando a borbottare.

La primterza B era una delle 25 classi del Liceo, composta da 28 studenti e, secondo l’opinione comune, la sezione B aveva gli insegnanti più preparati ed esigenti. I ragazzi erano sistemati in quattro file ed i banchi erano allineati a due a due. Melania ed Aurora erano in ultima fila, accanto ad una delle finestre.

Alzando il viso dal quaderno, Melania vide la cucina sedersi con in bocca un pezzo di plumcake, in mano ancora le carte delle merendine appena mangiate ed il croccante intatto.

Dopo aver messo gli involucri, che si era dimenticata di buttare nella spazzatura, ed in croccante sotto al banco, fini l’ultimo boccone di plumcake.

< Sai che mi dà fastidio e lo fai sempre! > sbottò Melania rivolta ad Aurora.

< Non ho fatto colazione > replicò con la bocca ancora impastata di cibo < Sono rimasta addormentata. >

Melania aveva completamente dimenticato la versione da copiare ed era furiosa con la cugina.

< Sai cosa ho mangiato a colazione! una tazza di latte di soia e tre biscotti integrali. E’ un mese che vado avanti con questa dieta e non ho perso neppure un grammo ! >

L’ingresso dell’Insegnante di Matematica e Fisica costrinse Melania ad abbassare notevolmente il tono della voce, ma non le impedì di continuare con i suoi rimproveri.

< Lo fai apposta, mangi davanti a me > riprese in tono stizzito.

Aurora cercò di zittire la cugina, senza successo.

< Certo tu puoi farlo. Sei magra come un’acciuga, mangi schifezze in continuazione e non prendi neanche un etto > Melania fece un sospiro ed alzò lo sguardo al cielo. < Non ce la faccio più. >

Lo sguardo severo della Professoressa Colombo e, soprattutto, il plico di fogli che teneva in mano, catturarono immediatamente l’interesse della classe e riuscirono a far tacere Melania, ormai rassegnata.

L’Insegnante aveva corretto i compiti in classe di trigonometria con la consueta rapidità ed ora si apprestava a distribuirli alla classe. Il suo metodo di consegna singolare prevedeva di dare i compiti facendo alzare gli allievi uno alla volta pronunciato il loro nome, partendo dal compito con il voto più basso, fino al migliore. La Professoressa era convinta che tale metodo incitasse gli allievi a migliorare e raddoppiare gli sforzi, in attesa del prossimo compito.

I ragazzi incrociavano le dita con ansia, sperando che il loro nome venisse pronunciato il più avanti possibile.

Melania respiro profondamente, il suo compito sarebbe stato tra i primi, ne era cerca, soprattutto perché sua cugina si era categoricamente rifiutata di passarglielo, adducendo la scusa che la Prof. la teneva d’occhio. Il vero motivo era che Melania aveva rinunciato a studiare ed esercitarsi con lei ogni pomeriggio per un mese di fila, come aveva precedentemente promesso, a causa del nuovo “fidanzato ”, Stefano, che sosteneva fosse l’uomo della sua vita, anche se Aurora era più che certa che, in un paio di mesi, tutto sarebbe sfumato in bolla di sapone, come sempre, del resto.

La processione iniziò. Aurora guardava distrattamente fuori dalla finestra ed, ogni tanto, staccava un pezzo di croccante da sotto il banco, senza seguire minimamente l’andirivieni degli altri ragazzi.

Dopo essere tornata al suo posto con un sei più, Melania tirò un sospiro di sollievo; sua madre non avrebbe fatto salti di gioia, ma almeno non era un’insufficienza e, di conseguenza, non sarebbe finita di nuovo in punizione.

L’ultimo compito ovviamente era quello di Aurora, che ritirò il suo foglio con un grande numero dieci stampato sopra e ricevette il sorriso della Professoressa, poi tornò al banco come se per lei fosse la cosa più naturale del mondo, come infatti era.

Due ore scivolarono via tra spiegazioni ed esercizi alla lavagna. La seconda lezione del giorno, quella per cui Melania si era sbrigata a copiare il compito, era Latino. Il professor Pellegrini sceglieva ogni giorno uno studente diverso per vedere come aveva tradotto la versione assegnata di compito e correggerla.

