Baby aprì gli occhi, ma la luce, seppur tenue, le trafisse le pupille come un bagliore insostenibile. Sbatté le palpebre più volte, cercando di adattarsi all'ambiente che sembrava cambiato attorno a lei. La testa le pesava, il collo rigido protestava a ogni movimento. Si sentiva ancorata al divano, come se il tempo trascorso stando immobile l’avesse radicata lì.
Quando abbassò lo sguardo, il morbido peso della coperta le ricordò dov’era. Le sue dita si mossero istintivamente lungo il tessuto, esplorandone la trama, quasi per confermare che fosse reale, e poi sollevò lo sguardo, cercando un punto di riferimento. La stanza era silenziosa, ma non del tutto vuota. La televisione, prima viva di suoni e immagini, era spenta, una sagoma scura nell'angolo della clinica. La sedia accanto al tavolo era vuota. Non c’era traccia del cyrurgo.
Baby sentì un’improvvisa fitta di ansia. Era sola? La calma precedente lasciò spazio a un sottile senso di abbandono, un freddo diverso da quello che la coperta poteva scacciare. Si tese, ogni muscolo protestando al movimento, e ascoltò.
Fu allora che il silenzio fu interrotto da un rumore. Un tintinnio metallico, seguito da un suono più deciso, un colpo secco. Baby girò lentamente la testa verso la fonte, il cuore che accelerava. Qualcuno stava trafficando con qualcosa di metallo, forse una strumentazione, o degli attrezzi.
Il cyrurgo era lì. Anche se non riusciva ancora a vederlo, sapeva che non era mai andato via.
Baby inspirò lentamente, come a prepararsi per ciò che stava per fare. La coperta era calda e avvolgente, ma anche opprimente, quasi un ostacolo tra lei e il mondo reale, perciò decise che era ora di muoversi. Con cautela, fece leva sul suo braccio buono e sollevò il busto, sentendo i muscoli tendersi dopo un lungo riposo. La coperta scivolò giù, ammucchiandosi sulle sue gambe.
Un peso diverso attirò la sua attenzione. Abbassò lo sguardo, inizialmente confusa. L’assenza del familiare dolore e della sensazione instabile che accompagnava il vecchio ammasso di metallo al posto dell’altro braccio la disorientò per un momento. Poi, si rese conto del cambiamento.
I suoi occhi si spalancarono. Il braccio che aveva al posto del vecchio impianto decadente era... bellissimo. Non c’era altra parola per descriverlo. Il metallo splendeva di un tenue rosa pallido, che sembrava quasi fatto apposta per armonizzarsi con i suoi capelli. Le guance le si scaldarono, un arrossire improvviso che la colse alla sprovvista. Il cyrurgo aveva scelto quel colore di proposito. Non era un dettaglio casuale; aveva prestato attenzione, l’aveva osservata.
Baby studiò il nuovo arto con meraviglia crescente. I cavi sotto le placche di metallo erano sottili, elegantemente disposti lungo l’intera struttura, come vene d’acciaio che pulsavano una forza invisibile. Sembravano fragili, ma ogni fibra dava l'impressione di solidità.
Sollevò la mano, muovendo lentamente le dita. Obbedivano al suo comando con una naturalezza sconvolgente, senza il minimo ritardo o esitazione. La fluidità del movimento era così precisa che, per un attimo, Baby si chiese se fosse davvero artificiale. Era come se fosse il suo vero braccio, la sua carne, il suo sangue.
Sperimentò, sfiorando pollice e indice insieme. Nessun suono meccanico, nessun cigolio metallico. Solo un sottile tic, appena percettibile, quando le superfici si incontravano. Era un suono delicato, quasi musicale, che si armonizzava con la raffinatezza dell'arto.
Baby non riusciva a distogliere lo sguardo. Non solo era qualcosa di funzionale, ma un'opera d'arte.
