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Autore: sarrestephan    27/11/2024    1 recensioni
In un futuro devastato da una epidemia mortale, Shoshanna è una giovane donna divisa tra due mondi. Metà umana e metà zombie, costretta a vivere come una reietta nella città fortificata di Hope Town. La sua vita cambia quando il Capitano Murdock Danko le offre una scelta: unirsi a una squadra speciale per trasportare un vaccino sperimentale attraverso territori pericolosi e contaminati. Il suo contributo è cruciale. Se la squadra fallisce, la sua immunità la rende l'ultima speranza per l'umanità. Divisa tra il timore di essere usata ancora una volta e il desiderio di dimostrare il suo valore, Shoshanna dovrà affrontare non solo i pericoli esterni, ma anche i demoni dentro di sé. Per non parlare delle strane sensazioni che le vorticano nello stomaco quando realizza che Zeke Becker, membro della stessa squadra, continua a fissarla per ragioni completamente diverse dalla paura e dal disprezzo.
Genere: Azione, Horror, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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Senza rendersene conto, Shoshanna si ritrovò seduta sul pianale di un camion, il ronzio costante del motore che vibrava sotto di lei e il fragore ovattato di clacson che rimbombava attraverso le pareti della galleria. La galleria era vasta, con soffitti alti e pareti di cemento grezzo consumate dall’umidità e dal tempo. Lungo questi, condotti metallici si intrecciavano come nervature. Il pavimento era consumato, segnato da anni di traffico continuo. L’odore era quello tipico dei luoghi sotterranei: umido, ferroso, con una punta di gasolio che bruciava nelle narici. La luce era scarsa: solo i fari dei veicoli e le lampade al neon appese lungo il soffitto rischiaravano a intermittenza il percorso. Ogni tanto, una lampada difettosa lampeggiava o emetteva un ronzio sinistro, prima di spegnersi del tutto, lasciando tratti di buio che si proiettavano sulla strada davanti a loro.

Gli altri veicoli avanzavano davanti e dietro al loro camion, creando un fiume di metallo e luci che scorreva lento e ordinato attraverso il tunnel. I rumori si amplificavano nella galleria, trasformando ogni fruscio di pneumatici e ogni colpo di clacson in un’eco opprimente.

Il camion procedeva a scatti, rallentando per adeguarsi al flusso del traffico, e ad ogni frenata i passeggeri si inclinavano leggermente in avanti, come onde spinte dalla corrente. Il rumore sordo del freno riecheggiava nella galleria, mentre fuori, il fragore meccanico continuava incessante.

Sporgendosi leggermente, Shoshanna poté scorgere brevi scorci delle altre gallerie laterali: oscurità profonde, troppo anguste per il passaggio di veicoli, che si perdevano in un mistero inquietante.

Dentro il camion, il silenzio del gruppo contrastava con il caos al di fuori. Seduti in due file parallele, ciascuna lungo un lato del mezzo, i soldati sembravano statue, i volti appena illuminati dalle luci che filtravano dai finestrini. Le loro uniformi militari, tutte identiche, erano un manto scuro come l’ombra che li avvolgeva. Le maniche e i pantaloni, rinforzati e imbottiti nei punti strategici, offrivano protezione senza compromettere la mobilità, un compromesso essenziale per muoversi agilmente nella zona contaminata. Ogni dettaglio era studiato per resistere agli attacchi più letali: i materiali robusti e anti-strappo erano progettati per proteggere dai morsi, una barriera tra la pelle e le mascelle delle creature. Anche il collo era al sicuro, avvolto in uno spesso strato di tessuto rinforzato, con una placca metallica che circondava interamente la base del collo, garantendo una protezione totale senza ostacolare i movimenti.

Shoshanna abbassò lo sguardo verso il fucile appoggiato al suo fianco. La lucentezza opaca del metallo rifletteva debolmente le luci intermittenti della galleria, e lei si ritrovò a fissare quella superficie come se fosse un punto fisso in un mondo che le sembrava sempre più irreale. Le sue mani, strette sul tessuto ruvido delle ginocchia, tremavano appena, ma non era il freddo a provocare quella lieve vibrazione. Era l’agitazione, quel nodo persistente allo stomaco che non riusciva a sciogliersi.

Un pensiero le attraversò la mente, improvviso, quasi estraneo. Era tutto un sogno. Non stava succedendo davvero.

