Quest'opera è frutto dell'ingegno e dell'immaginazione della sottoscritta.
Nasce da una precedente opera che nel tempo è stata rivista e revisionata.
I fatti narrati, così come i personaggi inseriti, anche quando aderenti a cariche o situazioni verosimili, sono interamente inventati.
Non ho intenzione di offendere la sensibilità di nessuno. Opero nel rispetto della sensibilità, ma se qualcosa dovesse urtare qualcuno, sono aperta ad un confronto assolutamente sereno e pacifico.
La storia è coperta da copyright. Violarlo ha conseguenze legali.
* * *
The soul of the Rose - Parte Prima
John William Waterhouse, The soul of the rose, 1908
Quando Paride Langley era stato assunto come medico al reparto di Chirurgia, aveva immaginato per sé stesso un ingresso in corsia in camice verde al ritmo di Rock ‘n roll di Gary Glitter. Pur mentalmente, sapeva che quella sarebbe stata la colonna sonora del suo primo giorno nelle corsie asettiche del St. Thomas Hospital di Londra. La scena si arricchiva di un passo spavaldo, degli sguardi delle infermiere su di sé, di pazienti trepidanti di essere visitate o operate da lui. E per qualche strana ragione, quella scena la immaginava al rallenty.
Non sapeva allora che quel suo primo giorno sarebbe stato invece il peggiore della sua carriera, che il passo sicuro sarebbe stato sostituito da una corsa a rotta di collo perché svegliatosi terribilmente in ritardo, con i postumi di una mezza sbornia addosso dovuta al fatto di essere stato mollato senza spiegazioni dalla sua ragazza la sera prima, gli indumenti (no, non la divisa ospedaliera, ma i suoi indumenti) in disordine e spiegazzati perché aveva dimenticato che quel giorno aveva il suo primo turno di lavoro e si era preparato in cinque minuti di orologio senza far caso alla camicia indossata al contrario.
Al suo arrivo, suggellato da una derapata stridente delle scarpe da tennis, la caposala lo aveva guardato con un terribile disappunto e gli avrebbe scaricato un’invettiva di benvenuto contro se solo Langley non si fosse scontrato con il carrello dei prelievi sbucato dall’angolo del corridoio, facendolo inciampare malamente e provocando la caduta e la rottura in mille pezzi delle fiale dei prelievi, di alcune bocce di soluzione salina e di tutto un insieme disordinato di tamponi, siringhe, scodelle di acciaio sterile e materiali di vario genere che imbrattarono senza perdono il pavimento appena lucidato del reparto.
E no, Gary Glitter non lo accompagnò. Nel silenzio che calò in corsia, risuonò invece Buttercup di Jack Stauber dal cellulare di una ragazzina in attesa rimasta a bocca aperta, che ebbe poi la prontezza di scattare una foto.
Chiunque avrebbe provato vergogna di fronte al sogno fallito di un ingresso trionfale al ritmo di una delle sue canzoni preferite. Immancabilmente avrebbe prodotto un’associazione fastidiosa tra l’immaginazione e la realtà. Paride invece aveva scelto di continuare ad avere fiducia nel caro Glitter e quel giorno, due anni dopo la figuraccia, aveva deciso che avrebbe finito il suo turno sulle note del brano che Joaquin Phoenix danza in Joker.
"Gli ultimi due punti e abbiamo fatto, Mrs. Clementine!" disse di buon umore all’anziana signora, senza staccare gli occhi dal taglio che stava ricucendo.
"Ma come? Ha già finito?" esclamò quella sorpresa, sollevando il capo per guardare.
Paride la riprese con fermezza, interrompendo all’istante il lavoro "Oh no, signora, non guardi finchè non ho finito, stia giù."
Quella obbedì immediatamente "Mi spiace, dottore, è che lei ha una mano così leggera … sarebbe stato un buon pianista, sa?"
Paride sorrise "E invece sono un ottimo sarto" diede l’ultimo punto e posò da parte gli strumenti "prossima volta però mettiamo una zip, che ne dice? Così se questo bozzetto rispunta abbiamo l’apertura facile!"