Dalla discussione avuta ad inizio mattinata, Melania non aveva più rivolto la parola a sua cugina. Per Aurora non era un gran problema, Melania era adusa a questi scatti di ira, anche se, da quando aveva iniziato quella sua nuova dieta vegetariana, era più irascibile del solito.

Toccandosi le gambe magre sotto i jeans, i pensieri di Aurora caddero su come doveva essere rinunciare ai propri cibi preferiti, avere costantemente lo stimolo della fame senza poterlo soddisfare; lei non avrebbe retto un solo giorno. Da sempre adorava mangiare, in particolare dolciumi e cioccolato, specialmente quello nero, fondente.

Melania sosteneva che lei fosse stata baciata dalla fortuna in questo campo, anche se Aurora credeva che essere tanto magra a poter soddisfare le sue golosità non fosse proprio il massimo della fortuna, in confronto a tutte le difficoltà avute nella sua breve vita.

Suonata la campanella per l’intervallo, Melania corse via per riunirsi con i suoi amici nel cortile della Scuola e per nascondersi a fumare, cosa che non era permessa ai minorenni.

Aurora si avviò verso la biblioteca della Scuola per riportare il libro di poesie di Catullo, che aveva preso in prestito diversi giorni prima. La sera precedente aveva tentato di riaggiustare il povero libro, ormai a brandelli, con quintali di scotch, ma era riuscita solo ad evitare che le pagine si staccassero dalla copertina.

La biblioteca della Scuola era piccola, poco fornita e, dopo l’avvento di internet, assai poco frequentata. Aurora era una dei rari studenti che si servivano ancora dei libri a disposizione per i propri studi.

Mentre camminava pensando a come evitare la lezione di ginnastica delle due ore seguenti, una ragazzo la spinse volontariamente di lato con una spallata, correndo per raggiungere gli amici più avanti nel corridoio, che ridevano e scherzavano.

< Levati imbranata ! > esclamò il ragazzo, mentre il vecchio libro che aveva in mano cadeva a terra e si apriva a metà.

Ora era completamente distrutto!

Raccogliendo le pagine, ormai avvezza a questi trattamenti ed ai soprannomi che le avevano accollato, come ritardata, sfigata, oltre al prediletto, “bella addormentata”, con un significato tutt’altro che positivo, Aurora si chiese come spiegarlo alla bibliotecaria, quando un forte crampo all’addome cancellò tutte le altre preoccupazioni.

Fortunatamente la donna che si occupava della biblioteca non la rimproverò per il libro, anche se ora la ragazza aveva problemi ben più grossi. I crampi all’addome continuavano e sembravano voler aumentare. La sua mente arrivò rapidamente al latte freddo bevuto al mattino, l’unica cosa che poteva averle causato quei dolori; doveva essere scaduto, eppure non aveva avvertito alcun gusto strano, bevendolo…

Altro che Melania e le sue idee di persona fortunata. Ora aveva davanti due ore di ginnastica, la cosa che, forse, odiava di più al mondo, con un Insegnante che, a partire dalla prima lezione, aveva paragonato ad un agente della Gestapo.

Il professor Cardellino era un uomo sulla trentina, di bell’aspetto, con un fisico asciutto ed opinioni da lei detestate. Era un salutista convinto, vegetariano, contro gli ogm ed ogni cibo che non fosse di origine biologica e rigorosamente vegetale. Considerava il mangiare carne e dolci come il peggior peccato mortale e riteneva fortemente che ogni essere umano, che non praticasse almeno uno sport e non dedicasse tutto se stesso alla forma fisica ed alla corretta alimentazione, non fosse degno di essere tale.

Molti studenti, tuttavia, lo adoravano, in particolar modo le ragazze; un uomo molto attraente, forte, virile.