Era una sensazione che si era fatta strada da quando aveva messo piede sul camion, e ora la avvolgeva come una coperta pesante. Ogni dettaglio intorno a lei – il ronzio del motore, il riverbero metallico dei clacson, persino la presenza dei compagni – sembrava ovattato, distante, come osservato attraverso uno spesso strato di vetro. Shoshanna chiuse gli occhi per un istante, cercando di scacciare quella sensazione, ma invece di dissiparsi, si intensificò.

Poteva quasi vedersi, come in una visione, tornare fuori dalle mura di Hopetown, sotto il cielo plumbeo e carico di cenere. Poteva sentire il peso del suo zaino sulle spalle, l’odore pungente dei cadaveri in decomposizione e il freddo pungente delle dita mentre frugavano tra resti putrescenti, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, che valesse la pena salvare. Era così reale nella sua mente che per un attimo le sembrò di essere di nuovo lì.

Era come se fosse rimasta sospesa tra due mondi, uno fatto di ricordi e terrore, e l’altro, quello in cui si trovava ora, carico di incertezza e preparativi per l’ignoto.

Si passò una mano nervosa tra i capelli, trattenendo a stento un respiro profondo che avrebbe attirato l’attenzione degli altri. Nessuno sembrava notare il suo stato; erano tutti immersi nei propri pensieri. Eppure, Shoshanna si sentiva scoperta, vulnerabile, come se qualcuno potesse leggere nei suoi occhi quella tempesta interiore che non riusciva a placare. Guardò di nuovo il fucile, cercando di concentrarsi sulla sua solidità, sulla sua funzione. Era davvero lì. Lo stava facendo davvero. Si disse, stringendo le mani in pugni per fermare quel tremore impercettibile.

Ma l'idea che tutto questo potesse ancora essere un sogno – o forse un incubo da cui non si sarebbe mai svegliata – rimase lì, una presenza sottile, annidata nei recessi della sua mente.

Shoshanna alzò lo sguardo, posandolo sugli uomini che l’avrebbero accompagnata in quella missione. Tutto era accaduto così in fretta. Il ricordo del capitano che le consegnava l’equipaggiamento, che le presentava gli altri membri del gruppo, sembrava quasi sbiadito, un mosaico confuso di volti e voci sovrapposte. E ora, eccola lì, seduta nel camion, stretta nella sua uniforme militare, circondata da estranei che sarebbero presto diventati compagni di vita o di morte.

Si costrinse a osservarli, cercando di distinguere i dettagli, di dare un nome e un contorno a quegli uomini. All’estremità della fila, sulla sinistra, notò i due mercenari. Seduti in silenzio, sembravano quasi statue nell’oscurità intermittente della galleria, illuminati a tratti dalla luce tremolante dei fari.

Il primo, Anton, di stazza robusta e pesante, era intento a pulire con cura la sua mazza chiodata. Ogni movimento era lento, metodico, quasi rituale, come se quell’arma fosse molto più di un semplice strumento di morte. Shoshanna ricordò vagamente il suo nome, Anton, o almeno credeva fosse così. Indossava un pesante mantello sopra la divisa, che gli copriva interamente il collo e il viso dal naso in giù, lasciando scoperti solo gli occhi, ombreggiati dall’elmetto. C’era qualcosa di inquietante e al tempo stesso solenne nel suo silenzio, come se non ci fosse nulla al mondo in grado di distrarlo dalla preparazione.

Accanto a lui, l’altro mercenario, Rustin, offriva un contrasto sorprendente. Più magro e basso, teneva tra le mani una croce, portandola con delicatezza alle labbra mentre bisbigliava una preghiera a mezza voce. Le parole, incomprensibili, si perdevano nel ronzio del motore e nel rumore lontano dei clacson. Shoshanna lo osservò con curiosità, quasi incredula. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva visto qualcuno pregare. In un mondo dove tutto sembrava perduto, abbandonato a un destino crudele e ineluttabile, l’atto di fede di quell’uomo la colpì come un’anomalia. E mai avrebbe immaginato di vedere un mercenario, un uomo armato fino ai denti, sussurrare una preghiera con tanta devozione.