Mrs. Clementine rise di gusto, mentre Paride procedeva alla medicazione e alla fasciatura "Oh dottor Langley, ce ne sono pochi di uomini come lei! Mi dica ancora come mai non è fidanzato!"
Paride aiutò la corpulenta donna a sollevarsi seduta e sfoderò uno dei suoi sorrisi più maliziosi "Ma perché mi piace sedurre belle donne come lei, Mrs. Clementine …"
Quando la vide arrossire tutta gli venne da ridere. Avendola ridotta ad un momentaneo, quanto insolito (visto che in genere era terribilmente loquace) silenzio, Paride parlò per entrambi.
"Mrs. Clementine, è stata bravissima. Tuttavia, nei prossimi giorni la prego di avere cura e affetto per il mio lavoro: da domani pulisca la ferita mattino e sera e prenda l’antibiotico che le ho prescritto per cinque giorni. Ci rivediamo tra una settimana!"
Mrs. Clementine riuscì a inventarsi qualcosa come tre scuse diverse pur di attardarsi ancora un po’ con il suo medico preferito. E Langley ebbe pazienza, perché le sue pazienti, tutte donne over 50, lo trovavano pieno di fascino. Non poche volte era capitato che cercassero di sistemarlo con le proprie nipoti, che spesso, c’era da dire, non erano neppure male. Ma in cuor suo Langley non si sentiva pronto a intraprendere una nuova relazione seria, duratura e piena di romanticismo come quella sognata dalle signore di cui sopra. Non si sentiva neanche affascinante. Cercava invece di essere simpatico (era così che preferiva dichiararsi) per tenerle buone durante le visite e i piccoli interventi e la cosa finiva lì.
Con la condiscendenza di sempre ripeté due, tre, quattro volte le prescrizioni mediche. Poi arrivò il momento in cui Mrs. Clementine non ebbe più scuse e Paride la congedò.
Controllò l’orario e quando vide che alla fine del turno mancavano dieci minuti, sospirò lungamente, andando a poggiarsi al bordo della scrivania con le terga. Ingenuamente stilò un programmino per la serata: una doccia calda, il cibo a Garlic, il suo gatto, una bistecca davanti alla tv e poi a letto. Niente di realmente entusiasmante, ma di questo aveva bisogno dopo un turno pomeridiano. Se non raggiungeva il letto entro un’ora, sarebbe crollato seduta stante. Non immaginava invece che quella notte il letto non lo avrebbe toccato affatto.
Mezz’ora dopo era sulla via per uscire dal reparto. Aveva imbracciato il suo borsone, indossato i propri indumenti e con Gary Glitter già in testa allungò la mano verso la porta del corridoio.
“Dottor Langley!”
La voce della caposala. Da che mondo è mondo, gli portava sempre brutte notizie o cose da fare.
Gary Glitter disse che sarebbe ripassato dopo.
“Miss Davys.”
La caposala che odiava essere chiamata per nome e obbligava anche i medici anziani ad usare titolo e cognome, controllò brevemente un fascicolo e appose una firma, poi lo guardò, sorridendo soavemente come se stesse per annunciargli l’arrivo di una torta al cioccolato triplo strato. “Il collega della notte è in ritardo, dottor Langley.”
“Io però ho finito il turno, Miss Davys.”
Con lo stesso sorriso di prima, la caposala scosse il capo – Però noi non vogliamo lasciare il reparto sguarnito di un chirurgo, giusto, dottor Langley?
“Ci sono la dottoressa Bithmore e gli specializzandi, Miss Davys …”
“Ma non sono lei, dottor Langley” gli rispose con immutata ovvietà.
Langley sospirò profondamente. Quando iniziava a pungerlo nell’orgoglio la detestava.
“Il dottor Barrow ha avuto un contrattempo con il figlio neonato: ha comunicato che avrebbe sicuramente ritardato e cosa c’è di male nel tamponare l’assenza di un collega, se è momentanea?”