Per Aurora era un perfetto idiota; era giunta a questa conclusione mesi prima, quando aveva accennato al paradosso di Achille e della tartaruga di Zenone come esempio, parlando con lui in riferimento ad una sua azione, e lo aveva sentito bisbigliare tra sé, in dialetto milanese : < Chi l’è quest parados ? >

Le ore di ginnastica erano una tortura ed Aurora inventava ogni volta una scusa differente per non dovervi partecipare. Da mesi, infatti, non portava più con sé nemmeno la tuta per cambiarsi. Non era adatta all’attività fisica, l’aveva sempre saputo, aveva il fiatone dopo cento metri di corsa, era rigida come un bastone ed imbranata fino all’inverosimile in qualsivoglia sport. Inoltre i suoi compagni di classe non avrebbero mai perso l’occasione di ridicolizzarla, in qualsivoglia modo, durante la ginnastica.

In aggiunta, alla fine della lezione, tutti coperti di sudore, dovevano rimettersi i vestiti puliti e correre in classe, perché il “Salutista” non permetteva loro di fare la doccia, anche se erano a disposizione negli spogliatoi, sostenendo che avrebbe rubato troppo tempo all’esercizio. Trascorrere il resto della giornata sporca e con l’odore di sudore che si sentiva a mezzo metro di distanza, per Aurora, era l’ultima goccia.

La situazione grottesca era che, stavolta, aveva davvero una motivazione per non poter fare ginnastica e non serviva nessuna scusa arzigogolata da inventare. I crampi all’addome erano terribili!

Mentre gli studenti si avviavano verso la palestra e Melania ancora non rivolgeva la parola alla cugina, irritata per quello che era accaduto al mattino e perché non le aveva passato il compito di Matematica, Aurora camminava da sola, sperando che le urla di Cardellino non giungessero in ogni angolo della Scuola.

Appena si sedette sulle panchette che circondavano la palestra, invece di dirigersi verso gli spogliatoi, il Professor Cardellino si piazzò di fronte a lei con le mani sui fianchi ed un’aria tutt’altro che amichevole.

< Che hai oggi Bernardi ? > chiese con un misto di sufficienza e disappunto.

< Mal di pancia > sussurro a testa bassa.

Nonostante il volto teso di Aurora, l’espressione di sofferenza ed il busto piegato in avanti per il dolore, il Professore sogghigno con aria stizzita.

< Non puoi avere sempre le mestruazioni Bernardi ! > proruppe con sarcasmo.

< Non... ho le... mestruazioni...solo... mal di pancia, davvero. >

< Hai sempre una scusa Bernardi! > esclamò con un tono alterato, < Sai, gli altri Professori ti adorano, con tutti i tuoi dieci. Lo scorso semestre mi hanno obbligato a metterti un otto in pagella, per non rovinare la tua preziosa media... ah, ma stavolta non riusciranno a convincermi ! >

Cardellino parlava con aria soddisfatta, come se tenesse un comizio.

< Un quattro ti meriti, un bel quattro! altro che la studentessa migliore della Scuola, sei solo una pelandrona, sei svogliata, bugiarda ed arrogante, da me non avrai più alcuno sconto! continua pure a poltrire su quelle sedie, a fine anno ti darò solo quello che meriti ! >

Alcuni studenti erano già usciti dallo spogliatoio in maglietta e pantaloncini corti, ed ascoltavano, ridacchiando divertiti, lo sfogo del Professore.

In qualsiasi altra occasione, Aurora si sarebbe data pena per la sua media scolastica in pericolo, ma in quel momento era troppo impegnata a resistere ai crampi.

Trascorsi quaranta minuti, alla fine fu costretta a cedere ed usò il bagno dei Professori; almeno quello era pulito!

Una volta uscita, i crampi si erano attenuati, tuttavia il suo breve ritorno di quiete venne interrotto bruscamente dalle urla di Cardellino, che si era accorto della sua lunga assenza.

Si era allontanata per quasi venti minuti senza neppure chiedere il permesso e lui era furioso per la sua assoluta mancanza di rispetto.

Nel pomeriggio aveva in programma una visita alla Biblioteca Comunale; quella scolastica era poco fornita.

I crampi erano quasi scomparsi, ma si sentiva ancora indolenzita, così decise di mangiare solo un toast, per placare il senso di fame, prima di prendere l’autobus per arrivare nei pressi della Biblioteca Comunale della Città. Tornare a casa per il pranzo avrebbe richiesto troppo tempo.