Il suo nuovo braccio le strappò un sorriso, uno di quelli che non poteva trattenere nemmeno volendo. Era un sorriso piccolo, intimo, ma reale. Per un momento si sentì avvolta da un calore che sembrava provenire dal centro del petto, un calore che scacciava la stanchezza e la paura. Doveva ringraziarlo. Il cyrurgo le aveva dato qualcosa che non avrebbe mai osato chiedere: un dono che la faceva sentire, almeno per un istante, intera, e pronta a combattere.
Con una determinazione nuova, Baby scostò le gambe da sotto la coperta, lasciandola ricadere sul divano. Solo allora notò che le scarpe erano sparite. Abbassò lo sguardo sui calzini, un po' sgualciti, che le coprivano i piedi. Lui doveva averle tolto le scarpe, forse per farla stare più comoda. La cosa la sorprese e, in un certo senso, la commosse.
Le cercò con lo sguardo, trovandole poco distanti, nascoste in parte dall’ombra. Si alzò con cautela, le gambe un po’ rigide dopo essere rimasta sdraiata tanto a lungo. Raggiunse le scarpe, infilando i piedi con gesti rapidi e automatici, un'abitudine radicata in anni di necessità e movimento costante.
Quando fu pronta, si guardò attorno. La stanza sembrava immobile, soffocata dal silenzio, eppure i rumori metallici continuavano a farsi sentire, echeggiando come piccole scosse elettriche tra gli scaffali pieni di attrezzi e fascicoli impilati in un disordine organizzato.
Baby seguì quel suono, spostandosi con passi cauti tra gli scaffali. Il nuovo braccio scintillava lievemente sotto la luce fioca, un promemoria costante di ciò che aveva appena ricevuto. Si sentiva strana, come se un'altra versione di sé stessa si stesse facendo strada tra i corridoi della clinica, alla ricerca dell’uomo che aveva reso tutto possibile.
Il rumore si faceva sempre più nitido mentre Baby si avvicinava. Oltrepassato l’ultimo scaffale, si trovò davanti alla saletta operatoria. Era esattamente come la ricordava, un luogo che sembrava sospeso tra un’officina e una clinica: il lettino al centro, i rubinetti con le tracce di recente utilizzo, il carrello degli attrezzi sparpagliati e i lunghi scaffali sigillati che probabilmente contenevano pezzi di ricambio e impianti.
Al centro della stanza, stava il cyrurgo, Varrick. Non c'era nessun paziente con lui, né sembrava impegnato a pulire i suoi strumenti. Era invece chinato su un carrello, apparentemente concentrato su qualcosa. Baby fece qualche passo più vicina, fermandosi di colpo quando vide cosa stava facendo: davanti a lui, su un vassoio di metallo, giaceva il suo vecchio braccio.
Era in condizioni disastrose, un pezzo di rottame più che un’appendice funzionante. I bordi del metallo erano sbiaditi e screpolati, i cavi pendenti erano ricoperti da una patina scura, e le giunture sembravano irrimediabilmente arrugginite. Baby lo fissò per un lungo momento, un misto di vergogna e sollievo attraversandole il petto. Era difficile credere che fino a poche ore prima fosse stato parte di lei.
Varrick, ignaro della sua presenza o forse semplicemente non interessato, lo stava studiando con attenzione. Le sue mani cibernetiche, precise e ferme, lo vivisezionavano. Le dita scivolavano sui solchi profondi delle nocche, tracce di anni di colpi inferti e ricevuti, e percorrevano le pieghe deformate che avevano modellato il metallo in una forma irreparabilmente distorta.
Il cyrurgo sembrava perso nei suoi pensieri, le sopracciglia leggermente aggrottate in una curiosità assorta. Baby si chiese cosa potesse vedere in quel mucchio di rottami. Forse stava cercando di capire come fosse arrivato a ridursi in quello stato, o forse stava valutando se ci fosse ancora qualcosa da salvare. Ma l’idea che ci fosse ancora valore in quel vecchio pezzo di metallo sembrava assurda, quasi quanto il fatto che lui avesse deciso di sostituirlo con un capolavoro.
