Avevano arrestato Valeska, disinnescato e recuperato i suoi ordigni esplosivi, e poi… Poi lui era uscito dalla centrale ed era stato aggredito. Rapito, evidentemente.
Che fosse opera di uno degli uomini di Valeska, con l’intenzione di proporre uno scambio per liberarlo?
Jim se lo chiese proprio mentre esaminava con lo sguardo la stanza. E subito notò, sopra di lui, quella che sembrava una pressa industriale, il che lo allarmò. Era legato, non poteva spostarsi dalla lastra su cui era sdraiato, così si voltò alla sua sinistra per vedere se ci fosse qualcuno e notò, come prima cosa, un grosso punto di domanda appoggiato a una parete.
“Cazzo,” sibilò a denti stretti, rendendosi conto che la situazione era ben diversa da come l’aveva immaginata.
Dietro al suo rapimento non c’era un seguace di Valeska, bensì l’Enigmista. Il che significava che tutto quanto aveva a che fare con Lee. Il che significava… che lui sarebbe morto.
Una risata poco distante lo distrasse dai suoi pensieri e così Jim si accorse che Nygma era nella stanza, solo in un punto in cui, prima, non era riuscito a vederlo.
“Detective, non serve agitarsi tanto. Tra poco sarà tutto finito,” disse, e la pressa si azionò producendo un rumore metallico.
Jim la guardò con orrore abbassarsi fino a toccare il suo petto per fermarsi dopo averlo schiacciato leggermente, costretto in quella posizione senza più alcuna speranza di fuga, obbligandolo a respirare a fatica.
“Possiamo parlarne?” tentò, con la voce resa grave da quella pressione opprimente.
“Oh no, sarebbe del tutto inutile,” rispose Edward, eppure non azionò nuovamente la pressa per finire il lavoro.
Non subito, almeno.
“Ma voglio che tu sappia perché sei qui. È per Lee,” dichiarò, come se non fosse già ovvio.
La sua ex aveva una relazione con lui, Jim lo sapeva da tempo eppure gli sembrava ancora assurdo. Certo, andava detto che lei era cambiata molto in quel periodo. Molto più di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare…
“Anche se non lo ammette, io so che una parte di lei ti ama ancora. Jim, tu sei un peso che la frena nella nostra relazione. Uccidendoti la libererò.”
Detto ciò azionò la pressa che riprese a schiacciarlo.
“Aspetta! Non c’è più niente fra noi!” ribatté, al che Edward la spense.
“Questo lo so,” disse aspramente. “Ma vi ho visti quando vi siete salutati. Ho sentito il vostro discorso. Ha detto che una parte di lei non ti dimenticherà mai…”
“È normale, dopo ciò che abbiamo passato! Avremmo dovuto avere un figlio,” sottolineò.
C’erano tante altre cose che avrebbe potuto dire su di lei. Lee era stata la prima donna che aveva amato dopo la morte di Barbara, e con lei credeva che sarebbero finalmente diventati una famiglia. Era stata una madre per sua figlia.
Sua figlia… Cosa ne sarebbe stato di lei, se lui fosse morto?
“Lee non mi interessa più!”
“Questo non importa. Il punto è che lei deve potersi liberare di te per andare avanti,” rispose l’Enigmista, con il telecomando della pressa stretto in mano e pronto all’uso.
E se lo avesse azionato di nuovo, Jim lo sapeva, sarebbe morto.
“Ho una figlia, Ed! Non puoi uccidermi così…”
“Oh sì che posso,” rispose, chiaramente divertito. “E sto per farlo.”
“Un momento!” esclamò qualcuno, e Jim si voltò d’istinto alla sua destra, avendo riconosciuto la voce.
Oswald Cobblepot entrò nella stanza. Era solo e disarmato, se non si considerava il suo bastone come un'arma, e per il detective vederlo fu un vero sollievo. Però la situazione era critica e il pericolo non era ancora passato, perciò non riuscì a rilassarsi né a considerarsi davvero salvo.
“Oswald, che ci fai qui?” gli chiese Edward, come se quello fosse un incontro casuale tra due amici.
Come se fosse normale chiacchierare tranquillamente mentre lui respirava a fatica, premuto contro una lastra di metallo da un’enorme pressa.
“Ero venuto a vedere se avevate abbandonato Narrows, dopo la crisi. Ma eccoti qui,” rispose, dopo aver esaminato Jim con uno sguardo fugace.
“Sempre pronto ad approfittare di ogni opportunità per conquistare territori,” commentò Edward.
Jim non riuscì a interpretare l’inflessione nel suo tono di voce e non vide la sua espressione perché era concentrato su Oswald, che non ricambiò mai il suo sguardo. Sorrise prima di rispondergli, ma il detective comprese che era nervoso e che stava cercando di non darlo a vedere. Lo conosceva troppo bene per non accorgersene.
“Vedo che hai capito. E dov’è la regina di Narrows?”
“Non qui. Si sta preparando per lasciare la città, non ha cambiato idea anche se il pericolo è passato.”
A Jim non sembrò poi tanto strano. Sapeva che lei voleva andarsene da tempo e, col senno di poi, sarebbe stato meglio. Non sarebbe successo tutto ciò che l’aveva portata a cambiare, e loro sarebbero stati davvero una famiglia, in un’altra città, più tranquilla di Gotham.
Ciò che gli sembrava strano, piuttosto, era che volesse comunque portare Edward con sé. Pensava che lo stesse solo usando, ma evidentemente tra loro le cose erano serie…
…più serie di quanto l’Enigmista credesse, perché era arrivato a decidere di uccidere Jim per “liberare” lei dal fantasma del passato che avevano condiviso.
“E tu invece di prepararti con lei sei qui a fare… cosa, uccidere il suo ex?” chiese Oswald, con una nota ironica nella voce.
“Una parte di lei lo ama ancora, Oswald. Devo farlo, così Lee sarà libera.”
Oswald emise una risatina.
“Libera, certo, non arrabbiata con te,” sottolineò.
“Forse all’inizio si arrabbierà, ma capirà che l’ho fatto per il suo bene.”
“No, sai benissimo che non andrà così. Se lo ucciderai, lei non vorrà più vederti… Come puoi non capirlo, dopo Isabel? Questa è praticamente la stessa situazione,” ribatté Oswald.
“Isabella,” rispose subito Edward, con una nota severa nella voce. “E non ti permetto di nominarla. Non è la stessa cosa.”
“Oh sì invece,” sottolineò Oswald.
Jim era confuso, un po’ per la fatica a respirare e un po’ perché non sapeva di cosa stessero parlando, ma qualsiasi cosa fosse, sperava che bastasse a farlo uscire vivo da quella situazione.
“Se uccidi Jim, ed è vero che Lee non l’ha dimenticato del tutto, allora ti pentirai molto di questa decisione,” continuò, sembrando divertito.
Edward non rispose subito. Jim non aveva idea di quale espressione stesse facendo, ma non osò voltarsi a guardarlo, perché osservare Oswald gli dava l’idea che ci fosse ancora una speranza per lui, e voleva aggrapparcisi disperatamente.
Per questo non parlava, per questo non provava a far notare loro di essere ancora lì.
“Stai suggerendo di lasciarlo andare?”
“E di raggiungere Lee, sì. Vedrai che, lasciando Gotham con lei, se ne dimenticherà.”
Seguì un altro silenzio da parte dell’Enigmista.
Poi, dopo un’attesa che a Jim sembrò interminabile, sentì dei passi e lo vide comparire nel suo campo visivo, consegnare il telecomando a Oswald e andarsene senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
Quando furono soli, Oswald azionò la pressa per farla tornare nella posizione iniziale, e così Jim poté prendere un respiro profondo, inalare aria in un modo bisognoso e sofferto che lo fece subito tossire.
Aveva il petto che doleva e si sentiva ancora addosso la sgradevole sensazione della pressione provata, del peso del macchinario su di lui. Perciò si mise a sedere lentamente, a fatica.
E malgrado riprendere a respirare normalmente l’avesse confuso per un istante, notò come Oswald avesse rilassato le spalle e gli parve che avesse emesso un lungo sospiro.
Quando tornò a guardarlo, vide che il divertimento sul suo viso era sparito del tutto, forse perché, ora che erano soli, la sua facciata di falsa tranquillità era caduta.
“Stai bene, James?” gli chiese, e il detective lesse della genuina preoccupazione nel suo sguardo.
“Sì… Mi serve solo un momento,” ammise, portandosi una mano al petto.
La voce gli era rimasta grave, forse perché si sentiva ancora oppresso da quel peso.
“Quando smetterai di farmi preoccupare?” gli chiese Oswald, e Jim gli rivolse uno sguardo sorpreso.
“Non te l’ho chiesto io,” ribatté, al che Oswald gli offrì un sorriso tirato.
“Meno male che sono intervenuto comunque,” disse, picchiettando nervosamente la gamba destra sul pavimento. “Riesci ad alzarti? Devi andare in ospedale.”
“No, torno al lavoro,” dichiarò, rimettendosi lentamente in piedi.
Non poté trattenere una smorfia di dolore mentre lo faceva. Inoltre, anche respirare non gli veniva facile.
“La crisi è passata, Jim. Adesso devi pensare a farti dare una controllata,” insistette, gesticolando in direzione del suo petto, sul quale Jim teneva ancora una mano. “Altrimenti cosa penserà Barbara, vedendoti sofferente?”
A quell’obiezione, Jim premette le labbra insieme, incapace di replicare. Aveva ragione, sua figlia si sarebbe preoccupata.
“E va bene,” gli concesse, arrendendosi definitivamente.
Seguì Oswald fuori dall’edificio, scoprendo il proprio passo più lento del suo a causa dello sforzo e del dolore.
In strada li aspettava un’auto con, al volante, uno dei suoi scagnozzi.
Oswald gli indicò con un gesto di salire dietro e lui lo fece, anche se quella situazione gli sembrò davvero strana. Non si stupì quando lui si sedette dietro a sua volta, perché sapeva che si faceva portare in giro così.
“Portaci all’ospedale,” ordinò, subito dopo aver chiuso la portiera, e il suo sottoposto mise in moto l’auto.
Jim portò lo sguardo fuori dal finestrino, non sapendo cosa dire dato che non erano soli.
Gotham, là fuori, era quasi stata messa in ginocchio nel giro di sei misere ore. Valeska aveva minacciato di far esplodere delle bombe, loro avevano dato inizio all'evacuazione ma poi le avevano trovate e disarmate. Solo a quel punto, dopo essersi assicurati che il pericolo fosse davvero terminato, i cittadini erano stati fatti tornare indietro.