Prese una stradina secondaria per risparmiare tempo, come era solita fare. Non c’era quasi mai nessuno in quella strada a senso unico che conduceva al piccolo ingresso sul retro della Biblioteca. Nemmeno le auto transitavano spesso, perché la via era stretta, essendo circondata dai portici da ambo i lati, e piuttosto dissestata, a causa dell’acciottolato malandato sul terreno. Il Comune, in perenne carenza di fondi, non si dava pena per aggiustarla. Inoltre, in tutta la zona centrale della città, l’accesso delle auto era riservato solo ai residenti.

Ad Aurora urgeva un libro su Guittone D’Arezzo, per completare la sua tesina sull’origine del Dolce Stil Novo. Si era impegnata molto in questo lavoro. La sua finalità ultima era l’interrogazione di lunedì con il professor Pellegrini; ad inizio anno, aveva ribadito loro che il massimo voto che uno studente poteva ricevere durante le sue interrogazioni di Italiano era un nove.

Ma Aurora, munita della sua tesina e di tutto il suo impegno, questa volta era determinata ad avere un dieci.

Diverse volte aveva desiderato un computer con una connessione internet per evitare tutti i pellegrinaggi nelle biblioteche ed avere ogni informazione sotto mano. Aveva accennato a sua madre che poteva essere un regalo per il suo compleanno, dato che aveva compiuto quattordici anni appena una settimana prima ed era un anno avanti con la scuola, avendo iniziato le elementari a cinque anni.

Poi aveva ripensato ai turni notturni di sua madre come Operatrice Socio-Sanitaria alla Casa di Riposo, per pagare i debiti ed il mutuo della casa, ed il disagio di suo padre, Alberto, che vedeva due o tre volte l’anno da quando, nove anni prima, la sua piccola impresa era fallita e si era riempito di debiti; l’unica soluzione, per suo padre, era stata chiedere aiuto ad una sua parente, che aveva

sposato un industriale emiliano; così si era ritrovato a lavorare in una delle varie filiali che lui aveva in Cina.

Poco dopo il collasso economico e la partenza del padre, Elena aveva scoperto di essere incinta, nonostante i vari problemi, lei ed il marito, cattolico dalla nascita, avevano deciso di tenere il bambino.

Aurora, saputa la notizia, era al culmine della gioia, anche perché era ancora troppo piccola per rendersi conto dei seri guai economici dei genitori. L’idea di avere un fratellino o una sorellina con cui giocare e dividere le giornate la riempiva di felicità. Passava il tempo a parlare e meditare su come si sarebbe presa cura di lui, o lei, ed avrebbero giocato insieme.

Due mesi dopo, probabilmente a causa degli stress, dei problemi finanziari e del troppo lavoro, Elena aveva avuto un aborto spontaneo alla diciottesima settimana, appena tornata a casa dal turno di notte.

Era stata proprio Aurora a trovarla, svegliata da uno strano rumore. Era corsa nella camera dei genitori ed aveva rinvenuto la madre a terra, a fianco del letto, incosciente, con un ampio lago di sangue tra le gambe.

Terrorizzata, aveva immediatamente chiamato l’ambulanza.

In Ospedale, oltre alla perdita del bambino, un maschio, a causa di una violenta emorragia insanabile, dovette subire un’isterectomia d’urgenza.

Aurora scoprì di aver perso il futuro fratellino due ore dopo, scoppiò a piangere nella sala d’attesa dell’Ospedale, si gettò a terra, tirando pugni sul pavimento, colpevolizzando anche se stessa per non aver chiamato più rapidamente i soccorsi o per non essersi accorta che, magari, la madre aveva un problema di salute prima dell’accaduto.

Un’infermiera, pian piano, riuscì a calmarla, fino all’arrivo di suo padre, appena atterrato dal volo.

Elena si riprese piuttosto rapidamente a livello fisico, Albero dovette forzatamente tornare al suo lavoro all’estero, dopo solo due settimane di aspettativa; poco dopo Elena cadde in un profondo stato di depressione, che durò per oltre cinque anni, nonostante i farmaci e le cure psichiatriche.