Baby non riusciva a capire cosa potesse vedere in quel braccio. Perché non l'aveva semplicemente buttato via? Era solo un pezzo di ferraglia ormai, un ricordo inutile del passato. Ma proprio mentre i suoi pensieri si infittivano, una voce interruppe il silenzio:
"Come ti senti?"
La domanda la fece sobbalzare leggermente. Era stato lui a parlare, senza alzare lo sguardo dal braccio che continuava a maneggiare con precisione meticolosa. L'aveva notata, forse da quando aveva messo piede nella stanza. Baby si accorse di sorridere, anche se lui non la stava guardando. Sollevò il nuovo braccio cibernetico, lasciando che la luce pallida del neon lo illuminasse.
"Da favola," rispose, e l’entusiasmo nella sua voce era sincero.
Varrick annuì appena, un gesto quasi impercettibile. "Bene," disse con un tono piatto, distante, e tornò al silenzio.
Il vuoto che seguì era pesante. Baby si morse il labbro, chiedendosi se la conversazione fosse già finita. Non sembrava esserci molto altro da dire, eppure l’idea di tornare indietro, di lasciare quella stanza le sembrava sbagliata. Si guardò intorno, senza trovare nulla che potesse catturare la sua attenzione. Non c’era nulla da fare in giro.
Alla fine, decise di avvicinarsi al cyrurgo. I suoi passi erano leggeri, come se temesse di disturbare un rituale.
"Cosa stai facendo?" chiese, la curiosità mescolata a una timida esitazione.
Varrick non alzò lo sguardo, ma le sue mani si fermarono un istante sul vecchio braccio, come se la domanda lo avesse costretto a riflettere. Poi riprese, con la stessa calma di prima.
"Stavo osservando," rispose Varrick, la sua voce appena un sussurro che si confondeva con il lieve ronzio delle luci al neon.
Baby inclinò la testa, incuriosita e un po' titubante. Lo osservò far scorrere le sue dita metalliche sui profondi solchi del vecchio braccio meccanico. Era un movimento lento, meticoloso, quasi reverenziale, come se stesse analizzando ogni graffio e imperfezione per ricostruirne la storia. La sua fronte si corrucciava sempre di più, un'espressione di turbamento che le fece stringere inconsciamente le mani.
Per un lungo momento, nella stanza ci fu solo il suono delle dita metalliche che sfioravano il metallo malconcio. Poi, improvvisamente, Varrick parlò di nuovo. "Ti piace gettarti nelle risse?" chiese, la sua voce priva di intonazione, ma carica di un sottile giudizio.
La domanda la colpì come un fulmine a ciel sereno. Baby spalancò gli occhi, stupita, quasi incapace di credere alle sue orecchie. "Cosa?" esclamò, la sua voce alzandosi involontariamente di tono. Per un istante rimase senza parole, poi scosse la testa con veemenza, come se volesse scacciare l'insinuazione.
"Non sono una delinquente! Non attaccherei mai qualcuno per strada!" aggiunse, il tono fermo e carico di indignazione, le guance lievemente arrossate per la rabbia e l’imbarazzo.
Nonostante il suo sfogo, Varrick non mostrò alcuna reazione visibile. Continuò a studiare il vecchio braccio cibernetico come se fosse l’unica cosa che meritasse la sua attenzione, i suoi occhi fissi sui solchi e sulle ammaccature. Era come se il metallo danneggiato raccontasse una storia che solo lui poteva comprendere, un linguaggio silenzioso fatto di graffi e cicatrici meccaniche.
"Una malformazione così notevole del metallo può avere solo una spiegazione," continuò Varrick, il tono della sua voce più basso, ma carico di una gravità che non lasciava spazio a repliche. Fece scorrere lentamente le dita metalliche sui profondi solchi che deformavano il braccio cibernetico, seguendoli come se fossero una mappa che conduceva a una verità oscura.
Si fermò di colpo, la sua mano immobile sopra le cicatrici del metallo, e abbassò leggermente il capo, ponderando qualcosa di invisibile. Baby rimase immobile, il fiato bloccato nel petto, come se anche il minimo movimento potesse spezzare la tensione che improvvisamente si era formata nella stanza. Non riusciva a leggere la sua espressione; sembrava assorto in pensieri troppo profondi per essere condivisi.