Indossava un poncho scuro sopra la casacca militare, sfiorato dalle lunghe punte dei suoi capelli, una scelta che lo faceva sembrare più un cowboy che un soldato. Diversamente dal suo compagno, aveva rifiutato l’elmetto, preferendo un cappello dal largo bordo, legato sotto il mento con un cordino, che oscillava leggermente a ogni scossone del camion. L’insieme gli conferiva un’aria quasi teatrale, come un eroe fuoriuscito da un’altra epoca, eppure Shoshanna non riusciva a decidere se quell’immagine fosse rassicurante o semplicemente surreale.

Shoshanna lasciò vagare lo sguardo e si soffermò sul Tenente Jack Krasser. Sembrava troppo grande per il camion, la sua imponente stazza occupava più spazio di quanto il mezzo sembrasse poterne offrire. Eppure, era perfettamente immobile, rigido come una roccia. Nemmeno i sobbalzi della strada sembravano scuoterlo. Aveva gli occhi fissi su un punto indefinito davanti a sé, un’espressione impassibile che lo faceva sembrare più una statua che un uomo in carne e ossa. Sulla testa portava il suo berretto da tenente, calato con precisione millimetrica, come se ogni dettaglio della sua figura dovesse esprimere disciplina e autorità.

Shoshanna distolse lo sguardo rapidamente, temendo che il tenente potesse accorgersi che lo stava osservando. Il suo sguardo vagò allora verso il fondo del camion, dove sedeva il capitano Danko, vicino alla cabina del guidatore. La voce del capitano, bassa e calma, si mescolava con il ronzio del motore e i rumori della galleria. Parlava a una piccola radio che teneva in mano, la sua espressione concentrata, il viso parzialmente illuminato dai bagliori tremolanti dei fari. “Sì, ci stiamo avvicinando all’intersezione. Prevista uscita in superficie tra due ore—"

“Ehi, così sei mezza zombie, eh? Forte.” La voce del Capitano si perse nell’aria nel momento in cui Shoshanna sentì quella frase. Trasalì, colta di sorpresa da quel commento inaspettato. Non credeva possibile sentire le parole zombie e forte nella stessa frase. Si voltò di scatto verso la voce e incontrò lo sguardo del ragazzo seduto di fronte a lei.

Il Caporale Louis Powell, se ricordava bene, la fissava con un ghigno curioso, gli occhi vivaci che brillavano di malizia. Era incredibile quanto apparisse fanciullesco, quasi ingenuo, nonostante il fucile che teneva saldamente tra le mani e l’uniforme che indossava. I suoi lineamenti morbidi, incorniciati da un ciuffo di capelli spettinati, contrastavano nettamente con l’aria cupa e nervosa che dominava l’interno del camion.

Shoshanna non sapeva cosa rispondere. Si limitò a restituirgli uno sguardo interdetto, mentre lui continuava a osservarla con un sorriso che sembrava non conoscere la gravità della situazione.

Forte?” ripetè poi, calcando la parola come se fosse veleno. “Pensi che avere il morbo sia divertente?”

Louis non si lasciò intimidire. Sembrava immune alla tensione che aleggiava intorno a loro, quasi inconsapevole del peso delle sue parole. Fece spallucce, un gesto casuale che sembrava voler minimizzare tutto.

“Insomma, puoi muoverti tra gli zombie come se niente fosse. E anche se ti mordono, sei a posto, no?”

Shoshanna socchiuse gli occhi, stringendo le labbra in una linea sottile mentre il sangue le ribolliva nelle vene. Le sue dita si strinsero attorno al tessuto delle maniche, nel tentativo di trattenere la rabbia.

“Se pensi davvero che sia... forte... Potrei provare a morderti io, se preferisci,” disse con un tono glaciale, inclinando appena la testa verso di lui. “Magari il morbo ti permetterà di diventare simile a me.”

Louis ridacchiò, il suo sorriso si allargò come se credesse che fosse una battuta, ma il gelo nello sguardo di Shoshanna gli fece rapidamente cambiare espressione. Le risate si spensero nella sua gola e il ghigno fanciullesco lasciò spazio a un’espressione di sorpresa. Sbarrò gli occhi, il viso teso mentre il significato delle sue parole affondava lentamente nella sua mente.

“Oh, ehm...” mormorò, abbassando lo sguardo come un ragazzino colto in fallo. Si ritrasse, cercando di mettere più spazio possibile tra di loro, con le spalle che quasi toccavano la parete del mezzo.