Non ebbe neppure il tempo di risponderle. Aveva appena abbassato le spalle quando le porte dell’ascensore si aprirono e furono investiti dalla frenesia di un gruppo di medici, paramedici e infermieri ai lati di una barella in movimento. Langley evitò con uno scatto che lo investissero mentre una voce si levò da quella baraonda: “Dobbiamo portarla in sala operatoria!”. Quando sbirciò oltre i medici, un dettaglio lo colpì con la stessa forza di un dardo al cuore. Ed effettivamente al cuore si sentì fare breccia. Ciocche di capelli ondulate, rosse come il rosso d’Irlanda, pendevano dalla barella bianca macchiata di sangue, ciondolando con quel loro colore vivace sullo sfondo bianco e asettico dell’ospedale. E poi vide una mano, sottile e bianca, voluttuosa e dolce come quella della dama dipinta da John William Waterhouse in The soul of the rose, sporgere dal lato destro della barella con la grazia di una fresia che guarda il sole.
Un sogno preraffaellita, una visione di fine ottocento.
Gli erano bastate quelle ciocche e quella mano bianca e priva di ogni male per decidere che quella ragazza fosse la creatura più bella del mondo. L’essenza di una rosa fresca e in fiore, l’essenza e l’anima di un bocciolo soltanto suo.
All’improvviso qualcosa lo urtò alla spalla, gli urlò contro e lo spintonò. Langley si riscosse e riconobbe gli occhi sgranati della caposala “Dottor Langley! O-oh! Ci siamo?” gli esclamò contro, sventolandogli una mano davanti alla faccia “La aspettano in sala operatoria! È un’urgenza!”
Langley guardò avanti: la barella sparì oltre la porta del reparto con tutti i paramedici.
Si scambiò appena un’occhiata con la caposala, poi corse a cambiarsi.
Cinque minuti dopo cominciava uno degli interventi più complicati della sua carriera.
“Langley”.
Era Arthur, il primario di terapia intensiva, nonché suo migliore amico dai tempi dell’università. Non si toglievano che due anni, ma con quelle screziature grigie sui capelli scuri, la barba e il camice bianco che accresceva la sua autorevolezza, sembrava averne qualcuno di più. Gli poggiò una mano sulla spalla mentre si sedeva accanto a lui.
“È una mia impressione o sei stanco?” scherzò, battendo piano la mano.
Langley rialzò il capo. Aveva operato per due ore di fila, durante le quali i livelli di adrenalina lo avevano tenuto sveglio come un grillo. Una volta che la paziente era stata spostata di reparto per la degenza e lo stato di emergenza si era spento, la stanchezza gli era ripiombata addosso di colpo. Due occhiaie bluastre facevano bella mostra di sé sotto due bulbi oculari striati di rosso.
“Sì, siamo decisamente stanchi” annuì quello, facendosi una risata. Battè ancora una volta la mano sulla sua spalla, poi si alzò “Forza, ora te ne vai a casa, ti fai una dormita e domani ci ripensiamo”.
Langley si passò la mano sulla faccia “Arthur, per cortesia, smettila…”
“Dico sul serio, Langley. C’è Barrow, vai tranquillo a casa…”
“Non posso, Arthur. Devo prendermi cura di lei”.
Il primario si mise le mani nelle tasche del camice, un sospetto che cominciava a farsi strada. Sospirò, guardò il corridoio del reparto e tornò a sedersi accanto all’amico. “Per caso la conosci?”
Langley scosse il capo “No, ma quando lo vista è stato come se l’avessi già incontrata da qualche parte”.
“Beh, può capitare”.
Come si poteva spiegare la sensazione che aveva provato? Aveva sentito un’intima connessione con quel corpo. Operarla gli era sembrata una profanazione, non avrebbe voluto intervenire, non avrebbe voluto neppure assistere. Un tempio sacro profanato da mani insidiose. E quando l’aveva guardata in viso, seppur gli occhi di lei fossero chiusi, aveva saputo il colore dei suoi occhi. John William Waterhouse quell’azzurro lo aveva utilizzato per dipingere l’abito della dama di The soul of the rose. Ma come aveva fatto a immaginarlo?