Poi, inaspettatamente, Varrick alzò lo sguardo verso di lei. I suoi occhiali, freddi e penetranti, la fissarono con una durezza che la fece quasi indietreggiare. Era la stessa espressione che aveva visto quando l'aveva sorpresa a rubare nella sua clinica: non un'esplosione di rabbia, ma un giudizio gelido, più tagliente di qualsiasi rimprovero.
"Dimmi," iniziò, la sua voce priva di esitazione. "Non sei una ladra." Fece una pausa, lasciando che le sue parole affondassero. "Sei troppo inesperta per esserlo davvero, e ciò che hai fatto è stato chiaramente spinto da una disperazione recente."
Baby sentì il sangue gelarsi nelle vene mentre lui parlava, la sua analisi tagliente sembrava smontarla pezzo per pezzo.
"Ma," continuò Varrick, i suoi occhi stretti in una linea inquisitoria, "non sei nemmeno una delinquente che si getta nelle risse, a giudicare da quello che dici." Si avvicinò di un passo, lasciando il braccio cibernetico sul carrello senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
"Ebbene," concluse, il tono della sua voce diventato più incisivo, quasi una sfida. "Se non sei nessuna di queste due cose, allora... cosa sei?"
La domanda, così diretta e carica di aspettative, fece vibrare l'aria intorno a loro. Baby si sentì improvvisamente nuda sotto quel peso, come se fosse stata smascherata di fronte a una parte di sé che non voleva affrontare. Abbassò lo sguardo, cercando qualcosa da dire, ma ogni risposta sembrava inadeguata. Eppure sapeva che quella non era solo una domanda: era una richiesta, un'esigenza di verità.
Baby, stranita dalla direzione inaspettata che quella conversazione stava prendendo, decise di affrontare la questione con un pizzico di orgoglio e un sorriso che sfidava il silenzio. Spinse il petto in fuori, il nuovo braccio cibernetico in bella vista, come se fosse sul punto di salire su un ring, e dichiarò con voce sicura: "Sono una cyberpugile. Una cyboxer!"
Le parole uscirono con la stessa forza con cui avrebbe assestato un pugno ben calcolato, e Baby restò ferma ad aspettare la reazione. Forse Varrick l’avrebbe fissata incredulo, magari con un sorrisetto sarcastico o un commento tagliente. Si preparò anche all’idea che avrebbe potuto ridere di lei, di quella ragazzina che osava definirsi una combattente.
Ma la reazione che ricevette fu tutt’altro che prevedibile.
Varrick si irrigidì come se quelle parole lo avessero colpito al petto, scuotendo qualcosa di profondo dentro di lui. Le sue mani metalliche, che prima si muovevano con metodica precisione sul vecchio braccio cibernetico, si bloccarono di colpo. Poi, lentamente, le dita si chiusero a pugno, un suono sordo di metallo che si torceva sotto la tensione.
L’uomo solitamente imperturbabile sembrava trasformato. Il suo corpo, che di solito emanava un’energia contenuta e calma, era ora rigido come una corda tesa. Baby non poteva vedere i suoi occhi nascosti dietro i pesanti occhiali cibernetici, ma percepì chiaramente lo sguardo bruciante che la trapassava. Era come se l’avesse inchiodata al pavimento, incapace di muoversi.
"Che cosa hai detto...?"
La sua voce era poco più di un sussurro, ma c’era qualcosa in quel tono che fece accapponare la pelle di Baby. Non era incredulità, né ammirazione. Era qualcosa di più complesso, più oscuro.
Lentamente, Varrick si voltò completamente verso di lei. La sua postura era rigida, il volto difficile da leggere. Le labbra erano dischiuse in un’espressione che sembrava a metà tra il turbamento e il disappunto, ma dietro quegli occhiali Baby avvertiva una tensione che non sapeva spiegare. Si sentiva improvvisamente a disagio sotto il peso di quel silenzio. Ogni battito del cuore le sembrava amplificato, rimbombando nelle orecchie come un tamburo.