In ogni caso, non c’erano molte persone per strada. Lo spavento era stato tanto, per tutti quanti, ma almeno non c’erano state altre conseguenze.
Jim non sapeva cosa avesse fatto Oswald nel corso di quelle sei fatidiche ore. A giudicare dalla sua aria serena, era una di quelle persone che avevano deciso di restare a Gotham malgrado tutto, perché fiduciose che la GCPD avrebbe risolto il problema o forse, nel suo caso specifico, per approfittare della situazione.
Poco prima aveva detto a Edward di aver raggiunto Narrows per vedere se il territorio era scoperto, lasciando intendere che voleva impadronirsene... Però Jim sapeva bene che non era così, o meglio, che era andato lì per lui. Doveva aver visto quando lo avevano rapito, o aver intuito le intenzioni dell’Enigmista, e così li aveva raggiunti prima che fosse troppo tardi.
Facendolo gli aveva salvato la vita.
Erano state diverse le situazioni in cui si erano salvati a vicenda, tanto che Jim aveva perso il conto, ma gli era grato. Non lo aveva detto ad alta voce, ma sapeva che non serviva.
Oswald… era cambiato molto nel corso di quegli anni. Ultimamente aveva rivelato a Jim di voler comprare le fabbriche di armi della città e convertire la sua organizzazione in una società legale. Voleva ripulirsi, almeno in apparenza, questo avrebbe detto Jim a riguardo.
In ogni caso, lo riteneva un cambiamento positivo.
“Ci vediamo presto, James,” gli disse attraverso il finestrino abbassato, dopo averlo lasciato fuori dall’ospedale.
Lui annuì e aspettò di vedere l’auto allontanarsi prima di entrare.
Costole incrinate.
Jim si era aspettato di peggio, malgrado volesse ignorare il dolore e tornare al lavoro.
Dopo aver ascoltato tutte le raccomandazioni del medico, lasciò finalmente lo studio tirando un sospiro. Sei settimane di riposo… Non ci volevano proprio. Almeno la crisi in città era passata, anche se il crimine a Gotham non dormiva mai, perciò Jim poteva stare relativamente tranquillo per il momento.
Era il capitano della GCPD… ma sapeva che Harvey lo avrebbe sostituito egregiamente durante la sua assenza, e che lo avrebbe consultato se necessario.
Magari sarebbe anche rientrato in servizio prima, se il dolore glielo avrebbe permesso.
Con questi pensieri per la testa, chiamò Harvey.
“Jimbo, dov’eri finito?” gli chiese il suo amico, con voce preoccupata.
“Lunga storia. Sono in ospedale adesso, mi chiedevo se potessi passare a prendermi e riportarmi alla centrale.”
“Stai bene?”
“Sì, ti spiego tutto dopo. Che mi sono perso?”
Harvey lo aggiornò su tutto mentre partiva per andare da lui. Il piano di Jim era quello di andare alla centrale per riprendere la sua auto e tornare a casa. Aveva male al petto, ma si sentiva in grado di guidare.
“Che schifo di situazione,” commentò il suo amico.
Jim era in auto con lui adesso e gli aveva appena raccontato ciò che gli era successo.
“Sicuro di riuscire a guidare?”
“Sì, nessun problema. A te va bene sostituirmi alla GCPD mentre non ci sarò? Sei l’unico di cui mi possa fidare.”
“Ne sono onorato Jim, conta su di me. Ma dimmi, come hai fatto a salvarti?” gli chiese.
“Grazie a Oswald,” ammise, dopo un istante di esitazione.
Harvey gli rivolse uno sguardo sorpreso.
Sapeva della sua amicizia con Oswald. Perché ormai erano amici, non lo poteva negare, solo che erano molto discreti a riguardo. Pochi altri oltre ad Harvey ne erano a conoscenza.
Ovviamente il suo partner non approvava.
“Non credevo che dare corda al suo assurdo desiderio di amicizia avrebbe portato a qualcosa di positivo,” commentò.
“Ma non si tratta di questo,” ribatté. “Non gli sto solo dando corda.”
“Preferisco credere che sia così,” disse in modo burbero.
Arrivati alla centrale, Jim non resistette all’impulso di entrare per verificare di persona come stessero le cose. Compilò le ultime scartoffie e avvisò anche Harper del suo congedo per malattia, prima che Harvey riuscisse a convincerlo davvero ad andarsene.
E così salì sulla propria auto, dove scoprì che, per fortuna, non aveva davvero problemi a guidare. Anche se il dolore a ogni respiro non gli dava tregua.
Si fermò in farmacia prima di tornare a casa, per fare scorta di antidolorifici.
Jim si era trasferito, negli ultimi anni. L’appartamento di Barbara era troppo costoso per il suo stipendio da detective, quindi per un periodo aveva vissuto in un monolocale che i suoi suoceri avrebbero giudicato come non adatto a una bambina.
Non che i suoi suoceri l’avessero mai visto, né si fossero mai offerti di aiutare con le spese.
In ogni caso, ogni tanto Jim la portava in visita da loro, anche se non c’era mai andato d’accordo, e la situazione era solo peggiorata dalla morte di sua moglie. Almeno erano loro a pagare la babysitter, considerando quanto lui fosse impegnato con il lavoro.
All’inizio aveva provato a rifiutare, temendo che si sarebbe sentito un fallito non potendo concedere a sua figlia almeno questo, ma poi aveva accettato e la cosa andava avanti tutt’ora, il che in effetti era molto comodo.
In quanto alla casa, dopo il primo anno della bambina, Jim aveva lasciato il monolocale per la sua sistemazione attuale.
Era successo quando Oswald era diventato sindaco. Aveva saputo, tramite i suoi informatori, che Jim aveva una figlia - che cercava di mantenere segreta ai più - e che stava cercando casa, e gli aveva offerto un prestito. La sua offerta era arrivata all’improvviso, senza che Jim chiedesse niente, ma proprio quando gli serviva.
Non avrebbe voluto accettare, francamente. Allora non erano così legati, perciò il detective aveva riflettuto su tutte le implicazioni negative che avrebbe potuto avere quella situazione. Tra le quali, la sua morte per non aver saldato il debito.
Purtroppo però aveva fretta di sistemarsi e così aveva accettato, dopo molta insistenza da parte di Oswald.
Accettare il suo prestito avrebbe potuto portare alla fine del rapporto di presunta amicizia che Oswald stava cercando di instaurare da tempo. Sì, perché ci sarebbero stati di mezzo dei soldi, molti soldi. Invece non era stato così.
Jim aveva potuto comprare casa, un appartamento modesto con tutto ciò che gli poteva servire, tra cui una stanza per la piccola Barbara e uno studio per lui, nel caso volesse esaminare dei casi fuori dall’orario di lavoro, il che in effetti accadeva spesso.
Il suo stipendio attuale gli permetteva di pagare tutte le spese, perciò aveva iniziato a restituire - con delle piccole rate - il debito. Non che gli fosse stato chiesto con insistenza, anzi, ma lui preferiva così.
Quando entrò in casa trovò Barbara che disegnava, seduta sul tappeto del salotto. Il tavolino basso era cosparso di fogli con altri disegni e di pennarelli colorati. Erin, la babysitter, la stava tenendo d’occhio dalla cucina, mentre preparava la cena.
Era una ragazza davvero gentile e disponibile, e sua figlia l’adorava, il che per lui era un vero sollievo.
Ogni tanto, Erin gli aveva dato l’idea di essere interessata a lui… Ma aveva poco più di vent'anni, e Jim ormai sentiva di aver chiuso con le donne. L’unica donna della sua vita sarebbe stata la piccola Barbara.
“Papà!” esclamò lei, sollevando in alto le braccia.
Normalmente in questi casi lui la prendeva in braccio, ma con le costole incrinate non gli era proprio possibile, quindi si chinò accanto a lei.
“Com’è andata la giornata?” le chiese, accarezzandole la testa.
“Ho fatto i disegni,” rispose lei, porgendogli un foglio su cui erano ritratti loro due.
Jim sorrise a quella vista.
Barbara era una bambina dolce e gentile. Era bionda, proprio come sua madre, e aveva gli occhi azzurri come i suoi. Era sempre sorridente e non gli aveva mai dato particolari problemi, cosa di cui Jim era grato.
“Si è comportata bene?” chiese a Erin, che annuì rivolgendogli un sorriso.
“È stata un angioletto, come sempre,” rispose.
“Ottimo. Finisci il disegno, io torno subito,” disse alla bambina, quindi si alzò.
Si diresse in cucina per prendere una prima dose dell’antidolorifico prescritto dal medico. Aveva lo stomaco vuoto, ma sentiva di averne bisogno e comunque avrebbe cenato presto, a giudicare dal profumino.
Tempo di buttare giù la pastiglia che Erin gli fu accanto. La ragazza aveva l’aria preoccupata.
“Non stai bene?” gli chiese, al che Jim scosse la testa.
“Tutto okay. Solo… un infortunio lieve. Starò a casa per qualche settimana... Ma la tua presenza mi sarà molto d’aiuto.”
La ragazza annuì, per niente rassicurata dalle sue parole.
“La cena è pronta,” annunciò subito dopo, spegnendo i fornelli. “Se non serve altro, io andrei. Ma se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, chiedi pure,” aggiunse, facendosi più vicina.
“Grazie… ma per questa sera puoi andare.”
Lei gli rivolse un sorriso che tradiva rassegnazione e si fece indietro di un passo, prima di andare a salutare Barbara. Dopo raccolse le sue cose e uscì.
“Amore, è pronta la cena. Hai fame?” chiese alla piccola, raggiungendola di nuovo.
Lei fece segno di no con la testa e gli rivolse il broncio.
“Dopo potrai finire di disegnare,” provò a convincerla.
“Prima finisco questo,” disse lei, facendo dei puntini sul foglio in questione.
Jim lo guardò meglio.
Accanto a loro due, la piccola aveva disegnato anche Oswald. Lo riconobbe subito perché, se lo disegnava, lo faceva sempre con i vestiti viola. Inoltre, una volta aveva visto i suoi capelli tinti di una sfumatura viola, i residui di una lacca messa per un evento, e da allora gli disegnava sempre dello stesso colore anche quelli.
Jim sorrise, divertito dal quadretto felice disegnato da sua figlia.
