E fuvvi un giorno
che passò furiando, quel bieco
fantasma della guerra; allora udissi
un cozzar d’armi, un saettar di spade,
un tempestar di carri e di corsieri.
Un grido di trionfo … e un ululante
urlo... e colà ove fumò di sangue.
-1-
PELLEGRINO
5 agosto 1989 - sabato
L’altoparlante in fondo al corridoio, tramite una cinguettante voce femminile, annunciò: “Achtung, meine Damen und Herren. Die Landung wird in Kürze erwartet. Wir bitten Sie, Ihre Sicherheitsgurte anzulegen”.
Sobbalzai sul sedile e aprii nuovamente gli occhi. Dal finestrino alla mia sinistra vidi, giù in basso, una soffice coperta di nubi bianche che sembrava volesse celare l’infinita distesa di fabbriche e case popolari che costituivano le immense periferie e i sobborghi di Berlino.
L’annuncio venne ripetuto anche in inglese, e finalmente capii che saremmo arrivati a breve e che il personale di cabina invitava i passeggeri ad allacciarsi le cinture di sicurezza.
Richiusi gli occhi e, adagiandomi al poggiatesta del mio stretto sedile in finta pelle di seconda classe, mi godetti la danza meccanica che le varie componenti dell’aerorazzo stavano mettendo in moto per prepararsi all’atterraggio. Nonostante i miei studi mi avessero condotto alla carriera giornalistica, ero da sempre appassionato di ingegneria, e quell’aeromobile ne era un capolavoro, nonostante tutto. Era uno Junker-898 di classe Blitzvogel, 204 piedi di lunghezza per un’apertura alare di 90 e un peso al decollo di quasi 420.000 libbre.
A lato degli ipersostentatori delle ali, i quattro potenti retrorazzi presero vita in un modo così improvviso e rumoroso che il velivolo sussultò in maniera violenta e fece boccheggiare alcuni passeggeri, qualche fila davanti a me. Mi lasciai sfuggire un sorriso e riaprii gli occhi proprio mentre stavamo attraversando il mare di nubi.
Il pavimento vibrò sommessamente quando i carrelli si estesero dalla fusoliera e dopo qualche minuto l’aerorazzo toccò terra, con una grazia che non mi aspettai e che mi stupì.
Controllai l’ora sul mio Casio. Erano le 14:25, esattamente tre ore di viaggio.
Il mio volo Lufthansa era decollato dall’aeroporto Laguardia di New York in perfetto orario, e secondo il display informativo in cabina, aveva attraversato l’Atlantico ad una velocità di duemilanovecento chilometri orari a diciassettemila metri di quota, e ora stava per atterrare al Zentralflughafen Heinrich Himmler. Precisione e puntualità tedesca di prima categoria.
Nel mentre che l’aerorazzo procedeva per uscire dalla pista d’atterraggio e il segnale luminoso della cinture di sicurezza si spegneva, l’altoparlante parlò nuovamente. “Willkommen in Berlin, Welthauptstadt Germania. Lufthansa wünscht Ihnen einen angenehmen Aufenthalt”.
Non era la prima volta che nei miei trentadue (d’accordo, quasi trentatré) anni di vita mettevo piedi all’interno dei confini dell’Europa, ma era la prima volta nei territori dell’impero germanico, il Terzo Reich. Uno strano brivido mi corse lungo la schiena.
Lo Junker arrestò la sua corsa, allineandosi ad un’altra coppia di velivoli che fronteggiava l’immensa parete di vetro e acciaio del Terminal 2. Il sole del primo pomeriggio si rifletteva sulla livrea scarlatta degli apparecchi, creando curiosi giochi di luce come se provenissero dalla superficie lucente di un laghetto.
Le operazioni di sbarco durarono qualche minuto, e poco dopo afferrai la mia valigia di pelle consunta dalla cappelliera e rivolsi un debole e incerto “Auf wiedersehen” alle due hostess che sorvegliavano il portellone di prua. Le piccole spillette con la svastica alata della Lufthansa brillarono lucenti sulla divisa di entrambe, all’altezza del seno sinistro.