Varrick rimase in silenzio ancora per qualche secondo, abbastanza a lungo da farle dubitare di aver parlato ad alta voce. Poi riprese:
"Ripeti."
Baby deglutì, il suo entusiasmo iniziale smorzato dall’atmosfera tesa. Non sapeva se era un ordine o una richiesta, ma il tono dell’uomo lasciava poco spazio al rifiuto.
"Io... sono una cyberpugile," mormorò di nuovo, questa volta con meno sicurezza. "Una cyboxer."
La tensione nell’aria si fece quasi insostenibile, e Baby si chiese che cosa mai avesse scatenato quella reazione in lui.
Varrick rimase immobile, la figura rigida come scolpita nel metallo. Ogni muscolo, ogni componente sembrava bloccato in un fermo immagine, come se il tempo stesso si fosse arrestato. Baby lo osservava, e con il passare dei secondi l’iniziale curiosità si trasformò in un leggero senso di inquietudine. Che cosa gli stava succedendo?
Lentamente, le sopracciglia di Baby si corrugarono, un pensiero preoccupante cominciava a formarsi nella sua mente. "Qualcosa non va?" chiese infine, la voce più insicura di quanto avrebbe voluto.
La sua domanda sembrò scuoterlo. Varrick si mosse, ma con una lentezza innaturale, come se stesse cercando di rimettere insieme i pezzi di un ricordo troppo pesante da sopportare. Senza dire nulla, si voltò, dandole le spalle, con la mano si massaggiava la nuca come a tentare di alleviare una pressione invisibile.
"Tra tutte le persone che potevano capitarmi..." borbottò, la voce bassissima, quasi impercettibile, ma sufficiente per raggiungere le orecchie di Baby.
Il tono delle sue parole era strano, una mescolanza di frustrazione, incredulità e forse qualcosa di più profondo, qualcosa che Baby non riusciva a decifrare. Si mordicchiò il labbro, indecisa su cosa fare. Poi, spinta da un misto di apprensione e curiosità, fece qualche passo in avanti, accorciando la distanza tra loro.
"Stai bene?"
La sua voce, gentile e carica di sincera preoccupazione, tagliò il silenzio della stanza. Il rumore dei suoi passi sul pavimento fu l’unica risposta per un istante. Varrick rimase ancora fermo, la sua figura proiettava un’ombra lunga sotto la luce fredda della stanza.
Varrick prese un respiro profondo, uno di quelli che sembrano progettati per contenere un’esplosione interna. Non disse nulla. Poi, con una brusca decisione, afferrò il vecchio braccio cibernetico che aveva continuato a maneggiare fino a quel momento.
Con passi pesanti e cadenzati, si voltò, allontanandosi da Baby senza nemmeno guardarla, diretto verso un carrello metallico posizionato in un angolo della sala. Baby lo seguì con lo sguardo, la confusione che cresceva dentro di lei come un groviglio. Non capiva. Poi lo vide sollevare il braccio meccanico, un gesto deciso e carico di tensione, e gettarlo nel carrello con una forza quasi eccessiva.
Il metallo colpì la superficie con un suono sordo e violento, rimbalzando tra gli altri pezzi accatastati con un clangore metallico che riecheggiò nella stanza. Baby sobbalzò, la potenza del gesto la colse di sorpresa. Rimase immobile, gli occhi fissi sulla schiena di Varrick, che era fermo davanti al carrello. Aveva le mani strette attorno ai bordi come se stesse cercando di trattenersi dal fare qualcosa di azzardato. Il silenzio che calò era opprimente, quasi palpabile, e la tensione nella stanza sembrava vibrarle sulla pelle. Baby si mordicchiò il labbro inferiore, cercando di dare un senso a quella reazione.
Finalmente, Varrick parlò. La sua voce era piatta, apparentemente priva di emozione, ma c’era una durezza nascosta, un qualcosa che Baby non riuscì a decifrare. "Puoi andare adesso."