Si limitava ad andare al lavoro e, una volta a casa, trascorreva la giornata sul divano, anche durante i giorni di riposo, senza dedicarsi a null’altro, a volte piangendo sommessamente senza farsi sentire. Spesso si rifiutava anche di andare al lavoro. Fu solo per la benevolenza del suo capo reparto, sensibilizzato dalla sua triste situazione, e di una bella dose di fortuna, che non venne licenziata.

Rifiutava anche di vedere le persone che cercavano di venire a trovarla, persino sua sorella Elisa e, quando il marito tornava dal lavoro per le sue settimane di ferie, speranzoso di poter aiutare la moglie e migliorare la sua situazione, finivano sempre per litigare pesantemente.

Così aurora si ritrovò praticamente sola, a doversi occupare di se stessa, senza nemmeno comprendere il comportamento della madre, che la ignorava praticamente sempre. Nella sua mente si materializzava continuamente l’immagine di lei stesa a terra, in un lago di sangue, nonostante tentasse di cancellarla.

I suoi unici sostegni divennero la scuola, lo studio e la lettura. Nemmeno con le amicizie ebbe mai fortuna, sia alle scuole elementari, che alle medie; era molto timida, solitaria e, dopo l’incidente, ancora più diffidente verso chiunque. La sua unica amica era la cugina Melania, figlia di Elisa, sorella di Elena, che conosceva bene l’accaduto ed era in contatto con lei sin da quando erano poco più che neonate.

Inoltre aveva sempre vissuto dovendo rinunciare a gran parte delle cose che tutte le sue compagne di scuola sfoggiavano quasi ogni giorno, dai vestiti firmati, ai gioielli di moda, fino alle più banali frivolezze che erano desiderio di ogni bambina ed adolescente, per via dei problemi economici della sua famiglia.

Negli anni, dopo giorni di pianti e tormento continuo per molto tempo, aveva imparato a trattenere tutto il dolore dentro di sé, rinchiudendolo in un angolo del suo cuore, per evitare che si impadronisse totalmente della sua mente, facendola impazzire, concentrandosi sull’unico suo conforto, lo studio e a scuola. La solitudine, ormai, per lei, era una tradizione.

E Melania riteneva che fosse baciata dalla fortuna solo perché era magra!

Più rimuginava su quello che aveva detto la cugina sulla sua “fortuna” e più lo trovava assurdo. Era una ragazzina perennemente sola, derisa dai compagni di scuola, con un padre sempre assente, una madre che dormiva di giorno per poter lavorare tutta la notte, non ancora pienamente ripresa da una pesante crisi depressiva, una famiglia in precarie condizioni economiche, perennemente tormentata dal rischio di dover dire addio alla casa se qualcosa andava per il verso sbagliato, e nessun amico, solamente i suoi libri e tenerle compagnia.

E poi, secondo la sua opinione, il suo aspetto fisico era tutt’altro che uno spettacolo: bassa di statura, appena un metro e sessanta, molto magra, capelli scialbi, occhi di un azzurro troppo chiaro, simile a ghiaccio, fianchi quasi inesistenti e nemmeno un briciolo di seno, tanto che, un suo compagno di classe, un giorno le aveva fatto una battuta ridacchiando : < Stanotte ho sognato di abbracciarti, ma invece era un muro. >

La voce della bibliotecaria la riportò alla realtà.

Il libro che le serviva era uno di quei grossi tomi che, secondo le regole, dovevano essere consultati esclusivamente all’interno della Biblioteca e non potevano andare in prestito. Grazie ad alcune suppliche ed alla conoscenza con una delle bibliotecarie, riuscì tuttavia ad avere in prestito il volume, con l’ordine di riportarlo entro una settimana.

Era troppo ingombrante e la cartella era oberata di libri e quaderni, quindi fu costretta a tenerlo in mano.

Poco dopo l’uscita, mentre camminava sotto al porticato, il suo piede destro finì proprio su un grosso escremento di cane.

Sbuffando, cercò di ripulire alla meglio la scarpa e si pentì di aver dato due mila lire al giovane senzatetto che girovagava sempre nella zona con il suo enorme cane nero, cui mancava una delle zampe posteriori; in verità il cane più brutto che avesse mai visto.