“Oswald sarà molto contento di vederlo,” disse, togliendole gentilmente il pennarello di mano. “Ora però dobbiamo mangiare, va bene?”
Finalmente la bambina annuì.
Jim l’aiutò con fatica a salire sulla sedia della cucina, il che gli fece sperare che gli antidolorifici facessero effetto presto, e servì la cena a entrambi. Erin aveva preparato lo stufato, un piatto che le riusciva sempre molto bene e che, per la gioia di Barbara, comprendeva delle fettine di carota tagliate a forma di stelline. Una trovata per convincere la bambina a mangiarle, che aveva avuto grande successo.
Tempo di riempire i piatti di entrambi che il campanello suonò.
“Arrivo subito tesoro, non scendere dalla sedia,” si raccomandò, prima di andare alla porta.
Si domandò chi fosse a quell’ora della sera. Forse Erin aveva dimenticato qualcosa. O forse…
Dallo spioncino vide che era Oswald, quindi gli aprì subito e venne accolto da un sorriso caldo.
“Oswald, che sorpresa.”
“Volevo vedere come stessi. Posso entrare?”
“Oz!” esclamò Barbara dalla cucina, vedendolo, e Jim si fece da parte per liberare il passaggio.
Sua figlia trovava difficile pronunciare il nome di Oswald, così dopo diversi tentativi aveva rinunciato, ma non sembrava che a lui dispiacesse quel diminutivo.
“Hai già cenato? C’è stufato in abbondanza, se vuoi unirti a noi,” lo invitò.
“Allora accetto volentieri.”
Jim era felice che fosse arrivato solo in quel momento, perché non andava molto d’accordo con Erin. Faceva di tutto per non darlo a vedere, ma lui aveva notato comunque che sembrava infastidito quando la ragazza era intorno.
Infatti era stato lì diverse altre volte.
Jim era stato restio, all’inizio, all’idea di fargli conoscere sua figlia. Non ce n’era alcun bisogno, e non credeva che si sarebbe creata una situazione adatta. Poi però aveva cambiato idea.
Lo aveva visto con Martin, un bambino che lui aveva preso a cuore, dell’orfanotrofio Falcone. Aveva visto quanto tenesse a lui, come si occupava di lui e come fosse determinato a mantenere quell’affetto segreto ai suoi nemici, oltre che alla maggior parte dei suoi sottoposti, per proteggerlo.
Grazie a quel bambino aveva visto un lato nuovo del gangster egoista che credeva di conoscere.
E così, quando l’occasione si era presentata, gli aveva fatto infinite raccomandazioni ma poi gli aveva fatto conoscere la piccola Barbara. Allora lo considerava già un amico e lo aveva visto più volte con Martin. Per questo aveva creduto di potersi fidare… e la sua fiducia, in effetti, era stata ben riposta.
Quanto alla sua presenza lì a quell’ora tarda, il palazzo in cui viveva Jim aveva un portiere che non era favorevole alle visite serali, eppure Oswald riusciva sempre a passare. Forse lo aveva minacciato, la prima volta, e da allora aveva smesso di fare storie.
“C’è Martin?” chiese Barbara, impaziente di giocare.
“No, mi dispiace piccolina. Ma la prossima volta prometto che lo porterò con me,” disse, al che lei annuì con enfasi.
Jim gli fece segno di accomodarsi a tavola e riempì un piatto anche per lui. Sicuramente non era come ciò a cui era abituato, ma aveva il tipico calore di un pasto che si consuma in famiglia. La cucina di Erin non era affatto male.
“Devo farti vedere il mio disegno,” annunciò Barbara.
“Non parlare con la bocca piena,” la rimproverò gentilmente Jim, per poi avvicinarsi per pulirla con un tovagliolo.
Notò Oswald che li osservava con uno sguardo felice che non riuscì a interpretare, ma che lo fece sorridere.
“Cosa ha detto il medico?” gli chiese Oswald, dopo aver assaggiato lo stufato.
“Che ho qualche costola incrinata, ma niente di grave. Devo prendere degli antidolorifici e riposare.”
“Cosa vuol dire costola inchinata?” chiese Barbara, mentre cercava di raccogliere una stellina di carota con il cucchiaio.
“Incrinata,” la corresse Jim. “Vuol dire che il papà ha male al petto, per questo non potrà prenderti in braccio per un po’.”
“Uffi, ma a me piace stare in braccio,” si lamentò lei, rivolgendogli uno sguardo triste.
“In compenso starò molto più tempo insieme a te. Così va meglio?” le rivelò, sperando di compensare.
“Allora va bene,” disse lei, con l’aria di chi comandava in quella casa.
E in effetti era proprio così.
Dopo mangiato, Jim l’aiutò con fatica a scendere dalla sedia e la vide correre verso il tavolino del salotto. Nel frattempo lui mise i piatti nel lavello.
“Ti do una mano, sei infortunato,” dichiarò Oswald, alzandosi e raggiungendolo.
“Non serve, sei l’ospite. E poi non è tanto grave.”
Oswald guardò il suo petto per un istante, dove sapeva che era calato il peso della pressa, e poi tornò a guardarlo negli occhi.
“Hai preso un antidolorifico?”
“Sì, prima di cena,” rispose, sorpreso dalla sua preoccupazione.
“Ottimo.”
“Oz, il disegno!” esclamò Barbara, sventolando il foglio in aria.
“Arrivo! Jim, i piatti li asciugo io,” gli disse, prima di allontanarsi per raggiungerla. “Sono io questo?” chiese a sua figlia, con una nota divertita nella voce.
“Sì! Hai i capelli viola, anche io voglio i capelli viola!” esclamò, saltellando sul posto.
“Ma i tuoi capelli sono già bellissimi così,” provò a dissuaderla Oswald.
Era trascorso del tempo da quando glieli aveva visti, eppure quella fissa non le era ancora passata. Jim non era molto contento all’idea di tingere di viola i capelli di sua figlia di tre anni, fosse anche stata una colorazione temporanea, e Oswald lo sapeva perché la bambina aveva tirato fuori quel discorso più volte, con loro.
In ogni caso, mentre lavava i piatti li tenne d’occhio e notò l’affetto nello sguardo di Oswald, quando la guardava. Non era la prima volta che lo vedeva così, ed era per questo che, ne era certo, la fiducia accordatagli era ben riposta.
Poco dopo lo raggiunse insistendo per dargli una mano almeno ad asciugare i piatti, e Jim si arrese.
“A proposito di oggi,” disse, dato che avevano parlato delle sue costole malandate. “Tu e Edward avete parlato di una cosa che non ho capito. Riguardava una certa… Isabella, se non sbaglio.”
Oswald smise per un istante di asciugare il piatto che aveva in mano, quindi rivolse a Jim uno sguardo smarrito.
“Credo che il nome giusto fosse Isabel, e comunque non è una storia che ti piacerebbe sentire. Ed è imbarazzante,” aggiunse, quindi diede un’ultima strofinata al piatto e lo ripose con gli altri.
“Sono curioso comunque, mettimi alla prova,” insistette, facendo spallucce.
Oswald tenne lo sguardo basso su ciò che stava facendo, ma Jim comprese che era combattuto.
“Più tardi, allora. Quando saremo soli,” rispose, al che il detective annuì.
Finirono di pulire tutto quanto e andarono in salotto da Barbara, dove ascoltarono i suoi racconti relativi all’asilo. Poi giunse il momento di metterla a letto e fu una tragedia, perché la bambina voleva restare sveglia finché “zio Oz” non fosse andato via.
Alla fine riuscì a convincerla a mettersi a dormire, ma solo dopo averle letto una favola.
Quando tornò in salotto, trovò Oswald con la sola compagnia della bottiglia di vino aperta per cena, che lui purtroppo non aveva toccato dato che era sotto antidolorifici. Non che fosse un grande amante dei vini, preferiva altri alcolici, ma per stare in compagnia non gli dispiacevano.
Oswald stava seduto in poltrona e faceva ondeggiare la bevanda nel suo bicchiere con aria assente.
Jim prese del ghiaccio dalla cucina prima di raggiungerlo e si sedette sul divano con un sospiro.
“Ti spiace se mi stendo?” gli chiese, con il ghiaccio già stretto - piano - al petto.
“Prego, è casa tua,” rispose lui, al che Jim si mise comodo, sdraiato a pancia in su sul divano che riusciva a contenerlo a malapena, per tenere appoggiato il ghiaccio sul suo petto.
Eppure anche quella minima pressione sembrava dargli molto fastidio… il che gli fece stringere i denti.
Gli antidolorifici avevano fatto effetto, ma non era abbastanza. Sperava che il ghiaccio aiutasse di più.
“È grave come sembra?” chiese Oswald, con voce preoccupata.
“No, non è grave…” rispose Jim, con la voce improvvisamente tornata grave.
“E se alleggerissi il sacchetto?” propose.
Un istante dopo lo aveva già preso, promettendo che glielo avrebbe riportato subito.
“Dove tieni i sacchetti, Jim?” gli chiese dalla cucina.
“Nel secondo cassetto a sinistra,” rispose lui, senza osare muoversi dal divano, godendosi ancora quel poco di freddo che sentiva sul petto, perché era penetrato nei suoi vestiti.
Qualche secondo dopo sentì il rumore del ghiaccio che veniva versato e poi quello dello sportello del freezer, segno che Oswald ne aveva messa via una parte. Tornò da lui, come promesso, con un sacchetto contenente meno cubetti.
Lo appoggiò piano sul petto di Jim, stando attento alla sua reazione. E questa volta non avvertì alcuna pressione, solo il fresco sollievo farsi strada verso le sue costole doloranti.
“Meglio?”
“Molto meglio,” ammise, accennando un sorriso e chiudendo gli occhi.
Ci voleva proprio. Doveva preparare altro ghiaccio, molto altro ghiaccio, così da potersi concedere quel sollievo ogni sera, finché necessario.
Oswald tornò seduto sulla poltrona, alla sua destra.
“Tua figlia prima mi ha chiamato zio… Non me l’aspettavo,” disse, dopo un paio di secondi.
“Ti ha dato fastidio?” indagò Jim.
“No, affatto. Barbara è una bambina adorabile…”
“Per la cronaca, chiama zio anche Harvey,” rivelò.
“Se mi considera alla pari del detective Bullock, allora immagino sia un grande complimento,” disse, e Jim riconobbe quella nota di affetto nel suo tono di voce.
“Allora, mi racconti la storia di Isabel?” gli chiese, aprendo l’argomento che lo aveva incuriosito per tutta la serata.