Quelle parole la colpirono come un pugno allo stomaco. Baby rimase interdetta, il cuore che batteva più forte nel petto. Erano fredde, spietate nella loro semplicità, e la lasciarono sospesa in un mare di domande. "Andare?" ripeté, la sua voce sottile e confusa.
Fece un passo avanti, cercando di guardarlo, ma Varrick non si voltò. Le sue spalle erano rigide, le braccia immobili, ancora saldamente aggrappate al carrello come se temesse che lasciarlo andare potesse scatenare qualcosa di irreparabile.
“Intendi... fuori dalla clinica?” aggiunse Baby, l’incertezza che si rifletteva nel tono della sua voce. Il nodo che sentiva crescere nello stomaco si strinse ancora di più. Perché? La domanda rimase sospesa nella sua mente. Non poteva crederci. Dopo averla aiutata, dopo averle ridato quel braccio così perfetto, ora la stava mandando via così bruscamente? Perché?
"Esatto," rispose Varrick, e la parola sembrò tagliare l’aria come una lama. La sua voce era ruvida, quasi ringhiante, e il tono lasciava intendere che non volesse discutere ulteriormente.
Baby lo osservò attentamente, cercando di decifrarlo. Non era solo irritazione quella che percepiva, ma qualcosa di più profondo e radicato. Era arrabbiato, sì, ma c'era anche qualcos'altro. Si chiese cosa avesse detto per scatenare una reazione del genere. Era stato il riferimento al cyberpugilato?
Deglutì, sentendo un nodo crescere nella gola. Sapeva che la scelta più sicura sarebbe stata andarsene, fare quello che le aveva detto e non voltarsi indietro. Ma dove sarebbe andata? Non aveva un posto in cui rifugiarsi, né persone che la stessero aspettando.
Le sue mani scivolarono involontariamente verso il braccio cibernetico nuovo, accarezzandolo con gratitudine e una punta di nervosismo. Poi un'idea le balenò in mente, un pensiero folle, ma che sembrava essere l’unica opzione possibile.
Non poteva lasciarsi scappare quell’opportunità. Poteva provare a convincerlo a lasciarla rimanere. Dopotutto, la clinica, così come l’uomo che la gestiva, sembrava trascurata, un luogo che avrebbe potuto facilmente finire dimenticato.
"Posso aiutarti," disse di getto, le parole che le uscivano più veloci di quanto avesse pianificato. "Potrei... tenere in ordine la clinica, pulire, organizzare gli scaffali. Questo posto potrebbe attirare più clienti se fosse un po’ più... accogliente."
Varrick non si mosse. Il suo corpo rimase rigido, ma Baby non si arrese. Sentì una strana determinazione crescere dentro di sé. "Davvero," aggiunse, cercando di mascherare il nervosismo con un tono più leggero, "potrei essere utile. Hai detto tu stesso che non sono una ladra. E io..." esitò un attimo, cercando le parole giuste, "non ho un altro posto dove andare."
Un’ombra attraversò il volto di Varrick, ma non si voltò verso di lei. Baby intravide un piccolo movimento delle sue spalle, forse un sospiro o un tremito, difficile dirlo.
Baby fece un passo avanti, determinata a farsi ascoltare. "Non ho altro modo per ripagarti," dichiarò con voce ferma, nonostante un’ombra di esitazione le gravasse sul cuore. Poi alzò le braccia al cielo in un gesto quasi teatrale, come se volesse arrendersi al suo stesso destino. "Se mi lasci stare qui, posso... ripagarti aiutandoti nella clinica."
Fece una pausa, aspettandosi che Varrick la fermasse, che le dicesse qualcosa, ma lui rimase in silenzio, il volto un enigma sotto gli occhiali cibernetici. Allora continuò, il tono più caldo e sfumato da una punta di frustrazione. "Mi guadagnavo da vivere come cyberpugile," ammise, le parole lasciandole un retrogusto amaro in bocca. "Ma non ho fatto altro che accumulare sconfitte dopo sconfitte. E adesso..." Il ricordo dell’ultima conversazione con il suo allenatore le si affacciò nella mente come un pugno allo stomaco. Scosse la testa, un lampo di rabbia le attraversò gli occhi mentre incrociava le braccia sul petto. "Adesso sono stata tagliata fuori dalla palestra. Non avevo abbastanza soldi per pagarli, e per loro questo è tutto ciò che conta."