Shoshanna scosse la testa con una smorfia di disapprovazione, distogliendo lo sguardo e incrociando le braccia davanti al petto. Una parte di lei sapeva che non avrebbe dovuto prendersela così, che le parole di Louis erano solo il frutto dell’ignoranza e di un umorismo fuori luogo. Ma non poteva farci nulla. Aveva sofferto troppo per quella condizione che lui trattava come se fosse un dono, quasi un superpotere. Il morbo non era un vantaggio; era una maledizione, un costante promemoria di quanto fosse vicina a diventare uno di loro, una morta vivente. Ogni singolo giorno era una lotta per mantenere il controllo, per non cedere alle ombre che minacciavano di inghiottirla.

Un altro scossone del camion la fece sobbalzare, riportandola alla realtà. Mentre cercava di calmare il cuore che batteva furiosamente nel suo petto, sentì il silenzio cadere pesante tra loro. Non si sforzò nemmeno di guardare Louis di nuovo, e lui non osò rompere quella fragile tregua.

“Ti prego di perdonarlo” intervenne improvvisamente una voce alla destra di Shoshanna, calma e priva di qualsiasi emozione. “Il nostro Caporale è un idiota.”

Shoshanna si voltò, il suo sguardo curioso si posò sull’uomo seduto accanto al Caporale. Era disteso in una posa apparentemente rilassata, con le gambe tese e i piedi incrociati. Le mani erano adagiate con noncuranza sul fucile di precisione che teneva poggiato sulle ginocchia. Teneva il capo leggermente chinato in avanti, e l’elmetto che indossava, equipaggiato con binocoli e visori notturni, gli copriva gran parte del volto insieme al balacava.

Louis si girò verso l’uomo con un’espressione offesa, il tono acceso.

“Zeke, chiudi quella bocca!” sbottò. “Devo forse ricordarti chi ti ha salvato il culo l’ultima volta che siamo stati in missione insieme?”

Zeke non si scompose minimamente. Alzò appena una spalla, il tono del tutto indifferente.

“E io devo ricordarti perché mi sono dovuto esporre? Perché ho dovuto salvare il tuo di culo, prima.”

Louis sbuffò, il suo volto tradiva la frustrazione.

“Stavamo per perdere un’occasione d’oro! Non potevo starmene nascosto e aspettare il tuo segnale.”

“Come ho detto, un idiota” ribatté Zeke con una calma glaciale, come se stesse enunciando un fatto inconfutabile. E a quelle parole, sollevò finalmente lo sguardo, puntando gli occhi su Shoshanna. Le iridi verdi, profonde e luminose, si incastonavano nel nero che contornava i suoi occhi come se fossero gemme di smeraldo incastonate in un’ombra. Lo spesso strato di nero dipinto sulla pelle intorno ai suoi occhi accentuava quel contrasto, facendoli sembrare quasi irreali.

Shoshanna si sentì trafitta da quello sguardo. Le iridi di Zeke sembravano sondare ogni angolo della sua anima, e un brivido la percorse, facendole raddrizzare la schiena. Non aveva mai visto occhi così intensi e penetranti, pensò che doveva essere il pesante strato di nero che li incorniciava a renderli così.

“Non dare troppo peso alle sue chiacchiere” disse poi Zeke, il tono basso e morbido, come se stessero chiacchierando amabilmente davanti a una tazza di tè invece che su un camion diretto verso la zona contaminata. “È una compagnia infinitamente migliore, e a mio dire anche più intelligente, quando tiene la bocca chiusa.” Le sue parole, pronunciate con una calma disarmante, sembravano quasi intessute di una sottile ironia.

Louis sbuffò sonoramente, incrociando le braccia sul petto in un gesto teatrale, come per sottolineare la sua indignazione. Becker non gli dedicò neppure un’occhiata, la sua attenzione restava fissa su Shoshanna, con uno sguardo che pareva scrutare ben oltre il suo aspetto esteriore. Lei, pur mantenendo il volto impassibile, non poté fare a meno di sentirsi leggermente a disagio sotto quegli occhi tanto penetranti.

“Se continua così,” aggiunse Becker, lasciando sfuggire un sospiro appena percettibile, “prometto che lo farò stare zitto per il resto del viaggio.”