Scesi le scale retrattili dell’aereo, e in men che non si dica mi ritrovai a terra. Il clima era umido e afoso, e l’asfalto bollente dell’aeroporto non faceva altro che emanare ancora più caldo, come se mi trovassi in un forno di proporzioni gigantesche. Mi sentii soffocare, e affrettai il passo per raggiungere il Terminal 2, accodandomi agli altri passeggeri che erano sbarcati prima di me.
Appena varcata la soglia fui accolto da un’ondata di aria condizionata e da un odore di detersivo e solventi. L’interno del terminal era un tripudio di modernità e austerità, riflettendo l’estetica monumentale del Reich: vasti spazi aperti, pavimenti di marmo nero e soffitti vertiginosi con travi d’acciaio esposte. Le pareti erano ornate da giganteschi drappi con svastiche e aquile imperiali, e pannelli informativi digitali lampeggiavano incessantemente con orari di voli, informazioni meteo e avvisi di sicurezza.
Le vetrate panoramiche, alte fino al soffitto, offrivano una vista spettacolare della pista e dei velivoli in movimento, come un grande schermo cinematografico in tempo reale.
Lungo i corridoi, una serie di negozi duty-free esponevano merci di lusso sulla maggior parte dei quali, negli Stati Uniti, vigeva un embargo. Dall’abbigliamento ai gioielli passando per i gadget tecnologici, tutto con il marchio di qualità del Reich. Le librerie zeppe di clienti esponevano classici della letteratura tedesca e testi di propaganda, mentre chioschi di giornali erano carichi di pubblicazioni che celebravano il regime. Riuscii a leggere il titolo a caratteri cubitali che il Völikischer Beobachter, il quotidiano di punta dell’impero, riportava in prima pagina. “LA NAZIONE TRIONFANTE! QUARANTACINQUE ANNI DI GLORIA E SUPREMAZIA”.
Strinsi le labbra, e svoltai a sinistra per raggiungere l’uscita. A lato, ristoranti e caffetterie con ampie vetrate invitavano i viaggiatori a fermarsi per un pasto o un caffè, sotto lo sguardo onnipresente e attento del nuovo leader supremo del Reich, Ludwig Heusmann, e del compianto Führer.
In quei quadri dalla grandezza degna della Cappella Sistina a Roma, Adolf Hitler era ritratto in età avanzata. Sfondo scuro, capelli e baffi bianchi, sguardo serio ma non impettito, giacca e cravatta al posto della divisa militare. Il padre, il fratello, il nonno del Terzo Reich. Se fosse ancora vivo, avrebbe compiuto da poco cento anni.
I funerali del Führer erano ancora vivi nella mia memoria. Ricordavo ancora l’espressione distaccata ma quasi sollevata che mia madre sfoggiava in volto mentre osservava le immagini del feretro che la NBC trasmetteva in diretta. Furono l’evento televisivo più importante e grande della storia umana, perfino più dell’allunaggio con il quale i nazisti ci batterono nella corsa allo spazio nel ‘67.
Tre miliardi e mezzo di apparecchi, tutti simultaneamente collegati sulla piovosa e fredda Reichkanzleramt Platz di quel 29 ottobre 1982, in cui due milioni di persone rendevano omaggio all’uomo che aveva cambiato le sorti del XX secolo. Persino il vicepresidente Rockefeller e i sovrani della Britannia Nazista, re Carlo III e la regina Diana, avevano presenziato ai funerali.
In quell’anno avevo appena cominciato a lavorare come giornalista per il New York Times, e subito dopo i funerali mi ero occupato di raccogliere le reazioni dei newyorkesi alla morte del Führer da inserire nell’articolo di apertura del giorno dopo. Fu una giornata difficile.
Continuai a camminare e raggiunsi la hall principale. Il suono dei miei passi si mescolava al brusio disciplinato delle conversazioni e agli annunci degli altoparlanti, che erano spesso interrotti da messaggi propagandistici per le imminenti celebrazioni. Colonne di marmo bianco si ergevano come sentinelle, intervallate da sculture neoclassiche e piante ornamentali. I lunghi nastri trasportatori erano colmi valigie di ogni tipo indirizzate al ritiro bagagli, mentre passeggeri frettolosi, molti in uniformi militari o abbigliamento formale, trascinavano trolley e zaini, diretti verso le biglietterie o le uscite.