“Non so quale sia la storia di Isabel, Jim. So qual’è la storia di me e Edward, relativamente a Isabel,” rispose, forse in un modo che voleva sviare la sua attenzione.
“Spara,” insistette, schiudendo gli occhi.
Voltò il viso di poco verso destra e vide l’espressione combattuta di Oswald.
“Sul serio, questa storia non ti piacerà. Ma se proprio insisti…”
E Jim non commentò, ma continuò a guardarlo e a studiare la sua reazione. A chiedersi cosa fosse successo da metterlo così tanto in difficoltà dovendone parlare adesso.
“In poche parole, a Edward piaceva questa ragazza, Isabel, ma a me piaceva Ed, e quindi… l’ho fatta sparire.”
Jim fu effettivamente spiazzato da quel breve racconto e comprese il significato nascosto dietro la parola “sparire”. Però non commentò. Piuttosto, ricordò un preciso momento in cui aveva saputo che Oswald e Edward erano ai ferri corti, e che quest’ultimo sembrava intenzionato a ucciderlo, eppure un tempo erano stati amici. Quindi era questo, ciò che era successo tra loro.
“Quindi ti piacciono gli uomini?” chiese, ma la sua era più un’affermazione.
Vide Oswald sgranare gli occhi e schiudere le labbra mentre gli rivolgeva lo sguardo.
“Ti sto dicendo che ho fatto sparire una persona e questa è la prima cosa che mi chiedi?” sottolineò, chiaramente sorpreso.
Jim annuì appena, scoprendosi scomodo a farlo in quella posizione.
“Sì, non lo sanno in molti ma è così. Perché, non lo hai mai sospettato?”
“Avrei dovuto?” domandò d’istinto Jim.
In effetti, forse qualche avvisaglia c’era stata… Ma davvero era possibile distinguere i gay dagli etero in questo modo? Non si trattava solo di stereotipi? Che poi, tutto sommato, secondo lui Oswald non lo dava particolarmente a vedere.
“No, forse… Comunque, ti dà fastidio?”
“Non vedo perché dovrebbe,” rispose sinceramente Jim, chiudendo di nuovo gli occhi per godersi la sensazione di freddo sul suo petto, che stava finalmente alleviando il dolore.
“Non lo so. Perché passo del tempo con tua figlia, o magari perché siamo amici, e stiamo sempre insieme da soli…”
“Per Barbara non ho niente di cui preoccuparmi. Quanto a me, non ho paura che mi salti addosso, se è questo il punto. Perché, dovrei?” gli chiese, tornando a guardarlo.
Oswald strabuzzò gli occhi e ci mise un paio di secondi per rispondere.
“No, sono un gentiluomo,” rispose, con quella che sembrava essere una battuta, al che Jim sorrise.
Aveva notato, però, quel momento di esitazione prima di dargli una risposta.
C'era una possibilità, anche minima, che Oswald fosse attratto da lui? Jim se lo chiese, rievocando velocemente alcuni momenti del loro passato.
Un tempo stravedeva per lui e non faceva che offrirgli amicizia. Non c'era stato altro, però, inoltre Jim era sposato in quel periodo. Poi era nata Barbara e lui era stato in lutto per la morte di sua moglie…
Inoltre Oswald aveva ammesso che gli piaceva Edward, e che aveva fatto per lui la pazzia di uccidere una donna.
Per Jim non aveva mai fatto niente di folle, il che era un bene.
E questo, forse, implicava che a Oswald lui non era mai piaciuto in quel senso. Dopotutto, Jim era ben diverso da Edward, e se il suo tipo era quello…
D'altra parte, gli piaceva passare il suo tempo con Oswald e l'amicizia che li legava, la complicità che si era creata tra loro. Il fatto che in pochissimi a Gotham ne fossero a conoscenza rendeva il tutto, in qualche modo, speciale.
Anche Barbara lo adorava.
E l'idea che, un giorno, un altro uomo gli avrebbe sottratto quella compagnia, diventando la priorità per Oswald, un po’ lo infastidiva.
Era forse diventato così presente nella sua quotidianità che Jim ne sentiva la mancanza, all'idea di poterlo perdere? Se ne accorse solo in quel momento e lo trovò assurdo…
Ma credeva, dentro di sé, che la persona che Oswald avrebbe amato sarebbe stata molto fortunata. Perché era vero che lui era un criminale, anche se nell'ultimo periodo stava cercando di dare una direzione diversa ai suoi affari... Ed era vero che lui si era dimostrato egoista e che era capace di uccidere...
Però era anche vero, e Jim lo sapeva bene, che era in grado di dare tanto. Lo aveva fatto con lui, che era solo un amico, quindi il detective era certo che avrebbe fatto molto di più per qualcuno che amava… come stava facendo molto per Martin, che per lui probabilmente era come un figlio.
Un figlio che non poteva adottare legalmente, ma che andava a trovare spesso in orfanotrofio, e che passava a prendere ogni volta che poteva. Perché tecnicamente non avrebbe potuto portarlo fuori dalla struttura, ma quando sei Pinguino gli ostacoli svaniscono e le porte chiuse si aprono.
Fino a un certo punto, ovviamente, ma le cose stavano così.
“Adesso, tu e Edward…” iniziò, ma venne subito interrotto.
“Oh no! Siamo a malapena amici. Anche se volessi, lui sta con Lee adesso, e comunque non voglio,” tagliò corto, apparentemente imbarazzato dalla sua insinuazione.
Jim sospirò e decise di seguire il filo del discorso, per non innervosirlo con un argomento di cui, era chiaro, non voleva parlare.
“Trovo ancora assurdo che quei due stiano insieme. Però Lee è cambiata tanto, perciò…”
“Ti dispiace? Lei… ti manca?” indagò Oswald, dopo avergli lasciato un paio di secondi per terminare la frase.
Jim fece spallucce, altro movimento che scoprì difficile nella sua situazione attuale.
“No, per me è acqua passata. Forse… non dimenticherò mai la possibilità che abbiamo avuto, e che ci è sfuggita di mano,” dichiarò, aprendo gli occhi mentre ci rifletteva.
Stavano per avere un figlio, per diventare davvero una famiglia… e invece era andato tutto in fumo.
Lui era finito a Blackgate, sua figlia dai nonni materni e Lee, rimasta sola, aveva perso il bambino. Un dolore del genere non si dimentica tanto facilmente.
“Però è solo questo,” aggiunse, rivolgendo lo sguardo a Oswald. “Non mi piace ciò che è diventata e non la rivorrei indietro in ogni caso. Abbiamo troppi trascorsi negativi… E io ho chiuso ormai. L'unica donna della mia vita sarà Barbara.”
Ecco, lo aveva ammesso ad alta voce. Lo aveva fatto solo con Harvey, fino a quel momento, e il suo amico, dopo la sorpresa iniziale, aveva tentato di spingerlo tra le braccia della cameriera di un pub, e poi di tante altre donne. Solo dopo aveva rinunciato, anche se era ancora incredulo a riguardo.
“Non puoi dire sul serio, Jim,” commentò Oswald, con una nota ironica nella voce.
“Perché no? Sono convinto,” ribatté, rivolgendogli lo sguardo.
“Perché meriti di essere felice, e sarebbe uno spreco se non ti rimettessi sul mercato,” disse, per poi bere un sorso di vino. “Poi c'è quella ragazza, Erin, che ti gira intorno…” aggiunse senza guardarlo negli occhi, riferendosi alla babysitter.
“Lei non mi interessa minimamente, è una ragazzina,” ribatté, storcendo le labbra.
“È solo questo il problema, Jim? Avrà almeno ventun anni...”
“No, davvero, non farmici pensare,” insistette, infastidito.
Quindi era vero che Erin era interessata a lui. Non era stato l'unico a farci caso... Saperlo non lo rese felice, anche se sinceramente non si aspettava nessuna mossa da parte della babysitter.
“Continuo a pensare che sarebbe un peccato se restassi da solo.”
Jim sospirò.
“Davvero, non voglio cercare nessuno. Non sono pronto a far entrare una nuova persona nella mia vita… E al momento non ne vedo proprio la necessità.”
In realtà il “momento” stava durando da almeno un anno ormai, per questo Jim si era convinto di stare bene da solo. Non aveva alcuno stimolo per cercare qualcuno, nessun desiderio a innamorarsi.
Inoltre trovare una donna implicava farla conoscere a Barbara e sperare che le due si piacessero. No, c'erano troppi fattori da considerare e Jim aveva ben altro per la testa, il che gli bastava.
“Tu frequenti qualcuno?” chiese a Oswald, sperando di poter spostare il discorso su di lui.
“Oh no. Non frequento nessuno in senso romantico,” rispose, poi Jim lo vide sgranare gli occhi e arrossire leggermente. “In nessun senso, intendevo.”
Istintivamente il detective sorrise, divertito nel constatare il suo imbarazzo improvviso.
“Allora cosa volevi dire?” lo provocò, perché chiaramente aveva voluto sottintendere qualcosa.
Oswald sorrise e, ancora una volta, evitò di guardarlo negli occhi.
“Che c’è qualcuno che mi piacerebbe frequentare, ma non c'è speranza… Non gli interesso.”
“Mai dire mai,” buttò lì.
Improvvisamente, lo scenario in cui lui veniva messo da parte perché Oswald iniziava a dedicare tutto il suo tempo alla sua nuova fiamma si fece più concreto, provocando una stretta nel suo petto già dolorante.
“Non è nessuno che potrebbe uccidermi perché geloso della nostra amicizia, spero…” scherzò, con una punta di amarezza nella voce.
Oswald ridacchiò.
“Di questo non devi preoccuparti, Jim,” rispose e gli rivolse lo sguardo.
Nei suoi occhi Jim lesse della malinconia, ma vide anche un luccichio che non comprese davvero.
“Ti fa ancora male?” gli chiese, gesticolando in direzione del sacchetto del ghiaccio.
“No… Va molto meglio adesso.”
—------
Oswald Cobblepot era innamorato di Jim Gordon.
La cosa andava avanti da tanto, troppo tempo ormai. Sin dal momento in cui Jim gli aveva salvato la vita, malgrado fosse solo un criminale come tanti, qualcuno di cui pochi avrebbero pianto la scomparsa. Solo sua madre, probabilmente.
Jim però non aveva mai dato segnali che ci fossero possibilità tra loro, anzi aveva fatto di tutto per allontanarlo, chiedendogli favori a malincuore e accettandoli con riserva.