Non c’era traccia di minaccia nella sua voce, solo un’aria di rassegnata stanchezza, come se avesse già affrontato quella dinamica innumerevoli volte. Shoshanna si ritrovò a chiedersi quale storia condividessero quei due uomini, così diversi tra loro eppure apparentemente abituati a lavorare fianco a fianco.

Shoshanna scosse la testa, un gesto breve e deciso.

“Non è nulla,” disse infine, con un tono volutamente piatto. Voleva lasciar perdere, chiudere quella conversazione e rifugiarsi nel suo sicuro silenzio. Distolse lo sguardo, fissando un punto indefinito tra le ombre del camion.

Rimase così, avvolta nel frastuono ovattato del viaggio: il rombo regolare del motore, il lieve ondeggiare del mezzo, lo sferragliare metallico che sembrava un lontano eco. Forse passarono pochi istanti, o forse minuti. Eppure, quella sensazione non la lasciava. Un’irrequietezza sottile, un pungolo insistente che sembrava risalire dal fondo della sua mente.

Alla fine cedette. Come mossa da un istinto che non riusciva a controllare, Shoshanna riportò lo sguardo sul Sergente Becker.

Lui la stava ancora guardando.

Shoshanna sentì il cuore rimbalzare nel petto, un colpo improvviso che le fece distogliere lo sguardo di nuovo, con foga. Si costrinse a fissare le mani, serrate una contro l’altra. Perché diavolo la stava fissando ancora? Si fece questa domanda senza trovare una risposta, e ciò non faceva altro che alimentare il suo disagio.

Tentò di ignorarlo, ma il peso di quello sguardo non la abbandonava. Era come se Zeke stesse leggendo qualcosa di invisibile sul suo volto, scavando con quella calma glaciale che sembrava essere il suo tratto distintivo.

Fortunatamente, la sua attenzione fu rapita dal rumore dei passi che risuonavano sul metallo del camion. Il Capitano Danko si avvicinò al gruppo. In piedi, si appoggiò con una mano alla parete del camion per non perdere l’equilibrio. La sua figura, imponente e completamente equipaggiata, era un altro richiamo alla brutalità della missione.

"Allora, squadra," cominciò il Capitano, la voce calma ma ferma, "nel giro di qualche ora raggiungeremo il confine della zona protetta. Da quel punto in poi, la galleria che ci porterà fino in superficie, nel cuore della zona contaminata. Potrebbe esserci il rischio che qualche zombie si sia rintanato nella galleria. Perciò, occhi aperti e vigili."

Tutti i presenti annuirono, consapevoli che quella missione era tutt'altro che sicura. Shoshanna sentì la tensione farsi più palpabile mentre si concentrava sul suo respiro, cercando di mantenere il controllo.

Il capitano osservò ciascuno di loro con uno sguardo scrutatore, come se misurasse la loro preparazione, il loro spirito. Quando si accertò che fossero tutti attenti, proseguì. "Dopodiché, una volta in superficie, ci dirigeremo verso nord. Rimarremo in formazione e seguiremo le tue direttive, Rustin," disse, rivolgendosi al mercenario.

Rustin, che fino a quel momento aveva mantenuto un silenzio quasi religioso, fece un cenno con la testa. Il suo movimento era liscio, quasi esagerato, un inchino che rifletteva una sorta di riverenza. La sua voce, quando finalmente si fece sentire, era stranamente soave, quasi cantilenante, come se stesse parlando in un tono che non si sentiva più da tempo.

"Certo," disse, con una calma che sembrava fuori luogo in quel contesto. "Io e mio fratello vi guideremo nella zona contaminata come un pastore con le sue pecorelle."

Il silenzio che seguì quelle parole fu rotto solo dal rumore del motore del camion. Shoshanna distolse lo sguardo dalla sua figura, ma le sue parole le rimasero impresse. Il riferimento religioso non le sfuggì. Lo guardò, osservò la sua aria calma e i suoi occhi impenetrabili, e infine posò lo sguardo sul crocifisso che gli penzolava al collo. La sua mente si affollò di domande, ma non osò chiedere nulla. La fede di quell’uomo non la riguardava al momento, anche se lei non credeva più in cose simili.

Danko si limitò ad annuire, prima di illustrare ancora una volta i dettagli della missione, come un nastro registratore rimesso in moto. Tutti i membri della squadra si misero ad ascoltare comunque, e perciò anche Shoshanna si sforzò di rimanere attenta.