Per un istante rimase lì, a fissare Varrick, aspettandosi una reazione, un qualunque segnale che stesse ascoltando. E fu allora che accadde.
"Vuoi continuare a esserlo?" La voce di Varrick, tagliente e piena di un’intensità quasi inquietante, ruppe il silenzio come un fulmine.
Baby si irrigidì, sorpresa dal tono improvvisamente severo, quasi accusatorio. Era come se lui stesse scavando direttamente nella sua anima, soppesando ogni parola che aveva appena detto. Fece un mezzo passo indietro, la sua sicurezza vacillò per un attimo. "Essere una cyberpugile?" chiese, incerta, cercando di capire dove voleva arrivare.
Varrick annuì, il movimento lento, quasi impercettibile, ma abbastanza da farsi notare. Ancora non la guardava. Sembrava che ogni fibra del suo corpo fosse concentrata nel contenere qualcosa, un’emozione intensa e pesante come il piombo.
Baby si scosse, recuperando la determinazione che minacciava di scivolarle via. Alzò il mento, gli occhi brillanti di una luce risoluta. "Certo che sì," dichiarò, la voce piena di un fervore che non riuscì a trattenere. "Il mio sogno è quello di diventare la campion—"
"Basta così!"
La sua frase fu interrotta bruscamente da un’esplosione di parole che sembrava vibrare nell’aria stessa. Baby sobbalzò, come colpita da un’ondata di energia invisibile. Varrick si era voltato verso di lei con una rapidità che la fece trasalire. Per la prima volta, il suo volto, fino a quel momento un guscio impenetrabile, si era trasformato in una maschera di emozioni difficili da decifrare: rabbia, frustrazione, forse anche una traccia di dolore.
La sua postura era rigida, il petto che si alzava e si abbassava come se cercasse di controllare un respiro agitato. Le sue mani, strette a pugno, tremavano appena, un contrasto stridente con l’aria calma e distante che aveva mostrato fino a poco fa. Baby rimase senza parole, la sua bocca leggermente aperta mentre cercava di comprendere cosa avesse scatenato quella reazione.
Il silenzio che seguì era pesante come una cappa di piombo, rotto solo dal ronzio meccanico dei macchinari attorno a loro. E in quel momento, Baby capì che c'era qualcosa di profondo, di personale, dietro quella rabbia improvvisa. Ma non sapeva ancora cosa fosse.
Fece per aprire la bocca, ma l’uomo la interruppe, la sua voce tagliente come una lama: "Esci dalla mia clinica."
Baby rimase immobile, i suoi occhi sbarrati per la sorpresa. Le parole le si bloccarono in gola mentre cercava di assimilare il comando perentorio. Un brivido le attraversò la schiena, ma si sforzò di muovere un passo avanti, ignorando l’istinto che le urlava di fermarsi. "Ma ti ho detto—"
"Non importa." La voce di Varrick si alzò di un tono, non abbastanza per essere un grido, ma sufficiente a farle capire che non c’era spazio per discussioni. "Non devi ripagarmi."
Baby scosse la testa, incredula. Non poteva credere alle sue orecchie. Lui aveva speso tempo, risorse, forse anche una fortuna, per ripararle il braccio con un nuovo modello lucido e perfetto. E ora le stava dicendo che non doveva nulla? Sembrava impossibile. La sua mente si riempì di domande. Perché? Perché questo cambiamento improvviso?
"Non posso!" protestò, la voce incrinata dall’urgenza di spiegarsi. Scosse la testa con forza, come a scacciare l’assurdità di quelle parole. "No! Non posso andarmene così. Sono in debito con te, e il minimo che posso fare è ripagarti."