Intuendo il suo turbamento, Arthur tornò a sedersi accanto a lui. “Ascolta Langley, quella ragazza ha tentato il suicidio. Ed è bella. È facile essere colpiti dalle due cose. L’umanità si commuove sempre, da che mondo è mondo, di fronte alla morte (o al tentato suicidio) di una bella fanciulla, perché dà tanta importanza alla bellezza da non vederci un senso. È come se la bellezza potesse ripagare una persona da tutti i dolori che le dà la vita. E invece no, questa ragazza ce lo ha mostrato. Evidentemente le cose in università non le vanno bene, magari ha pure finto di doversi laureare, e quando la situazione è diventata troppo stretta…” fece spallucce. “Tu non hai colpa se quella ragazza sta male o se in futuro si porterà gli strascichi di quello che ha fatto. Sei il chirurgo che l’ha operata insieme all’ortopedico, le hai salvato la vita. Pensa a questo, razionalizza. O lascia che di lei si occupi un altro chirurgo, se ti senti troppo coinvolto. Hai capito?”
“Frattura scomposta dell’anca, di una clavicola e di due costole, un polmone perforato e ferite d’ogni genere su tutto il corpo” Arthur lo ascoltava con dei cenni d’assenso, pazientemente “Sarebbe in obitorio”.
“Bravo. E invece l’hai salvata”.
Langley annuì stancamente, ma, nonostante quello sforzo razionale, non era ancora convinto.
“Adesso sei stanco, Langley. Chiama un taxi e torna a casa, stasera non guidare. Hai bisogno di riposare se vuoi prenderti cura di lei”.
A casa ci tornò, ma non andò come previsto. Avrebbe voluto essere come uno di quei personaggi letterari che, malgrado le notti insonni, rimangono freschi come pesche e conservano le energie per nuove avventure; o a cui, tutt’al più, basta un caffè amaro per riattivarsi come dopo una lunga dormita.
Continuava ad essere stanco morto, ma non riusciva a dormire. Tornato a casa, era andato alla sua libreria, giusto dopo aver mollato il suo borsone per terra sull’uscio, e aveva preso il suo vecchio volume sui Preraffaelliti. I dipinti si susseguivano in un racconto coinvolgente, che sin da bambino lo aveva appassionato per i colori vivaci dei ritratti, dei costumi medievali, poi dei miti raffigurati, narrati a pie’ di pagina con uno stile semplice e accattivante. Sua madre a volte inventava storie sui quadri. Ricche avventure si spiegavano intorno ai quadri più complessi, tradimenti, scorrerie e conflitti che si risolvevano in panorami spesso armoniosi e pieni di colori. I ritratti femminili si connotavano per storie più malinconiche: talvolta sua madre gli diceva la verità, raccontando parte delle storie d’amore tra i pittori e le modelle, ma più spesso inventando miti simili a quello di Teseo e Arianna o di Medea e Giasone. La figura di Medea lo affascinava con quel suo alone stregonesco e terribile, ma ogni racconto era diverso. Sua madre non narrava mai la stessa storia e questo era il bello. Di fatto la diversità di racconti a insegnargli che lo stesso elemento poteva essere talvolta buono, altre imperdonabile.
La storia del dipinto di Waterhouse sua madre gliel’aveva pressappoco riassunta in questo modo: una donna alla ricerca dell’amato imprigionato, si era inoltrata oltre le alte siepi di un giardino ricco di fiori profumati donati dalla Primavera. La guidavano tra i sentieri le grida del suo amato, che la chiamava da lontano. Ginevre, resa disperata e cieca dall’amore, si accorse troppo tardi che i richiami la stavano attirando verso il centro di quello che scoprì essere un labirinto unicursale, da cui sarebbe uscita solo dopo essere arrivata al centro. Lì non la attendeva il suo amato, come aveva creduto, ma la strega dei boschi senza sole, che la inghiottì in una radura buia, pregna di sofferenza, ove la ragazza tanto pianse da addormentarsi. In sogno però venne a farle visita una dea tanto bianca da sembrare scolpita sulla pietra e con le vesti decorate da fiori di bosco immortali. Diffondeva l’Amore e le porgeva un bocciolo di rosa profumato. Questo magicamente la salvava dall’incantesimo e la fanciulla, finalmente oltrepassato il proprio limite interiore, ritrovava il suo amato e insieme vivevano felici e contenti.