Nel frattempo, il viaggio continuava senza sosta, e con ogni chilometro percorso, la sensazione di isolamento diventava sempre più tangibile. Le pattuglie si facevano via via più rade, le macchine lungo il percorso sempre meno numerose. La galleria in cui si trovavano divenne sempre più buia, l’illuminazione soffusa a stento riusciva a penetrare la coltre di oscurità che sembrava circondarli. L’aria si faceva pesante e il tanfo che viaggiava con il vento non lasciava dubbi sul fatto che stavano entrando in un territorio contaminato. Un odore di decomposizione che si mescolava con la puzza di metallo e di sudore. Shoshanna notò Louis storcere il naso, ma nessuno disse nulla.

Man mano che il camion avanzava, il rumore delle ruote sul terreno grezzo diventava sempre più monotono, e il silenzio che regnava nel veicolo sembrava più pesante.

Passò un’altra ora, e, alla fine, il camion rallentò. Shoshanna si alzò leggermente, cercando di scorgere cosa fosse in vista. In lontananza, oltre una curva, intravide quello che sembrava essere un punto di controllo. Il confine. Il limite oltre cui il dominio dell’uomo finiva e quello degli zombie iniziava. Le guardie appostate erano pesantemente corazzate e munite non solo di fucili ma anche di lanciafiamme. In silenzio e immobili, rimanevano dietro a delle barriere fatte di legno e metallo, osservando tramite le feritoie oltre il confine. Non c’era nulla di imponente o simbolico, solo un semplice cancello di legno e filo spinato, arrugginito e malridotto.

Il camion si fermò con uno stridio metallico, e il motore tacque. Calò il silenzio.

Un uomo della sicurezza si avvicinò con passo deciso, armato fino ai denti. La sua armatura pesante risplendeva sotto la luce fioca, ma il suo volto era nascosto da una maschera che copriva ogni dettaglio. Era difficile dire se fosse giovane o vecchio, ma l’aspetto spigoloso e il movimento rapido tradivano una certa esperienza.

Con le mani salde sulla sua arma, l’uomo si avvicinò al finestrino del conducente del camion e si fermò. La sua voce, quando parlò, fu roca ma determinata.

"Titolo e permesso," disse, senza girarsi verso gli altri. "Questo è un controllo di sicurezza. Nessuno esce dal confine senza una autorizzazione."

I soldati sul camion non protestarono. Il Capitano Danko si avvicinò al finestrino con passo lento, e iniziò a conversare con la guardia. Le loro voci si abbassarono subito, un mormorio che riempiva l'aria polverosa senza che qualcuno potesse udire chiaramente cosa stessero dicendo. Danko mostrò un documento all'uomo della sicurezza. L’uomo lo lesse velocemente, scorrendo le parole con attenzione. La sua postura rimase rigida mentre esaminava il foglio, ma il suo atteggiamento sembrava rilassarsi via via che i suoi occhi si spostavano dal documento alla faccia del capitano.

Dopo un attimo che sembrò sospeso, l'uomo sollevò lo sguardo e, senza esitazione, annunciò, "Bene, siete liberi di andare!" Si girò quindi verso il cancello, dove altri uomini di pattuglia si stavano preparando a sbloccarlo. "Aprite!" ordinò con voce decisa.

Poi, l'uomo della sicurezza fece un passo indietro, si rivolse al capitano e alzò la mano in un saluto militare. "Buona fortuna a lei e alla sua squadra, Capitano," disse con tono grave, ma c'era un accenno di rispetto nella sua voce.

Il Capitano fece un cenno con la testa, uno di quelli brevi e misurati che rispecchiavano la sua natura. Senza aggiungere altro, restò fermo, guardando la scena che si stava sviluppando davanti a lui. Il cancello cominciò a scricchiolare, lentamente si aprì, e la strada verso la zona contaminata divenne finalmente libera.

Shoshanna osservò tutto, il cuore che batteva più forte mentre il camion si avvicinava al varco. Non c'era un vero benvenuto, solo un silenzioso riconoscimento di ciò che li attendeva. La sicurezza fuori dal cancello si allontanò, ma l'ombra di un pericolo imminente sembrava già avvolgere tutto. Il viaggio stava per entrare nella fase più critica, e lei lo sapeva.

