Percossemi allora dov'è d'uopo a un monello
Dacché le stavo già steso sul grembo
"Cheta che te givo olà ov'è chiù bello"
Serafica dissemi com'ella fosse un nembo.
Il candido cavaliere trottò ancora un tratto,
Alfine, a un giardino ameno, il verde lembo
Dell’abisso infame, fermò il suo andar matto.
Era chiuso da un roseto e un’inferriata.
Due gendarme gridaro: “Fu un bel ratto!”
Adornavan vesti azzurre e fronte legata
E avean falcioni cinti, zagaglia a braccio,
La pelle scura e di Dahomey parlata.
Scuciron li portoni e dacch’è io saccio
Non vidi prato nel mondo citeriore
Ove la vespa con l’ape a laccio
Svolazzano amiche di fiore in fiore.
Zampillavan canali d’acqua e fumi densi
Da magmatiche sorgenti spandea vapore
Ove le ninfe giocano con i miei sensi.
Ovunque io scrutassi coi miei bulbi nericci
Vedea dame affannarsi in labori intensi:
Ci salutarno le carpentiere dai tralicci
D’un bel tempio a monopteresca pianta
Che l’architetto, quella Plautilla Bricci,
Al lavoro, col richiamo, disincanta
I loro vezzi pel mio bel cavaliere adonio.
Più avanti ancor, l’amazzone Atalanta
Conducea arieti di dorato conio
E con gli strali non temea alcuna bestia
Come mostrò col cinghiale calidonio.
In austera stalla smonta modestia
E giù mi trasse tenendo solleventi
Perché il lordo terren non mi molestia.
Rese il cavallo e me all’attendenti
E istruì di strigliarci per l’udienza:
Poscia loro, conducettemi ben soventi
A una lattea vasca di caprina semenza:
Venni spogliato della mia vanitate
E intrai fra petali ed oli d’ogni essenza.
Mi mescolaron per bene e assicurate
Che fui ben pregno mi trassero in fora
Onde con spugne e spazzole lisciate
Terminaron di mondarmi tutta un’ora
La pelle con balsami, oli e bei profumi
Finché il giacinto non più s'inodora.
Poi il talco versaro su di me a fiumi
E lo sparsero con cura in ogni parte
Che ridettero dei lor gesti inopportuni
Quando passaro laddove è maschia l’arte.
Con cosmetici coprirno le mie rosse goti
Accesesi per l'apostasia di Marte
Nell’adottare i Venerei gusti e modi.
I capelli, pur corti, m’hanno legato
In una crocchia con dei laccetti sodi;
Un picciol chitone mi han fasciato
E una coroncina di spine per diadema
Che non pungea il meningesco lato
Ma sol l’orgoglio e superbia fan scema.
Allor salutarno la mia attual fortuna
“O apogeo del patriarcal sistema,
Porta il pane in tavola che si digiuna!”
E, così burlando, mi traggono assiso,
Imboccandomi com'un bimbo nella cuna
Di ambrosia colata in nettare inviso
Sì dolce ch'un alvear non ci compete.
“Oh, non ridevo tanto da dolermi il viso
Da quando Petrarca immergemmo nel Lete
Quel dì che s'invaghì della francese sposa”
Disse una e l'altre assentiron liete.
“Oh bel bambin, scricciolo, mia mimosa”
Vezzeggiava una con mellifluo verso
“Scriverai, al tuo ritorno, di ogni cosa?
O, conveniente, questo pezzo andrà perso?”
Allora mi apposero un argenteo collare
E su una biga di due indomite giumente,
Bianca baluginante e una nera di livore,
Issarono con me un'esperta auriga
Che parea quella del delfico scultore.
Iride mise gli inquieti mostri in riga
E a passo svelto andammo per la strada
Che passa per i campi di bronzea spiga
Onde si levaron dal mezzo de la biada
Le contadine tutte che con fischi e con cenni
Non gentil fato m'augurarono ch'io bada.
Alfine a un teatro all'aperto io venni
Onde fui scaricato in fronte gli spalti
Già gremiti da chi io allor ritenni
Più lo sfizio che il dover miseli alti.