Su di un lato una elegante lounge riservata ai passeggeri di prima classe e ai funzionari del partito offriva poltrone in pelle e un buffet raffinato e pregno di ogni prodotto culinario dell’impero e della Confederazione Europea.
Alzai lo sguardo e seguì la segnaletica chiara e ben visibile che indicava la direzione per il controllo passaporti. Al centro della sala un’enorme aquila di bronzo sorvegliava l’intera operazione, le sue ali aperte in un gesto di possente dominio.
I passeggeri venivano chiamati uno alla volta verso gli sportelli dove il personale dell’aeroporto, vestito in uniformi impeccabili, controllava meticolosamente tutti i documenti. Ogni passaporto veniva scannerizzato, e un computer dallo schermo nero con le scritte verdi confrontava i dati biometrici con quelli nei registri centrali. Un sottile bip segnalava l’avvenuto controllo e, solo dopo un breve ma scrupoloso esame, veniva concesso il permesso di procedere. La cosa che mi colpì era che il personale sfoggiava sempre un sorriso di circostanza, come se fossero cassieri ad un Walmart alla vigilia del Giorno del Ringraziamento.
Una fila ordinata di passeggeri attendeva pazientemente il proprio turno, osservata con discrezione da agenti di sicurezza in uniforme nera, con l’aquila e la svastica al braccio. Mi accodai a quella in fronte allo sportello 2-A.
La fila procedette abbastanza velocemente, e sbrigata la coppia di anziani vacanzieri di ritorno davanti a me, un agente della Schupo (abbreviativo di Schutzpolizei, la polizia di più basso ordine) mi esortò ad avanzare. Estrassi il passaporto dalla mia valigia e lo allungai alla donna che sedeva dietro il vetro, che lo prese senza troppe cerimonie ma senza mai spegnere il sorriso. I capelli biondi erano raccolti in uno chignon e nascosti sotto il berretto d’ordinanza azzurro, in tono con il colore degli occhi.
“Ach, ein Amerikaner”. Sembrava piacevolmente sorpresa, come se avesse infine scorto l’animale che voleva vedere allo zoo. “Guten Tag, Herr Ridley”, mi disse mentre appoggiava il passaporto sulla lastra trasparente dello scanner. “Martin Ridley, nato il 18 settembre 1956 a New York City, Stati Uniti d’America. Dico bene?” Mi parlò in inglese, in una dizione praticamente perfetta se non per qualche parola che cascava nel tranello dell’accento.
Annuii, per una qualche ragione sentendomi a disagio. “Esatto, sono io”.
La donna proseguì, togliendo il passaporto dallo scanner per poter apporvici il timbro. Un’aquila che tra gli artigli stringeva una svastica adornata da una corona d’alloro.
“Noto che è la sua prima volta nel Reich. Ѐ qui in visita di piacere o per lavoro?”
“Lavoro”, mi affrettai a dire. “Sono un giornalista del New York Times. Faccio parte della stampa internazionale per raccontare le celebrazioni del Tag des Sieges”.
Il Giorno della Vittoria. Il giorno in cui la Germania aveva annientato l’Unione Sovietica e si era confermata come la potenza vincitrice assieme agli Stati Uniti.
“Sono ospite dell’ambasciatore americano a Berlino, George H. W. Bush”.
La donna mi sorrise senza simpatia e mi restituì il passaporto. “Molto bene, Herr Ridley. Le auguro una buona permanenza nel Reich”.
“Grazie mille”.
“Heil Hitler”.
“Sì… Heil Hitler”.
L’agente della Schupo mi fece gesto di allontanarmi, e così mi ritrovai nuovamente tra gli immensi corridoi dell’aeroporto.