Ma dopo, in qualche modo, erano diventati amici davvero.
E poi Oswald aveva perso la testa per Ed, che lo guardava come nessun altro, facendogli pensare che qualcuno, forse, finalmente lo amava.
E Oswald sentiva il bisogno di ricevere affetto, amore. Ricercava il contatto fisico, anche minimo, anche se non lo dava a vedere. Voleva sentirsi voluto, sapere che qualcuno teneva a lui.
Ma quel qualcuno non era Edward, evidentemente.
E anche in quel periodo l'interesse nei confronti di Jim Gordon non era mai svanito del tutto. Fu in quel periodo che gli offrì il prestito, perché voleva saperlo a vivere in un bel posto con sua figlia, anziché in quel monolocale squallido dove si era trasferito dopo che la moglie era morta di parto.
Adesso, Jim era tra le poche persone che gli stavano vicine davvero. Tra quelle che lo consideravano un amico, di cui lui sapeva di potersi fidare ciecamente e con cui sentiva di poter essere sé stesso.
Poi Oswald non sopportava i bambini, ma sua figlia era talmente carina da essere - insieme a Martin - l'eccezione.
Però non c'era altro. Oswald sapeva che Jim provava solo amicizia nei suoi confronti, e che non l'avrebbe ricambiato mai. Per questo sentiva di non dover fare nulla, per comunicargli i suoi sentimenti o per tentare di avvicinarsi di più a lui.
E per quanto gli desse fastidio il pensiero di Erin che gli ronzava intorno, non avrebbe fatto nulla a riguardo. Non era più la persona di un tempo e aveva imparato la lezione.
Inoltre, se non aveva fatto niente anche quando si era messo con Lee, era proprio perché sapeva che nel suo caso sarebbe stato inutile.
Jim Gordon era sempre stato interessato solo alle donne, e per questo non c'era posto per Oswald nella sua vita, se non come amico.
Eppure Oswald non riusciva a smettere di pensare a lui, di guardarlo con affetto mentre interagiva con sua figlia, di sognare un futuro in cui anche lui faceva parte di quel quadretto.
Inoltre bruciava di desiderio per lui… ma questo proprio non voleva darlo a vedere. Si sfogava con dei partner occasionali per combattere la frustrazione e il bisogno di stargli vicino, di toccarlo, di essere amato da lui, che gli cresceva nel petto.
Oswald Cobblepot amava Jim Gordon, eppure sapeva che quei sentimenti non avrebbero avuto futuro.
Prima o poi si sarebbe arreso. O forse… forse no. Forse avrebbe guardato con dolore la prossima donna che sarebbe entrata nella sua vita. Forse sarebbe rimasto ai margini del quadretto, a guardarli da lontano perché non più gradito, oppure non riuscendo più a sopportarne la vista.
Oswald bevve un altro sorso di vino. Non voleva andarsene… La bambina dormiva già, ma per lui era ancora presto. Inoltre, era stata una lunga giornata.
Anche se aveva dichiarato di essere andato a Narrows con mire espansionistiche, la verità era che si trovava lì solo per aiutare Jim.
Ciò di cui si era occupato, nel corso di tutto il resto della giornata, era stato tenere insieme la sua organizzazione. E con le sue intenzioni di trasformarla in una società legale, oltre che con una crisi appena sventata, non era stato facile.
Oswald aveva capito di non poter continuare così. Avrebbe tenuto in riga i suoi uomini con la paura e il pugno di ferro, ma non avrebbe continuato a perdere e ricercare il potere.
Una volta aveva detto a Martin che tutto il suo impero sarebbe stato suo, un giorno… ma cosa gli avrebbe lasciato, all'effettivo? Niente, proprio niente.
Per questo aveva pensato di mettersi in regola, e di farlo impadronendosi delle fabbriche di munizioni di Gotham. In questo modo avrebbe davvero costruito una realtà solida, che avrebbe generato ricchezza e che poi sarebbe stata di Martin, un giorno.
Anche se, intanto, avrebbe continuato ad amministrare il suo territorio e a richiedere una tassa ai negozianti in cambio di protezione.
“Chi è la persona che ti piace? Qualcuno che conosco?” gli chiese Jim, riportando il discorso su un argomento a dir poco scomodo per lui.
Oswald tese le labbra in un sorriso.
“Non ti piacerebbe la risposta,” disse, sperando che lasciasse perdere.
Voleva dirglielo, in realtà. Nelle sue fantasie più proibite, gli confessava i suoi sentimenti e Jim diceva di ricambiarlo… ma sapeva che la realtà era ben diversa, e che sarebbe solo finita male per lui.
“Mettimi alla prova,” insistette Jim. “Almeno dimmi che tipo è.”
Oswald indurì la mascella. Mai il desiderio di dirgli tutto era stato così forte.
“È una brava persona. L'esatto opposto di me,” svelò, determinato a non aggiungere altro.
Quando si voltò verso di lui, lo scoprì a rivolgergli un lungo sguardo. Che avesse capito? No… non era possibile.
Il detective si mise a sedere, e quel movimento veloce fece cadere il sacchetto del ghiaccio. Oswald si sporse in avanti e si piegò per raccoglierlo. Quando si voltò verso di lui, però, si ritrovò molto vicino al suo viso, e ancora sotto il suo sguardo indagatore.
Rivolgendo la sua attenzione al sacchetto, lo avvicinò piano perché lo prendesse ma Jim, invece, afferrò il suo polso.
Oswald si ritrovò di nuovo a guardarlo. Si perse nei suoi occhi azzurri, così intensi da fargli girare la testa. Si sentì pervadere dal bruciante desiderio di avvicinarsi di più per scoprire che sapore avessero le sue labbra, e quanto fossero morbide.
E poi non sarebbe finita lì, no, perché una volta ceduto al desiderio che teneva segregato da anni non lo avrebbe lasciato andare. Oswald era un bravo amante e glielo avrebbe dimostrato. Gli avrebbe fatto perdere la testa…
Mentre i pensieri si susseguivano frenetici nella sua mente, sperò che Jim non potesse sentire, attraverso la pelle del polso che stava tenendo, che il suo cuore stava battendo all’impazzata.
“Non sarà mica Harvey?” gli chiese.
Inizialmente confuso, Oswald capì cosa stesse insinuando con quella che, ci sperava, fosse solo una battuta, e non riuscì a trattenere una risata genuina.
“Ti prego, no,” commentò, mentre gli consegnava il ghiaccio e si liberava gentilmente dalla sua presa.
E anche se l’atmosfera era guastata del tutto, per sua fortuna, decise che era arrivato il momento di tornare a casa, perché così non avrebbe rischiato di cedere al suo istinto, o di fare qualche altro passo falso.
—------
Noia. Jim, nei suoi giorni di riposo, comprese il vero significato di quella parola.
Per fortuna a casa con lui c’era sua figlia, ma al mattino lei aveva l’asilo e al pomeriggio c’era anche Erin, a tenerla impegnata e sott’occhio.
Così Jim si ritrovò spesso a giocare con Barbara, o a guardarla disegnare da lontano, a vedere gli esercizi basilari che le faceva fare Erin, o a scoprire quali cartoni preferiva guardare in settimana, alla televisione. A volte la portava in biblioteca perché scegliesse un libro, che poi lui le leggeva.
Quindi le sue giornate in realtà erano abbastanza piene, ma non potendo lavorare si sentiva prosciugato, piatto, privo di stimoli.
Forse la bambina se ne era accorta, perché un giorno gli presentò un’idea sotto forma di biglietto colorato.
“Questo cos’è?” le chiese, prendendolo dalle sue mani.
“È un invito!” esclamò Barbara, felice.
Jim lo guardò bene.
In alto c’era scritto “la festa di papà” nella grafia tremolante di sua figlia. Subito sotto, aveva disegnato cinque persone sorridenti e con le braccia alzate, come se stessero esultando. Capì che dovevano essere lui, Harvey, Oswald, lei e Martin.
“Un invito per cosa?” le domandò, confuso.
“Una festa per te,” rispose la bambina, come se fosse una cosa ovvia.
“E cosa si festeggia?” chiese, corrugando la fronte.
“Che sei a casa con me. Possiamo? Ti prego!” insistette.
Nei giorni successivi Barbara non fece che parlarne, quindi alla fine Jim dovette cedere e invitò Harvey e Oswald.
Nel giorno designato, ovvero sabato, Erin andò via poco dopo pranzo. Aveva già preparato la cena per loro, che Jim avrebbe dovuto solo scaldare, e per questo lui le lasciò una mancia generosa.
Gli ospiti erano attesi nel tardo pomeriggio, perciò Jim rimase con sua figlia ad aiutarla a realizzare dei festoni colorati. Un compito più facile a dirsi che a farsi, ma inaspettatamente lei se la cavava e così ascoltò le sue indicazioni e controllò che non si facesse male con le forbici, anche se avevano la punta arrotondata.
Il primo ad arrivare fu Oswald, in compagnia di Martin. Quando Barbara vide il suo amico, corse da lui e lo invitò a giocare insieme, perciò si misero sul tappeto del salotto.
Altro che festa per suo papà, Barbara si era improvvisamente dimenticata della sua presenza.
“Mi sono permesso di portare una torta,” dichiarò Oswald, porgendogli una confezione bianca, chiaramente proveniente da una pasticceria.
“Grazie, ma non dovevi.”
“Figurati, è solo un piccolo pensiero,” disse, passandogliela.
Jim lo invitò ad accomodarsi al tavolo della cucina mentre metteva la torta in frigo.
“In realtà avrei portato anche un’altra cosa… ma non dirò niente, se non sei d’accordo,” dichiarò, attirando tutta la sua attenzione.
Un attimo dopo estrasse dal sacchetto che aveva in mano un tubetto color viola chiaro.
“È un balsamo. La commessa del negozio mi ha assicurato che il colore finale sarà molto chiaro, e che schiarirà completamente al primo lavaggio. Ha una formulazione naturale, non contiene niente di nocivo,” spiegò, sembrando incerto di quella che sarebbe stata la sua reazione a riguardo.
Jim, sorpreso, lo prese per leggere di cosa si trattasse. Aveva comprato un balsamo colorato per Barbara? Era stato un pensiero carino, considerando quanto lei si fosse fissata con l’idea di farsi i capelli viola, ma lui non sapeva se ne fosse felice o meno.
