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Autore: Cladzky    18/11/2024    1 recensioni
Un misogino inconsapevole è trasportato nel sonno in una terra favolistica dove la sua condotta verso il sesso femminile è esaminata da una società interamente composta da donne, sia storiche che letterarie. I risultati non saranno positivi e la rieducazione che riceverà non sarà piacevole ma darà i suoi frutti una volta sveglio.
Poema scritto in rima variabile.
Genere: Comico, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: Cross-over | Avvertimenti: Bondage, Gender Bender, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Poiesimachia ipnagogica'
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Questa storia parte da metà: si tratta della seconda parte di un poema che ho già cominciato a pubblicare su questo sito, intitolato "Una piccola commedia". Ridicolo, perché attualmente siede a più di trentamila parole in corso d'opera. Non avendo voglia di continuare a scrivere quella porzione ho deciso di continuare il seguito. Non serve che voi leggiate il resto per sapere di cosa tratto qui, è solo l'ennesimo viaggio sonnifero che un autore intraprende per conoscere i poeti passati e intrattenersi in piacevoli conversazioni nell'aldilà, ma tutto a un tratto viene rapito e condotto in un posto diverso, meno tombale e più allegro, meno che per lui. Una società di sole donne, vere e fittizie, che non esamineranno le sue competenze poetiche, ma la sua opinione del sesso femminile. Il racconto parte dunque da quando il nostro eroe viene sottratto al suo Virgilio...
 
***

Percossemi allora dov'è d'uopo a un monello

Dacché le stavo già steso sul grembo

"Cheta che te givo olà ov'è chiù bello"

 

Serafica dissemi com'ella fosse un nembo.

Il candido cavaliere trottò ancora un tratto,

Alfine, a un giardino ameno, il verde lembo

 

Dell’abisso infame, fermò il suo andar matto.

Era chiuso da un roseto e un’inferriata.

Due gendarme gridaro: “Fu un bel ratto!”

 

Adornavan vesti azzurre e fronte legata

E avean falcioni cinti, zagaglia a braccio,

La pelle scura e di Dahomey parlata.

 

Scuciron li portoni e dacch’è io saccio

Non vidi prato nel mondo citeriore

Ove la vespa con l’ape a laccio

 

Svolazzano amiche di fiore in fiore.

Zampillavan canali d’acqua e fumi densi

Da magmatiche sorgenti spandea vapore

 

Ove le ninfe giocano con i miei sensi.

Ovunque io scrutassi coi miei bulbi nericci

Vedea dame affannarsi in labori intensi:

 

Ci salutarno le carpentiere dai tralicci

D’un bel tempio a monopteresca pianta

Che l’architetto, quella Plautilla Bricci,

 

Al lavoro, col richiamo, disincanta

I loro vezzi pel mio bel cavaliere adonio.

Più avanti ancor, l’amazzone Atalanta

 

Conducea arieti di dorato conio

E con gli strali non temea alcuna bestia

Come mostrò col cinghiale calidonio.

 

In austera stalla smonta modestia

E giù mi trasse tenendo solleventi

Perché il lordo terren non mi molestia.

 

Rese  il cavallo e me all’attendenti

E istruì di strigliarci per l’udienza:

Poscia loro, conducettemi ben soventi

 

A una lattea vasca di caprina semenza:

Venni spogliato della mia vanitate

E intrai fra petali ed oli d’ogni essenza.

 

Mi mescolaron per bene e assicurate

Che fui ben pregno mi trassero in fora

Onde con spugne e spazzole lisciate

 

Terminaron di mondarmi tutta un’ora

La pelle con balsami, oli e bei profumi

Finché il giacinto non più s'inodora.

 

Poi il talco versaro su di me a fiumi

E lo sparsero con cura in ogni parte

Che ridettero dei lor gesti inopportuni

 

Quando passaro laddove è maschia l’arte.

Con cosmetici coprirno le mie rosse goti

Accesesi per l'apostasia di Marte

 

Nell’adottare i Venerei gusti e modi.

I capelli, pur corti, m’hanno legato

In una crocchia con dei laccetti sodi;

 

Un picciol chitone mi han fasciato

E una coroncina di spine per diadema

Che non pungea il meningesco lato

 

Ma sol l’orgoglio e superbia fan scema.

Allor salutarno la mia attual fortuna

“O apogeo del patriarcal sistema,

 

Porta il pane in tavola che si digiuna!”

E, così burlando, mi traggono assiso,

Imboccandomi com'un bimbo nella cuna

 

Di ambrosia colata in nettare inviso

Sì dolce ch'un alvear non ci compete.

“Oh, non ridevo tanto da dolermi il viso

 

Da quando Petrarca immergemmo nel Lete

Quel dì che s'invaghì della francese sposa”

Disse una e l'altre assentiron liete.

 

“Oh bel bambin, scricciolo, mia mimosa”

Vezzeggiava una con mellifluo verso

“Scriverai, al tuo ritorno, di ogni cosa?

 

O, conveniente, questo pezzo andrà perso?”

Allora mi apposero un argenteo collare

E su una biga di due indomite giumente,

 

Bianca baluginante e una nera di livore,

Issarono con me un'esperta auriga

Che parea quella del delfico scultore.

 

Iride mise gli inquieti mostri in riga

E a passo svelto andammo per la strada

Che passa per i campi di bronzea spiga

 

Onde si levaron dal mezzo de la biada

Le contadine tutte che con fischi e con cenni

Non gentil fato m'augurarono ch'io bada.

 

Alfine a un teatro all'aperto io venni

Onde fui scaricato in fronte gli spalti

Già gremiti da chi io allor ritenni

 

Più lo sfizio che il dover miseli alti.

 
   
 
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