L’invito che avevo ricevuto quattro giorni prima per conto di Bush, oltre ad un biglietto aereo di andata e ritorno, mi assicurava anche che avrei avuto un trasferimento dall’aeroporto alla capitale offerto dall’ambasciata. Raggiunsi quindi la sala che conduceva all’uscita, e mi misi alla ricerca del mio autista.
La sala era affollata di viaggiatori frettolosi, ognuno intento a raggiungere la propria destinazione. Guardai intorno, cercando di individuare qualcuno che potesse essere lì per me. Dopo qualche momento, notai un uomo alto e distinto che teneva un cartello con il mio nome. Indossava un completo sartoriale scuro, color antracite.
Mi diressi verso di lui, e appena mi vide, fece un passo avanti con un sorriso professionale. Era un uomo sulla cinquantina, con il viso rasato e qualche vecchia cicatrice lasciata dall’acne. Indossava un paio d’occhiali da vista stondati e dalle lenti grosse, e attorno a lui aleggiava l’odore delle sigarette.
“Benvenuto, signor Ridley”, disse con un leggero accento tedesco. “Sono il suo autista, mi chiamo Joseph Spitzer. La prego di seguirmi”.
Gli strinsi la mano e lo seguii fuori dalla sala. Attraversammo l’atrio principale e uscimmo nel parcheggio coperto riservato ai veicoli diplomatici. Una Volkswagen nera lucida ci attendeva, con il logo dell’ambasciata americana ben visibile sulla fiancata. Spitzer mi aprì la portiera posteriore e mi accomodai all’interno, godendomi il comfort dell’auto di rappresentanza. Partimmo, e dopo aver superato poche curve e aver pagato 8 marchi al totem del parcheggio, la Volkswagen si infilò nel traffico del primo pomeriggio che congestionava quella che mi apparve come una delle famose Autobahn tedesche.
Il sole era ancora alto nel cielo, sebbene qualche nuvola ogni tanto passasse a coprirlo. Nonostante ciò, il caldo continuava ad essere opprimente come un tacco premuto sul collo, e se guardavo dritto attraverso il parabrezza riuscivo a scorgere l’illusione ottica del miraggio inferiore che sembrava immergere le vetture davanti a noi in immense pozzanghere inesistenti.
Durante il tragitto verso la capitale, osservai il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino leggermente oscurato. Appena lasciammo l’aeroporto, mi resi conto che le periferie di Berlino non erano come me le aspettavo.
Non sapevo bene che aspettarmi, ad essere sinceri. In America, il Reich e in particolare Berlino, venivano dipinti come una forma deviata e potente di un antico impero greco o romano. Soldati in uniforme nera e svastica al braccio che passeggiavano in mezzo a colonne doriche ed enormi grattacieli di marmo e granito.
Ingenuamente, avevo dato per scontato che tutto l’impero germanico fosse così, una versione minuziosamente brutale dell’Olimpo.
Il paesaggio sul quale si posarono i miei occhi, invece, non poteva che essere più diverso.
L’Autobahn era a tratti dissestata, con buche e crepe mal sistemate che rendevano il viaggio scomodo. Ai lati della strada, oltre gli sconfinati campi coltivati con bieta e barbabietole pronte per essere raccolte, si ergevano edifici fatiscenti con facciate scrostate e finestre rotte. Enormi blocchi di case popolari come quelli che avevo visto dall’aerorazzo si allineavano in un panorama desolante. La totale assenza di monti o colline faceva sì che svettassero incontrastati oltre le colture.
Su di un cavalcavia, attraversammo un paese di cui ignorai il nome. Il contrasto con la modernità dell'aeroporto era sorprendente e spiazzante. Gli spazi verdi erano trascurati, con erba alta e rifiuti di ogni genere sparsi ovunque. Non c’erano persone in giro, e le finestre di molte case avevano i battenti chiusi. L’unica forma di vita erano gli enormi stendardi che preannunciavano i festeggiamenti dell’indomani.
Mi chiedevo come fosse possibile che una città tanto decantata a suon di propaganda avesse tali aree così malmesse, ma poi mi resi conto che nemmeno la città più grande del mondo poteva essere perfetta in tutto, a discapito di quanto il partito dicesse. A quanto pare i tedeschi non sono così precisi ed ordinati come gli piace definirsi, mi ritrovai a pensare.