“Pensavo che potresti lavarle i capelli domani, così nessuno saprà mai che se l’era fatto,” continuò Oswald, e Jim alzando lo sguardo su di lui capì che era nervoso, in attesa del suo parere.
“Va bene, credo che ne sarà felice,” rispose, alla fine. “Ma non ho idea di come si facciano queste cose.”
“Posso pensarci io,” dichiarò Oswald, portandosi una mano al petto in un gesto che trasudava eleganza. “Ma sei sicuro che ti vada bene? Non sembri convinto…”
Jim rivolse uno sguardo a Barbara, che giocava felice con Martin, prima di tornare a guardare lui.
“No, ho solo paura di quale sarà il risultato, e che poi diventi un vizio. Ti prego, non farglielo su tutta la testa almeno.”
“Solo qualche ciocca allora,” disse, accennando un sorriso. “Comunque, come stai? Non ci vediamo da qualche giorno.”
Jim sospirò.
“Meglio, mi sembra di respirare bene adesso, ma sono ancora sotto antidolorifici,” raccontò.
Iniziava a essere decisamente stufo della situazione, non solo per il dolore e l’impossibilità di lavorare, ma anche perché non poteva bere. Ed era passata poco più di una settimana dal suo infortunio.
“Serve molta pazienza, James… Se avessi bisogno di qualcosa, sai che puoi sempre contare su di me, vero?” chiese, rivolgendogli uno sguardo intenso, al che Jim annuì.
Non aveva dimenticato la loro ultima conversazione, in proposito al fatto che a Oswald piaceva qualcuno. Jim ci aveva pensato e ripensato diverse volte… e, adesso che lo aveva di nuovo davanti, non poteva fare a meno di riportare alla mente le sue parole.
Di ricordare la tristezza al pensiero che lo lasciasse solo per rivolgere le sue attenzioni a qualcun altro…
Gli piaceva passare il tempo così, loro due da soli oppure con i bambini che giocavano. Non voleva che tutto questo finisse.
“Allora, posso…?” chiese, indicando il tubetto di balsamo.
“Ah, certo,” rispose, riconsegnandoglielo.
Oswald si alzò e, adesso con aria rilassata, andò da Barbara a farglielo vedere. Lei ne fu così entusiasta che si mise a urlare e a correre in giro.
“Piano,” le chiese Jim, andandole in contro prima che potesse cadere o sbattere contro qualche mobile. “Oswald, ti serve qualcosa?”
“Degli asciugamani che non sarà un peccato macchiare,” rispose. “Anche dei guanti usa e getta sarebbero l’ideale.”
“Arrivano subito,” disse Jim.
Un paio di minuti dopo, erano già in bagno.
“Tutti i capelli viola!” esclamò Barbara, felice.
“Non tutti, solo qualche ciocca,” sottolineò Jim, che stava iniziando a preoccuparsi.
Se a tre anni era così, cosa avrebbe fatto a sedici? Aveva paura solo a immaginarlo.
Il campanello suonò, distraendolo dai suoi pensieri.
“Questo deve essere Harvey. Posso affidarti Barbara?”
“Certo Jim, vai pure,” lo rassicurò Oswald.
Così il detective uscì dal bagno per dirigersi alla porta. La aprì e, come previsto, vi trovò il suo collega.
“Harvey, benvenuto,” gli disse, spostandosi per invitarlo a entrare.
“Ciao Jimbo, grazie per l’invito. Ho portato il whisky.”
“Ma io non posso bere,” gli ricordò, confuso.
“Infatti è per me,” dichiarò, entrando nell’appartamento.
Si diresse in cucina per appoggiarlo, ma si fermò davanti al frigorifero.
“Questo sul disegno è Cobblepot?” chiese, rivolgendo a Jim uno sguardo stranito.
“Sì. È un bel disegno,” disse Jim.
Si trattava di quello in cui Barbara aveva rappresentato loro tre. Era fiero di lei, ogni giorno notava i suoi miglioramenti e quello le era venuto davvero molto bene.
“Perché io non compaio in nessun disegno?” chiese Harvey, con aria offesa.
“Oh no, ha disegnato anche te,” gli assicurò, dirigendosi al tavolo del salotto, dove lei aveva lasciato diversi fogli.
Tempo un paio di secondi e l’ebbe trovato, quindi lo consegnò al suo amico.
“Senza offesa, ma questo ho deciso di non appenderlo sul frigo,” disse, mentre Harvey lo prendeva dalle sue mani.
Sul foglio, Barbara aveva raffigurato Harvey sdraiato sul divano con una bottiglia in mano.
Guardandolo, lui fece una smorfia.
“Cavolo, Jim… Tua figlia è troppo intelligente, deve avere qualche problema,” scherzò, rimanendo serio in viso.
“Ma piantala,” ribatté lui, riprendendosi il disegno.
“A proposito, perché ci siamo solo noi due?”
“Barbara e Martin sono con Oswald in bagno, le sta facendo una specie di tinta lavabile ai capelli,” spiegò, facendogli segno di accomodarsi.
“Oh no, per quella storia dei capelli viola? Sapevo che sarebbe stata una pessima influenza.”
“Ma no, purché si tratti solo di questa volta. Spero che basti a togliere a Barbara la fissazione.”
“Comunque, non so come fai a fidarti a lasciare Pinguino da solo con due bambini, tra cui tua figlia,” commentò Harvey, storcendo le labbra.
Jim si sedette con lui al tavolo della cucina.
“Mi posso fidare. So che non ci credi, ma ormai lo conosco bene ed è così.”
“Se lo dici tu, Jim… Io non smetterei di tenerlo d’occhio.”
Jim sospirò. Sperava solo che lui e Oswald si sforzassero di andare d’accordo quel giorno, perché sapeva che non si sopportavano.
—------
Oswald aveva appena finito di spalmare il balsamo sui capelli di Barbara, e di convincere la bambina a non toccarseli per non sporcarsi le mani. Aveva fatto un buon lavoro, apparentemente, ma solo lavandoli ne avrebbe avuta la conferma. In ogni caso, non era ancora il momento.
Dato che Martin gli aveva fatto capire di volerli anche lui così, si dedicò al bambino, decidendo di passargli il balsamo su tutta la testa. I suoi capelli erano scuri, perciò il colore avrebbe preso in modo diverso, sarebbe stato più tenue probabilmente.
Mentre lui lavorava, cercando di non sporcare in giro, loro chiacchieravano. Martin era un bambino particolarmente tranquillo, mentre Barbara non lo era sempre, soprattutto quando era felice. Quella volta, lo stupì per come riuscì a rimanere calma in attesa.
Tempo di finire con Martin che fu il momento di lavare e asciugare i capelli della piccola. Il risultato fu davvero carino, tante piccole ciocche color lilla sui suoi capelli biondissimi.
“Voglio farli vedere subito a papà!” esclamò, entusiasta.
“Vai pure, ma non correre,” si raccomandò Oswald, aprendo la porta per lei.
Lavare i capelli di un bambino e asciugarli aveva un che di rilassante. Poche volte lo aveva fatto, per Martin, ma gli era sempre piaciuto… Gli faceva venire in mente i tempi in cui sua madre lo faceva per lui. Ora comprendeva l’amore che provava un genitore per un figlio.
Il risultato su Martin fu diverso. Il balsamo gli diede solamente dei riflessi viola, che però erano davvero belli. Lo vide sorridere, perciò si sentì soddisfatto.
Mise a posto tutto velocemente, assicurandosi di non aver lasciato macchie viola da nessuna parte, e seguì il bambino in salotto.
Barbara stava correndo da tutte le parti, almeno finché Harvey non la sollevò in aria facendola ridere.
“Martin!” esclamò, vedendo il suo amico, così il detective la mise giù per lasciare che corresse da lui, a toccare i suoi capelli con aria divertita.
“Buonasera detective Bullock,” salutò Oswald, rivolgendogli un sorriso di circostanza.
“Cobblepot,” rispose lui, senza aggiungere altro, così Oswald spostò la sua attenzione su Jim.
“Allora, cosa ne pensi? Ti sei pentito di aver acconsentito?” gli chiese, sperando vivamente che non fosse così.
“No, sta bene,” rispose, al che lui rilassò le spalle, sentendosi più tranquillo. “Ma è la prima e ultima volta che glielo permetto, e in questo tu dovrai essere mio alleato.”
“Certo Jim, contaci,” gli disse, non riuscendo a trattenere il sorriso.
I bambini tornarono a giocare, quindi loro tre si sedettero in cucina, per parlare tra loro e tenerli d’occhio allo stesso tempo.
“Non mi hai ancora detto il perché di questa festa,” sottolineò Bullock, e in effetti nemmeno Oswald lo sapeva.
Aveva ricevuto il biglietto disegnato da Barbara ed era stato felice di accettare, sicuro che anche Martin ne sarebbe stato entusiasta, ma non aveva ancora fatto domande a riguardo.
“È stata un’idea di Barbara, in realtà. Credo che mi abbia visto giù in questi giorni, perché non posso ancora tornare al lavoro… A proposito, senza di me come sta andando?”
“Uno schifo. Non che ci serva il tuo aiuto, ho tutto sotto controllo, ma le bande sono particolarmente agguerrite in questo periodo.”
Oswald annuì, suo malgrado.
“Posso confermare. Valeska ha promesso di bruciare la città e tutti si sono preparati alla guerra per spartirsi di nuovo i territori. Voi avete sventato il pericolo, ma ormai avevano sete di sangue,” commentò.
“Eppure non mi sembra di aver visto i tuoi uomini coinvolti in qualche scontro,” disse Harvey, corrugando la fronte.
“Già, perché li tengo a bada io praticamente ogni giorno,” rivelò, senza riuscire a mascherare una nota di fastidio nella sua voce. “Ma il peggio sembra passato, per quanto riguarda i miei. Immagino che, quando avrò ripulito la mia organizzazione, non dovrò più gestire problemi di questo tipo.”
“Allora è vero quello che si dice in giro… Pinguino che vuole darsi alla legalità,” commentò con ironia Harvey, versandosi un bicchiere di whisky.
“Te l’avevo detto che è cambiato,” sottolineò Jim, facendo spallucce.
Oswald non poté fare a meno di sorridere, vedendo come gli dava manforte.
“Già, eppure mi risulta che molti nostri agenti siano ancora sul tuo libro paga…” gli fece notare aspramente Bullock.
“Che posso dire, sono un uomo prudente,” rispose Oswald, accennando un sorriso nella sua direzione. “Non voglio disordini finché non avrò raggiunto il mio scopo.”