Le porte del cancello si aprirono con un rumore stridulo, e il camion ripartì, sprofondando nuovamente nell'oscurità che avvolgeva la strada davanti a loro. Il suono dei motori riecheggiò nel silenzio opprimente della galleria, mentre il cancello metallico, ormai dietro di loro, si richiuse con un colpo secco, come a sigillare l’ingresso al confine tra la sicurezza del conosciuto e l'incertezza che li attendeva.

Il percorso si fece più tortuoso, la galleria sempre più stretta e buia, e l'aria divenne opprimente, densa di un odore acre che entrava nelle narici con forza. Shoshanna poteva sentire il tanfo che pervadeva l'aria, un misto di marciume e metallo arrugginito che faceva venire il disgusto. Le luci del camion, tremolanti e fioche, illuminavano appena la strada davanti a loro, rendendo tutto il resto ancora più buio e minaccioso.

Il camion rimbalzava sui terreni irregolari mentre il viaggio proseguiva nel silenzio pesante. La luce fioca proveniente dalle finestre, ormai sempre più scarsa, proiettava ombre sulle facce di chi era a bordo. Louis, che aveva sempre difficoltà a tenere a freno i suoi pensieri, finalmente parlò, rompendo il silenzio che avvolgeva il veicolo.

"Non so, ragazzi," disse, la voce bassa ma carica di sospetto, "questa scelta di affidarci ai Kurt non mi piace per niente. Non sono della nostra gente, non possiamo certo fidarci di loro."

La sua voce non era alta, ma i Kurt, seduti poco più in là, si erano accorti del suo bisbigliare. Non avevano detto nulla, ma le loro orecchie erano attente. Zeke alzò lo sguardo verso Louis, un'espressione quasi stanca. "Louis, non iniziare con le tue paranoie. Ora non è il momento," rispose con calma, ma il suo sguardo affilato saltò comunque sui Kurt, come se lui stesso non si fidasse di loro.

Louis alzò le spalle, ignorando la reprimenda. "Non è paranoia. A loro interessano solo i soldi, e chissà quanto otterrebbero se decidessero di vendere il vaccino al mercato nero." Le sue parole, più di un'osservazione che una provocazione, finirono per catturare definitivamente l'attenzione dei Kurt. Anton, seduto più vicino al finestrino, fece scivolare l'angolo degli occhi verso Louis.

Zeke, notando il movimento, strinse la mascella. "Lascia stare," mormorò a Louis, cercando di mantenere il controllo. "Non vogliamo cominciare a farli agitare. Tieni a freno la lingua, se non vuoi che questa conversazione diventi più scomoda di quanto già sia."

Louis fissò Zeke per un momento, soppesando le parole, ma alla fine sembrò cedere. "Va bene, va bene. Ma non venirmi a dire che avevo ragione quando ci pugnaleranno alle spalle." La sua voce non era più così sicura, ma non riusciva a nascondere completamente il suo disprezzo.

Nel frattempo, Anton, l’uomo che aveva sentito chiaramente il commento di Louis, si fece avanti con calma, il suo sguardo duro ma controllato. "C'è qualcosa che vuoi dirci, ragazzino?" chiese, la voce bassa ma incisiva. La sua domanda sembrava più una provocazione che una curiosità genuina.

Louis lo guardò, gli occhi brillanti di sfida, ma Zeke intervenne prontamente, mettendosi tra i due con uno sguardo che tradiva poca tolleranza per il confronto diretto. "Non è il momento di fare discussioni," rispose Zeke, la sua voce glaciale. "Dobbiamo concentrarci sulla missione," disse, senza sforzo.

Louis, incerto, fece per aprire di nuovo bocca, ma Zeke non gli tolse gli occhi di dosso. "Ricorda cosa ci aspetta. Ogni parola fuori posto adesso potrebbe costarci cara," aggiunse Zeke, il tono sempre misurato, ma privo di comprensione. "E non siamo qui per fare nemici tra di noi."

Louis borbottò qualcosa tra sé, poi, dopo un lungo momento di silenzio, parlò con voce più bassa, ma non meno tagliente. "Se pensano di essere più furbi, devono sapere che non mi faccio prendere in giro."

Il Kurt che aveva parlato prima non sembrava infastidito dalla risposta di Louis. Al contrario, gli angoli sei suoi occhi si inarcarono all’insù come se stesse sorridendo. Sembrava che, in un modo o nell'altro, avesse trovato divertimento nel vedere Louis reagire così.