Spitzer mi guardò velocemente attraverso lo specchietto centrale e notò la mia espressione perplessa. Cambiò marcia e spiegò con una certa amarezza: “Sono anni che le periferie non ricevono molta attenzione. Il governo preferisce concentrare le risorse nel centro della città, dove la rappresentanza è più importante”.
Annuii.
Proseguimmo il nostro viaggio in silenzio. Le aree decadenti e malandate continuarono a scorrermi davanti agli occhi come un film misconosciuto, e io non potei smettere di riflettere su come potesse esistere un divario così marcato all'interno della stessa città. Neanche tra il Bronx e Manhattan c’erano tali enormi differenze.
Sorpassammo un pullman bavarese colmo di turisti giunti in città per festeggiare il Tag des Sieges, e subito dopo cominciarono ad apparire anche i primi lampioni e cartelli che segnalavano le varie uscite dall’Autobahn. Intervallati uno sì e uno no sui lampioni, pendevano enormi stendardi rossi, del tutto identici a quelli che adornavano gli edifici del paesino di prima. Riuscii a vederli meglio e da più vicino, e notai che sfoggiavano la cifra 45 incoronata da una svastica dorata. Si libravano nel vuoto, mossi ad ogni spostamento d’aria prodotto dalle varie autovetture.
Spitzer inserì la freccia destra e si immise sulla rampa che conduceva verso i caselli autostradali. Qui vi erano code chilometriche, immensi serpenti metallici composti da centinaia di automobili che bollivano sotto un sole poco clemente. La nostra auto, per fortuna, essendo un veicolo diplomatico, venne fatta transitare in un casello riservato, l’ultimo sulla sinistra.
Non ero per nulla abituato a quel tipo di trattamento, così privilegiato. Mi sentii non poco in colpa quando superammo le automobili ferme e riuscii a scorgere il viso indispettito di qualche Herr o Fräulein che squadrava la nostra vettura nera e lucida che recava il logo dell’ambasciata degli Stati Uniti. Eravamo pur sempre le due più grandi nazioni sulla faccia della Terra, in uno stato di guerra fredda da quasi cinquant’anni. Mi sarei indispettito anche io se fosse capitato il contrario.
Pagammo l’autostrada (12 marchi per un viaggio di appena una ventina di chilometri), e Spitzer ripartì, inserendosi nel traffico della capitale del Reich alla vigilia del giorno più importante per l’impero.
Adesso sì che vedevo la Berlino che avevo imparato a riconoscere sui libri di scuola e che ci veniva propinata quasi quotidianamente nelle inchieste della NBC.
Le strade si fecero improvvisamente ampie e ben asfaltate, con marciapiedi curati e aiuole rigogliose. Gli edifici divennero imponenti e maestosi, con facciate di marmo e colonne che ricordavano l’architettura della Roma Imperiale. Fontane monumentali zampillavano in grandi piazze, adornate con statue eroicamente ariane e aquile di bronzo.
Il traffico era ordinato e controllato, con auto di lusso e mezzi pubblici moderni che si muovevano in modo efficiente.
Dopo aver attraversato diversi incroci e aver superato la rotonda a otto corsie che abbracciava la Siegessaule, la Colonna monumentale adornata in cima dalla bronzea statua alata della Vittoria che brillava alla luce, svoltammo nell’opulente e maestoso Adolf Hitler Allee, uno dei viali più famosi e grandi del mondo. In confronto gli Champs Elysées, che vidi così tante volte durante il mio soggiorno a Parigi di due anni addietro, mi apparivano ora come una straducola di provincia.
A lato del viale si ergevano le cancellate che costituivano i confini del Tiergarten, il parco pubblico più vasto dell’Europa continentale. Alberi secolari svettavano per decine di metri, costituendo una lussureggiante metropoli verde in cui i berlinesi andavano a cercar rifugio dalla calura estiva.