“E toglimi una curiosità… Cosa ti ha fatto prendere questa decisione?” chiese Bullock, guardandolo con sospetto.
Oswald si domandò come rispondere. Avrebbe potuto chiudere il discorso in modo sbrigativo, oppure dire la verità… In fondo, non aveva nulla da perdere. Sicuramente Jim non voleva vederli litigare o lanciarsi frecciatine sterili. Soprattutto non in un giorno in cui si trovavano entrambi lì per lui, per risollevargli il morale.
Alla fine, dopo aver spostato per un momento lo sguardo su Martin, decise per la seconda opzione.
“È stato Martin. Se voglio continuare a proteggerlo, devo essere vivo e fuori di prigione… e vorrei lasciargli in eredità qualcosa che non sia un… fragile impero del crimine. Per questo prenderò ciò che ho e lo userò per costruire una società legale,” ammise, senza più alcuna inflessione leggera nella voce.
Inspirò rumorosamente, accennò un sorriso e si versò un bicchiere d’acqua per ingannare l’improvviso imbarazzo dato dal silenzio che si era creato. Solo acqua, in solidarietà con Jim che non poteva bere, e che aveva messo in tavola quella.
“Il mio contabile, il signor Penn, mi sta aiutando a gestire tutto quanto. Mi insegna a consolidare il mio potere in modo legale, perché mi è sfuggito di mano fin troppe volte. Ho subito troppi tradimenti e non voglio più permettere che accada,” aggiunse, mentre faceva girare l’acqua nel bicchiere come se fosse liquore.
Poi la bevve tutta d’un fiato.
“Ma è fantastico, Oswald. Non me ne avevi mai parlato nel dettaglio,” disse Jim, rivolgendogli uno sguardo sorpreso.
Lui non poté far altro che sorridere, ancora imbarazzato, mentre abbassava lo sguardo sul bicchiere ormai vuoto.
“Beh, che dire… Questo è davvero inaspettato,” commentò invece Bullock, per poi svuotare a sua volta il contenuto del proprio bicchiere.
Questa volta, nella sua voce non c’era stata alcuna nota di scherno o di severo giudizio. Allora, forse, era possibile che condividessero la stessa aria senza saltarsi alla gola a vicenda.
Oswald però ci pensò solo per un istante, per assaporare invece l’ammirazione di Jim. Gli era sembrato colpito e forse, quando sarebbe riuscito a raggiungere davvero il suo scopo, sarebbe stato fiero di lui. Chissà… a Oswald sarebbe tanto piaciuto vederlo.
“Papà papà! Vieni a vedere!” esclamò Barbara.
Jim si alzò e andò dai bambini, chinandosi lentamente per mettersi sul tappeto per loro.
Oswald sospirò.
Non stava cambiando per Jim, lo stava facendo per Martin e per sé stesso… Ma gli sarebbe tanto piaciuto conquistarsi un posto tra loro. Già era un miracolo se erano diventati amici, lo sapeva, eppure desiderava di più. Desiderava qualcosa che, ne era certo, non avrebbe mai avuto.
Ma desiderarlo, per quanto fosse amaro perché si trattava solo di una fantasia, era anche molto dolce.
“Scusatemi un momento,” disse Jim, un attimo dopo, sparendo oltre il corridoio che portava alle camere.
Forse Barbara gli aveva chiesto di andare a prenderle un gioco.
“Oh cavolo no…” commentò Harvey, a mezza voce. “Cobblepot!”
“Cosa c’è?” gli chiese lui, stranito.
“Ho visto come guardi Jim. Lui ti piace,” disse, sempre a bassa voce, e Oswald si sentì mancare.
“Ma cosa stai dicendo?” chiese, dopo aver boccheggiato per un paio di secondi, non sapendo come gestire quella situazione.
“Non prendermi per il culo, so che è così! Non ti permetterò di fare del male a Jim.”
“E chi è che vorrebbe farlo? Hai frainteso,” tentò, ma il detective continuò a guardarlo con sospetto.
“Non me la bevo. Sappi che glielo dirò, come suo migliore amico non posso permetterti…”
“È anche il mio migliore amico!” esclamò Oswald, a denti stretti. “Non voglio perderlo, proprio per questo non farò mai niente,” ammise, più per ricordarlo a sé stesso che per farlo sapere a Bullock.
“Eccomi,” annunciò Jim, e per poco Oswald non sobbalzò.
Se pensava che i suoi sentimenti erano quasi stati scoperti, e per colpa di Harvey, si sentiva male.
Bullock lo fulminò con lo sguardo e lui ricambiò allo stesso modo.
“Papà, gli zii stavano litigando,” disse Barbara con una nota triste nella voce, mentre Jim le porgeva il suo gioco.
Oswald si sentì sbiancare.
“Cos’è successo?” chiese loro Jim, e non rivolse lo sguardo a lui bensì a Bullock, come se già lo immaginasse colpevole.
Il suo collega scosse la testa e sospirò.
“Era per quegli agenti sul suo libro paga. Lo sai che non mi va giù, e scommetto che per te è lo stesso,” mentì.
“Sì, ma ha già detto perché li paga e che non lo farà ancora per molto,” ribatté Jim.
Oswald, prima incredulo perché Bullock lo aveva coperto, adesso dovette trattenere un sorriso per il modo in cui si era evoluto quel discorso.
“Cosa vuol dire libro paga?” domandò innocentemente Barbara.
Mentre i detective cercavano di convincerla a non pensarci, Oswald vide Martin scrivere qualcosa sul suo blocchetto, per poi mostrarglielo.
“Stai bene?” aveva scritto, e Oswald annuì cercando di sembrare convincente.
Martin era un ottimo osservatore… e anche in fatto di comunicazione, era bravo a farsi capire, pur non parlando. Era subito andato d’accordo anche con Barbara, che non sapeva leggere bene né conosceva tutte le parole che conosceva lui, essendo più piccola.
“Non litigate più, è la mia festa,” disse con leggerezza Jim.
Per rimettersi a sedere Jim girò intorno al tavolo e solo in quel momento, seguendolo con lo sguardo, Oswald notò che aveva attaccato al frigo il disegno che ritraeva loro due insieme a Barbara.
Era il tipico disegno della famiglia che fa un bambino… se non fosse che, appunto, in quel quadretto familiare aveva inserito anche lui. Probabilmente non significava niente, ma lo fece sorridere.
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Erin aveva preparato polpette al sugo e patate arrosto. Jim apparecchiò mentre scaldava il tutto, invece Harvey e Oswald convinsero i bambini a smettere di giocare per raggiungerli a tavola.
Dopo la cena, che piacque a tutti, Jim tirò fuori dal frigo la torta che aveva portato Oswald, che fu un ottimo modo per concludere il pasto.
Harvey non smise mai di bere, perciò Jim non si sorprese nel vedere che fu il primo a crollare addormentato, sulla poltrona in salotto. Poi fu il turno di Barbara e Martin, che si ostinarono a continuare a giocare finché non si chiusero gli occhi a entrambi.
Dopo un breve dibattito sul da farsi, Jim e Oswald decisero di metterli a dormire nel letto di Barbara, che era grande abbastanza per entrambi. Adesso bisognava solo riuscire a portarceli.
Jim avrebbe faticato a prendere in braccio sua figlia. Il punto non era tanto tenerla in braccio, ma tirarla su da terra, con le sue costole malandate.
“Ci penso io,” gli disse Oswald, sollevandola per lui. “Adesso te la passo, ci sei?”
“Sì,” rispose, prendendola dalle sue braccia. “Tu riesci a sollevare Martin? Non è un problema… trasportarlo, con la tua gamba?”
“No, non è così pesante, e mi basta camminare piano,” gli assicurò.
Jim annuì e si incamminò per primo verso la cameretta di Barbara. Quella piccola stanza era coloratissima e piena di giochi. Aveva scelto lui i mobili e l'essenziale, ma le aveva sempre dato la libertà di abbellirla come voleva. Qualche mese prima aveva addirittura ridipinto le pareti di un color pesca acceso, come aveva voluto lei.
Adagiò con attenzione la piccola nel lettino proprio mentre Oswald lo raggiungeva con Martin tra le braccia. Misero a letto anche lui e rimasero, per un lungo istante, a guardarli dalla porta. La luce nella stanza era soffusa, perché a illuminarli c’era solo la lampada di sicurezza situata ad altezza pavimento, una stellina gialla scelta anch’essa da Barbara.
Vederli così, a dormire l’uno accanto all’altra, trasmetteva una certa pace.
“Secondo te devo preoccuparmi?” chiese Jim, alludendo al fatto che sua figlia di tre anni stava già dormendo con un individuo del sesso opposto.
Oswald ridacchiò piano.
“Oh no, Jim. Credo proprio che si considerino come dei fratelli… o dei cugini, magari. Ma chissà, crescendo potrebbero smentirmi.”
Stranamente divertito da quella prospettiva, Jim chiuse la porta e fece strada verso il salotto.
Se ne rendeva conto solo in quel momento, ma il soggiorno era un disastro. Tra festoni da rimuovere e giochi da mettere a posto, c’era ancora un gran lavoro da fare… e decise di rimandarlo all’indomani. Era troppo stanco per preoccuparsene adesso.
Oswald si sedette al centro del divano, lui invece andò in cucina a prendere il suo primo antidolorifico della serata, per poi raggiungerlo e sedersi alla sua sinistra.
Alla loro destra, Harvey russava sdraiato in poltrona. Avrebbero potuto parlare liberamente, tanto lui non li avrebbe sentiti.
“Grazie per essere venuto, è stata una bella serata,” gli disse, ritrovandosi per qualche motivo a guardarlo con curiosità.
Oswald era sempre ben vestito quando passava a trovarlo, e anche quell'occasione non faceva eccezione.
“Dovresti ringraziare tua figlia per aver avuto questa splendida idea.”
“Lo farò,” rispose, decidendo mentalmente che le avrebbe comprato uno dei giochi che voleva da tanto.
Forse la viziava troppo, ma credeva che si fosse meritata un premio.
Era la sua serata… anche se era sembrata più la festa di Barbara, tra giochi, torta e divertimenti. Ma anche Jim si era divertito, sia a vederla così serena sia a stare in compagnia dei suoi amici più cari, che per fortuna non si erano scannati a vicenda.