Krasser, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, intervenne ora, la sua voce calma ma decisa. "La zona contaminata non ha tempo per i nostri battibecchi," disse, fissando sia i Kurt che Louis. "Siamo tutti abbastanza adulti da sapere che, quando arriveremo, le nostre vite dipenderanno l'uno dall'altro."

Zeke annuì lentamente, il suo volto di ghiaccio riflettendo la serietà del momento. "Esatto."

La tensione nell'aria non si sciolse completamente, ma almeno per ora, sembrò placarsi. Il camion continuò a sfrecciare nell’oscurità, mentre la zona contaminata si avvicinava sempre di più, pronta a metterli alla prova.

Dopo alcuni lunghi e interminabili minuti, il camion arrivò al termine del suo tragitto. Si fermò, in mezzo alla galleria. Il rumore del motore si spense lentamente, seguito da un silenzio opprimente che riempì l’aria.

Poi, il capitano Danko si fece avanti, uscendo dalla cabina del camion. Con un gesto deciso, camminò verso il gruppo, il suo passo sicuro, ma il volto segnato da una gravità che nessuno osò ignorare. Si fermò davanti a loro, fissando ciascuno con uno sguardo che sembrava scavare sotto le loro pelle. "È il momento," disse, i suoi occhi taglienti come lame. "Il nostro conducente non può proseguire oltre. Sarebbe troppo pericoloso. Da qui in avanti, proseguiamo a piedi."

Shoshanna si fermò per un istante, il cuore che le martellava nel petto come se stesse cercando di fuggire via. La pistola, il metallo freddo della sua impugnatura, le dava una sensazione di sollievo, ma anche di inquietudine. Aveva visto troppo, aveva assistito a scene che non avrebbero mai dovuto appartenere alla realtà di un essere umano. Il morbo che la proteggeva da tanto, l'aveva fatta sopravvivere quando altri non ce l'avevano fatta. Ma oggi, nell'oscurità che avvolgeva la zona contaminata, non c'era garanzia che sarebbe stato abbastanza. La sua protezione biologica le dava potere, ma non le dava invincibilità. Poteva davvero attraversare un'intera orda di zombie senza che questi cogliessero la sua metà umana? Se l'orda l'avesse circondata, sarebbe riuscita a farsi strada, o sarebbe stata sopraffatta?

Danko la guardò per un momento, cogliendo forse il conflitto nei suoi occhi. Non disse nulla, ma c'era una comprensione muta tra loro. Lui sapeva che nessuno, neanche il più protetto, era mai veramente al sicuro.

Mentre gli altri si apprestavano a scendere dal camion, l’uomo si mosse verso di lei. "Tutto bene?" le chiese, come se avesse percepito la sua inquietudine.

Shoshanna annuì, ma il suo sguardo era distante. "Sì...sto bene," rispose, alzando la pistola, come per rassicurarsi che fosse così. Poi si voltò, sperando che il Capitano decidesse di lasciarla andare.
Sentì lo sguardo dell’uomo su di lei, indagatore, ma alla fine la esortò a scendere con un gesto della mano. Sembrava aver afferrato la sua inquietudine in ogni caso.

Tutti scesero dal camion, l’aria gelida e pesante della galleria che li avvolgeva non appena i loro piedi toccarono il terreno. Senza dire una parola, ognuno accese la torcia fissata saldamente all’equipaggiamento. Il bagliore freddo delle luci perforò l’oscurità impenetrabile che li circondava, rivelando ombre contorte e distorte sui muri rotti e sulla terra smossa.

Shoshanna si voltò lentamente, i suoi occhi scivolando sul camion mentre azionava il motore per tornare indietro. Il veicolo, che fino a pochi minuti prima era stato la loro roccaforte mobile, ora scompariva nell’oscurità.

Shoshanna sapeva che non sarebbero tornati indietro. Avrebbero dovuto fare affidamento su tutto ciò che avevano, non solo sulle loro armi o sul morbo che la proteggeva, ma sulla loro forza di volontà, sulla capacità di rimanere uniti nonostante le differenze. Eppure, mentre si incamminavano nell'oscurità, Shoshanna non poteva fare a meno di pensare che quello sarebbe stato l'inizio di un viaggio senza ritorno.
   
 
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