< Sempre a me deve succedere > bisbigliò irritata, china sulla scarpa con espressione disgustata.

In quel momento, voltandosi per caso, vide due uomini con abiti eleganti palare dall’altro lato della strada, poco più avanti.

Il sole era ormai tramontato, il cielo si stava oscurando e c’era una fitta nebbia che aleggiava sulla città.

Invece di rialzarsi e riprendere il cammino, la sua attenzione fu inspiegabilmente attratta da loro. Singolare, due uomini sulla cinquantina, in giacca e cravatta e con eleganti cappotti, che discutono a voce bassa, vicini vicini, in una strada isolata, seminascosti dietro uno dei pilastri del porticato. Quello che dava le spalle ad Aurora continuava a voltarsi a destra e sinistra, come se cercasse un appoggio, e pareva piuttosto a disagio; l’altro, invece, appariva assai più rilassato; sorrideva quasi, mentre parlava con il suo interlocutore, tenendo lo sguardo fisso su di lui.

Come ipnotizzata dalla sospetta ambiguità della situazione, Aurora avanzò silenziosa ed a schiena bassa, si infilò dietro uno dei due grossi cassonetti verdi della nettezza urbana. Nello spazietto di pochi centimetri tra uno e l’altro poteva vedere i due uomini, anche se non intendeva le loro parole. Nessuno dei due si era accorto minimamente di lei.

C’era qualcosa, in loro, che attirava la sua curiosità, anche se una parte di sé si ripeteva che erano solo due impiegati che facevano quattro chiacchiere dopo il lavoro.

L’uomo di cui vedeva il viso sorrideva pacato. Aveva i capelli castani ed un portamento elegante, con il suo cappotto verde scuro, probabilmente di cashmere, ed un ricercato Borsalino grigio sul capo.

Poi tutto accadde con la rapidità di un fulmine. L’uomo con il cappello estrasse un piccolo arnese dalla tasca, ne puntò l’estremità dritto contro il torace dell’altro e, in pochi secondi, egli si era afflosciato a terra, immobile, mentre quello con il cappello ed sorriso ingannevole gli aveva già voltato le spalle e se ne andava a passo svelto, come se avesse appena salutato un amico.

Aurora si era nascosta dietro al cassonetto; tremava vistosamente, con il viso imperlato di sudore ed il cuore che batteva all’impazzata. Continuava a chiedersi se aveva visto bene, se era davvero successo, com’era fattibile una cosa simile durante il giorno, in mezzo ad una strada.

Un colpo di pistola non poteva fare un rumore così poco intenso, solo un leggero boato!

Forse l’uomo non era morto, forse faceva solo finta, forse si era immaginata tutto…

Rimase inerte, con le spalle appiccicate al cassonetto, sconvolta; temeva persino di respirare.

Non era possibile, in strada non c’era nessuno in quel momento, ma dalle finestre degli edifici lì intorno qualcuno doveva aver visto qualcosa, qualcuno stava già accorrendo…

Ma gli edifici, in quel tratto di strada, non erano abitazioni: si trattava di uffici, beni del Comune, magazzini di negozi e bar...

Dopo un tempo che parve interminabile, Aurora si rialzò, con il terrore che l’uomo con il sorriso ingannevole sbucasse improvvisamente, per uccidere anche lei.

Invece non c’era nessuno ed egli pareva essersi dissolto nel nulla.

Iniziò a correre, avanti e avanti, senza voltarsi indietro, senza badare alle fitte sul fianco ed al dolore ai polpacci.

Alla fine si fermò ed appoggiò le mani ad un muro, stremata. Attorno a lei persone di ogni tipo giravano per la strada: un’anziana con il suo barboncino, una mamma che spingeva un passeggino, alcuni studenti con lo zaino in spalle…

Eppure era successo, a meno di un chilometro da lì, ed Aurora Bernardi aveva assistito al fatto.

Poche parole risuonavano nella sua testa, le uniche parole proferite dall’uomo col cappello prima di andarsene, le sole che era riuscita ad udire: < Bid D ti saluta ! >

Poi l’ultimo sorriso e via…

   
 
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