Ora che si trovava da solo con Oswald, però, tornò a pensare alla loro ultima conversazione privata. Al fatto che, probabilmente, se avesse iniziato a frequentare qualcuno, quei momenti sarebbero finiti. Il solo pensiero gli fece provare una stretta al petto e desiderare più contatto fisico con lui. Perciò sollevò la mano destra e la posò sulla sua spalla sinistra, trovando il coraggio chissà dove.
Oswald alzò lo sguardo su di lui, chiaramente sorpreso.
“Qualcosa non va, Jim? Sembri… malinconico.”
Il detective scosse la testa.
“Stavo solo pensando a quanto mi mancheranno questi momenti, quando inizierai a frequentare la persona che ti piace,” ammise, pur sentendosi uno stupido.
Oswald inspirò rumorosamente e abbassò lo sguardo, ma non abbastanza in fretta perché Jim non potesse notare che i suoi occhi si erano fatti lucidi.
“Se dici così, potrei credere che ti piaccio…”
“No… Cioè, non lo so in realtà,” ammise il detective, rendendosi conto solo adesso di quella possibilità.
Oswald ormai era una parte importante della sua vita, ed era spesso parte dei suoi pensieri.
“Se fosse così, ti darebbe fastidio?” gli chiese, e il suo amico tornò a guardarlo.
Nei suoi occhi Jim lesse sorpresa, ma anche un’intensità che lo fece tremare.
“Certo che no…” rispose, sottovoce, mentre appoggiava una mano sulla sua e faceva intrecciare le loro dita. “La persona che amo…” aggiunse, poi inspirò rumorosamente abbassando di nuovo lo sguardo, “è un ottimo amico, un padre fantastico… una persona di buon cuore, che cerca sempre di fare del suo meglio per gli altri. Ma se glielo dicessi, temo che lo perderei per sempre.”
Jim avvertì una stretta al petto. Che stesse parlando di lui? Per qualche motivo non ebbe il coraggio di chiederlo, ma continuò a guardarlo per studiarne l’espressione.
Sembrava nervoso. Era lui che lo rendeva così nervoso?
Senza farci caso, avvicinò l’altra mano al suo viso per spostare una ciocca di capelli dalla sua fronte, ma poi non la ritrasse. La fece scendere sulla sua guancia, che accarezzò con il pollice, e sentì Oswald tremare sotto il suo tocco delicato.
L’istante dopo, Oswald puntò nuovamente gli occhi nei suoi.
“Non ti conviene provocarmi, James… Né prendermi in giro, o agire con leggerezza,” gli disse, con la voce tinta da una nota calda e più bassa del solito.
Jim inspirò profondamente, provocandosi un lieve dolore al petto.
“Non ti prendo in giro… Anche se non so ancora bene cosa sto facendo,” ammise, sottovoce.
L’istante dopo, Oswald gli afferrò il polso e annullò la distanza che li separava. Jim si ritrovò le sue labbra sulle proprie in un bacio subito vorace, le sue mani tra i capelli a tenerlo vicino, impedendogli di scappare. Ma scoprì che no, non voleva scappare.
Emise un gemito per la sorpresa, ma ricambiò il bacio prima cercando di star dietro al suo ritmo e poi abbandonandosi completamente a lui.
Era da tanto che non baciava qualcuno… che non desiderava farlo, che non sentiva la necessità di avere qualcuno vicino, che lo facesse sentire amato. Perché era così che si sentiva in quel momento.
Mentre schiudeva le labbra per dargli libero accesso alla sua bocca, si ritrovò ad afferrargli i fianchi per tenerlo vicino a sua volta. Gli sembrava di potersi sciogliere da un momento all’altro, e nessuno prima d’ora lo aveva fatto sentire così… Così travolto, così bisognoso, così perso.
Nemmeno sua moglie Barbara, che un tempo aveva considerato l’unico vero amore della sua vita.
Ma in quel momento, nei suoi pensieri non c’era lei né nessun altro. C’erano solo loro due, come se fossero rimaste le uniche persone al mondo.
Voleva che Oswald restasse con lui. Voleva avere la conferma che fosse lui, e nessun altro, la persona che amava. Voleva sapere che quel momento non sarebbe stato un caso isolato, dettato dall’euforia di una serata.
Voleva una persona che scaldasse il suo letto, da vedere per prima al mattino, svegliandocisi accanto… e voleva che quella persona fosse Oswald.
Quando sentì una mano posarsi sulla sua gamba sinistra, istintivamente le aprì per lui. Subito la mano risalì verso il cavallo dei suoi pantaloni morbidi, ora fastidiosamente teso. Jim vi avvertì la sua presa salda e trattenne un gemito insoddisfatto, mentre Oswald ne emetteva uno di gradimento.
“James… Voglio farti impazzire,” sussurrò, tra un bacio e l’altro.
Il detective gli morse piano il labbro inferiore, desiderando che lo facesse.
“Cazzo,” sentirono, e smisero subito di baciarsi perché quella era la voce da ubriaco di Harvey.
Sentendosi sbiancare, Jim rivolse lo sguardo al suo migliore amico, che li stava osservando con gli occhi socchiusi e l’aria ancora intontita.
“Stai sognando, Harvey... Va tutto bene,” gli disse.
Lui annuì, chiuse gli occhi e riprese subito a russare.
“Che spavento,” esalò Oswald, che ormai aveva tolto le mani dal corpo di Jim.
Se ne passò una sul viso per mascherare il suo imbarazzo.
Jim premette le sue labbra l’una contro l’altra, assaporando la sensazione che quei baci gli avevano lasciato.
“Già… Vieni a dormire in camera con me?” gli chiese, prendendogli la mano libera nella sua.
Oswald chiuse gli occhi e inspirò rumorosamente, dopodiché scosse la testa.
“No, resto sul divano. Tu sei infortunato, non siamo soli e sarei io a impazzire, non potendo toccarti,” dichiarò. “Inoltre… vorrei che riflettessi su ciò che vuoi veramente.”
Jim gli rivolse uno sguardo confuso, non avendo capito cosa intendesse.
“Non ti libererai facilmente di me, se decidi di volere più di un’amicizia,” dichiarò, dopodiché diede una leggera stretta alla sua mano. “Ma, comunque andranno le cose, non voglio che mi escludi dalla tua vita. Rispetterò qualsiasi tua decisione e ti dimostrerò che sono in grado di trattenermi molto più di quanto tu possa immaginare.”
“Oswald…”
“No James, sul serio, pensaci su,” gli chiese, interrompendolo.
Jim non sapeva bene cosa stesse per dirgli, aveva aperto bocca d’istinto. Una parte di lui, però, voleva più di un’amicizia da Oswald e credeva di non poter tornare indietro ormai. Ma immaginava che avrebbe potuto dargli corda, dirgli che intendeva pensarci e rimandare il discorso all’indomani. Così annuì.
“Vado a prenderti un cuscino e una coperta,” gli disse, e lasciò la sua mano dopo avergli dato un’ultima stretta.
“Grazie,” rispose Oswald, accennando un sorriso.
L’indomani, quando Jim aprì gli occhi ricordò tutto quello che era successo la sera prima. Rimase a letto ancora un momento a pensarci, a rievocare le sensazioni che aveva provato, ricordare lo sguardo intenso che gli aveva rivolto Oswald, la passione nei suoi baci…
Senza farci caso, si toccò piano le labbra mentre ci pensava.
Quando trovò le forze di alzarsi, scoprì che il soggiorno era invaso dal profumo del caffè appena preparato.
Oswald dormiva ancora sul divano, e Jim si ritrovò a osservarlo brevemente. Sapeva già di volerlo nella sua vita… e di volerlo come più di un semplice amico. Non sapeva se ciò che provava era amore o solo infatuazione, ma si sentiva profondamente legato a lui e non intendeva tornare sui suoi passi.
Voleva vedere dove lo avrebbe portato quel sentimento nuovo che gli scaldava il petto, al quale non riusciva ancora a dare un nome, ma che lo faceva sentire bene.
Al tavolo della cucina sedeva Harvey, con il viso appoggiato alle mani e una tazza di caffè fumante davanti. Quando Jim si avvicinò per versarsene una, l’amico spostò le mani e gli rivolse uno sguardo intontito.
Aveva i capelli scompigliati e sembrava stravolto dal dopo sbornia.
“Buongiorno Harvey,” gli disse, e il suo migliore amico ci mise un paio di secondi per ricambiare il saluto.
“Sai, Jim… Ho fatto un incubo terribile, ieri notte,” dichiarò, spostando per un momento lo sguardo in direzione del divano.
E solo in quel momento Jim ricordò che, in effetti, li aveva beccati in flagrante. Ora bisognava verificare se era davvero troppo stanco - o troppo ubriaco - per capire che si trattava, invece, della realtà.
“Vuoi parlarmene?” chiese, fingendo di non saperne niente.
“Assolutamente no,” rispose Harvey, per poi bere un sorso di caffè. “Ma una cosa te la dico, Jim: Pinguino è innamorato di te.”
Jim strabuzzò gli occhi, sorpreso.
“Non fare quella faccia, te ne saresti dovuto accorgere prima! Chissà da quanto va avanti…” sospirò. “Io l’ho capito solo ieri, per il modo in cui ti guardava.”
Jim si voltò verso Oswald, che dormiva ancora, e non riuscì a trattenere il sorriso.
Eccola, quindi, la conferma dei suoi sentimenti. Però non gli bastava… voleva che gli dicesse, chiaro e tondo, che lo amava. Voleva sentirlo dalle sue labbra…
“Cavolo, Jim… Allora non era un incubo,” si lamentò Harvey. “Senti, fai quello che ti pare, ma non farmi assistere mai più a uno spettacolo del genere!”
“Scusa Harvey. Ti assicuro che non era voluto,” gli rispose, mortificato.
Non andava fiero di essere stato beccato da lui, ma era successo tutto all’improvviso…
“Ci credo bene! Ma insisto, fa’ che non succeda mai più,” disse, e Jim sorrise, sperando di non sembrare troppo divertito dalla situazione.
-FINE-
Spazio di quella che scrive
Mi diverto troppo a inserire nelle mie storie Harvey che li scopre. Troppo!
Comunque, sul mio profilo trovate altre fanfiction su questa ship, e altre ancora sono in arrivo. Credevo che il "rubinetto dell'ispirazione" si fosse chiuso ormai, e invece mi sono messa a scrivere una storia lunga e ambiziosa. Se riesco ad arrivare in fondo, la vedrete, ma fino ad allora non inizierò a pubblicarla. Però ho tanto altro già pronto, che va solo corretto... Quindi alla prossima!