Come le altre storie, anche questa presentava sempre qualche differenza, ma la metafora del viaggio interiore e del potere salvifico della rosa lo avevano sempre affascinato. Perdersi prima di ritrovare sé stessi e il bello della vita.
Quando aveva visto quella ragazza in ospedale, la storia gli era tornata vividamente alla memoria. Come la dea dell’amore, avrebbe voluto offrirle una rosa per risvegliarla dal suo labirinto e riportarla alla luce.
Per quanto piccola, questa consapevolezza gli diede sollievo. Riuscì quindi per un momento a mettere da parte il libro sui preraffaelliti e a ristorarsi con una doccia calda. Ma quando si mise a letto, non ci fu verso di addormentarsi. Fianco sinistro, supino, fianco sinistro con braccio sotto cuscino e gambe piegate, fianco destro, fianco destro braccio disteso, supino, stretching schiena, fianco sinistro. Nulla.
Si ritrovò a fissare il tetto della stanza fiocamente illuminata, gli occhi rossi e sbarrati, il cervello in parapiglia. Decise di alzarsi e prepararsi una camomilla calda. Tre minuti di infusione, non oltre. Gettò il filtro e stava per andare a sedersi a letto quando gli venne un’idea. Mentre la camomilla agiva, lui avrebbe fatto un paio di ricerche.
La ragazza si chiamava Anya Bacott. Ok, su questo non ci pioveva. Scrisse Anya Bacott sulla barra di ricerca Google.
“Dove l’hanno trovata…” si fermò a riflettere, sospirando. Il paramedico gliel’aveva detto. “King’s College! K…i…n…g’s …College…”
La lista dei risultati fu esigua, molti rimandavano più che altro all’ateneo londinese, ma approfondendone uno, dove il nome Bacott sembrava contenuto trovò un articolo: Il collezionismo d’arte e antichità tra XVIII e XIX secolo: Giornata di Studi presso l’Aula Magna dell’Università giorno 4 Maggio. Quando scorse la pagina con il mouse, una chioma rossa preraffaellita in foto attirò subito la sua attenzione: la vide seduta in abiti formali di fronte a un sottile microfono nero, immortalata nell’atto di spiegare qualcosa alla platea. L’espressione attenta del viso e l’entusiasmo che le illuminava lo sguardo la rendevano ancora più bella.
Sir Benedict Andrew Stone XII duca di Devonshire, Aaron Duke Drebber, Anya Bacott “La collezione di arte e antichità nel XIX secolo presso la residenza di Chatsworth House del Derbyshire”.
Guardando la foto, ebbe un istintivo moto di gelosia. Accanto a lei erano seduti un uomo anziano, sicuramente il duca, visto che portava al collo un’elegante ascot di sera, e un uomo molto più giovane, sulla trentina, che la guardava con un sorrisino compiaciuto. Aaron Duke Drebber, non poteva che essere lui.
A parte questo spiacevole dettaglio, comunque scoprire che Anya era una studente di riguardo dell’università gli fece piacere. Al tempo stesso però non capiva: perché una studente del suo livello si era suicidata? Di successi ne aveva, se era stata invitata addirittura come relatrice a un convegno universitario. Quindi perché arrivare a buttarsi dal terzo piano del palazzo?
O, e qui ebbe i brividi, non si trattava di un suicidio. Magari il suo successo poteva aver dato fastidio a un collega, uomo o donna che fosse. Magari l’angelica Anya non era così carina come sembrava. Magari più che la donna con la rosa del quadro di Waterhouse, incarnava lo spirito della furiosa Betty Elzea in Love’s Shadow di Frederick Sandys. Magari a quel convegno c’era arrivata sgomitando via colleghi più capaci di lei.
Quando guardò l’orologio, si accorse che erano già le tre e mezza di notte. Era giunto il tempo di dormire. Chiuse il pc e quando si coricò, si addormentò all’istante.
continua...