Innanzi a noi vi era Reichkanzleramt Platz, pregna di palchi e tribune per le celebrazioni dell’indomani e dietro di essi, immensa, bianca e lucente come una montagna d’alabastro, svettava incontrastata la cupola della Volkshalle. Il fiore all’occhiello di Albert Speer, il suo David. Sembrava volesse toccare il cielo, un colosso architettonico che superava ogni immaginazione.
Rivestita di rame brunito e marmo, brillava nella luce lattiginosa del pomeriggio, imponendosi in un aspetto divino.
Alzai lo sguardo sporgendomi quasi a toccare con la fronte il vetro del finestrino, e seguii le curve della cupola che si innalzavano fino a raggiungere l’apice, dove un’aquila dorata con le ali spiegate sembrava guardare con aria di sfida l'intera metropoli.
Le colonne titaniche che sostenevano la cupola erano di granito bianco, intarsiate con intricate decorazioni e bassorilievi che celebravano la supremazia e le vittorie del Reich. Ogni colonna era tanto massiccia da far sembrare minuscolo qualsiasi essere umano che vi passasse accanto.
La scalinata monumentale che conduceva all'ingresso principale era costellata di statue eroiche raffiguranti figure ariane idealizzate: guerrieri e scienziati, simboli della potenza e dell'intelletto della nazione. Le bandiere scarlatte con la svastica sventolavano fieramente su alti pennoni, incorniciando l'ingresso degno del più meraviglioso tempio.
Rimasi incantato dalla brutale magnificenza della Volkshalle. Niente che avessi mai visto in vita mia era equiparabile lontanamente a quella struttura. Non era solo un edificio; era un manifesto di potere e dominio, un simbolo della forza inarrestabile del regime nazista. Ogni dettaglio architettonico era studiato per incutere rispetto e soggezione, per ricordare a tutti coloro che lo guardavano la grandezza del Terzo Reich.
Spitzer interruppe il silenzio per un momento, quasi leggendo i miei pensieri. “La Volkshalle è il cuore pulsante della Neu Berlin, signore”, disse, con nella voce quello che per un secondo mi parve una punta di orgoglio. “È qui che il Führer teneva i suoi discorsi più importanti, e dove ora li tiene il suo successore, Heussmann”. Tornò con lo sguardo fisso oltre il parabrezza. “È tra queste colonne che il destino dell'impero viene deciso”.
Annuii, ancora affascinato dalla visione della struttura. Era un’esperienza surreale, come se fossi stato trasportato in un’epoca diversa, in un mondo dove la storia aveva preso una piega completamente differente.
Sui marciapiedi, le persone che camminavano per le strade del centro erano ben vestite, riflesse nelle vetrine scintillanti delle boutique e dei ristoranti eleganti. Parchi ben curati offrivano oasi di verde tra i palazzi, e i caffè all'aperto erano animati da conversazioni vivaci e musica dal vivo.
Spitzer guidava con sicurezza, mantenendo un silenzio rispettoso che mi permetteva di assorbire l’estraniante spettacolo che mi circondava. La sensazione di trovarmi in un luogo di potere e magnificenza era palpabile. Ogni dettaglio, dalla pulizia delle strade alle insegne luminose, sembrava studiato per impressionare e soggiogare.
Dopo aver superato il Reichstag ed esserci lasciati la Porta di Brandeburgo sulla sinistra e aver imboccato il viale Unter den Linden (Spitzer ci tenne a specificarmi il nome), arrivammo davanti all'ambasciata americana, un edificio austero ma elegante, protetto da alte cancellate e guardie armate. Il vessillo a stelle e strisce che sventolava nella brezza insulsa del pomeriggio mi rincuorò.
Spitzer fermò l'auto davanti all’entrata principale e scese per aprirmi la portiera. “Siamo arrivati, signor Ridley”, annunciò con un tono formale. “Lasci pure i bagagli nella vettura, le verranno direttamente recapitati nella sua stanza al Konigin Gunhilda Hotel. Le auguro una buona permanenza e un proficuo incontro”.
Lo ringraziai, afferrai quindi solo la mia valigetta ventiquattrore e mi diressi verso l'ingresso dell'ambasciata.