Varrick sospirò, un suono pesante, pieno di stanchezza e frustrazione. Si passò una mano sul viso, come se stesse cercando di trovare un briciolo di calma, ma il suo corpo parlava di tutt’altro.
Baby si avvicinò di qualche altro passo. Una scintilla di sfida le brillava negli occhi. Doveva sapere. Doveva capire.
"Perché vuoi così tanto che me ne vada?" chiese, con un tono che cercava di bilanciare curiosità e cautela. "Anche senza pagare?"
Varrick non rispose.
Baby lo studiò attentamente, e poi la consapevolezza le balenò in mente. "È perché sono una cyberpugile?" azzardò, inclinando leggermente la testa. Si accorse che l’uomo irrigidì le spalle al suono di quella parola. Una reazione impercettibile, ma che confermava il suo sospetto.
"Il fatto che lo sia ha chiaramente toccato un nervo scoperto," continuò, spingendo il discorso un po’ oltre. Cercava una reazione, un indizio. Ma Varrick non si mosse, non le rispose. Il suo silenzio, tuttavia, diceva più di mille parole.
Baby non lasciò che il silenzio si prolungasse troppo. Fece un passo avanti, come se l’avvicinarsi fisicamente potesse scardinare il muro che Varrick si ostinava a mantenere eretto. I suoi occhi lo studiavano con insistenza, cercando una crepa, un punto debole. "Quindi è per questo, vero? Perché sono una cyberpugile. Lo detesti così tanto da non volermi nemmeno nella tua clinica."
Varrick non si mosse. Sembrava scolpito nella pietra, immobile, il volto indurito come una maschera che nascondeva tutto tranne la tensione. La mascella stretta, i muscoli delle braccia contratti, persino il modo in cui il suo respiro restava appena percettibile: tutto parlava di un autocontrollo feroce.
Baby si avvicinò di un altro passo, il suo tono si fece più tagliente. "Che cosa ti disturba così tanto?" Il suo sguardo non si staccava dal suo volto, anche se lui continuava a guardare altrove, come se ignorarla potesse bastare a farla andare via. "Sono i combattimenti crudeli? Le scommesse che girano attorno a tutto questo? O forse—"
"Basta." La parola uscì come un ringhio, appena sussurrata.
Baby, però, non era una che si fermava. "Hai un problema con il fatto che qualcuno come me voglia ancora provarci? Che qualcuno voglia inseguire un sogno nonostante tutto?"
L’aria nella clinica sembrava essersi fatta più pesante. Ogni ombra sembrava più cupa, ogni suono più ovattato. Varrick finalmente si girò, ma solo di poco. Era un movimento appena accennato, ma bastò a far incontrare per un istante i suoi occhiali con quelli di Baby.
"Parla, allora!" insistette, stringendo i pugni. "Dimmi perché vuoi cacciarmi. Dimmi cosa ti disturba così tanto di me o del cyberpugilato!"
La sua voce ruppe qualcosa. Varrick si mosse di scatto, voltandosi completamente verso di lei come una tempesta pronta a scatenarsi. "Perché è una farsa!" La sua voce rimbombò nella stanza, come un colpo che le fece quasi fare un passo indietro. "Perché non ha regole vere, non ha onore! È solo uno spettacolo mascherato da sport, e quelli come te finiscono sempre per rovinarsi! Non vuoi ascoltare? Bene, allora continua a giocare a fare la campionessa!” scosse la testa, come se parlare con lei fosse una causa persa. “Mi sorprende che tu non abbia una scia di vittorie alle spalle. Chi non ha una testa dura sul ring non dura nemmeno un round! Ma tu hai davvero la testa più dura che abbia mai visto, ragazzina."
Baby sobbalzò, il cuore che le martellava nel petto. Le sue parole l’avevano colpita più di quanto volesse ammettere. Ma c’era qualcosa in quella frase, in quel tono, che l’aveva fermata. Qualcosa che le suonava familiare, come un’eco di ricordi lontani. Si prese un momento per riflettere, il silenzio tra loro si fece quasi palpabile. E poi...
I suoi occhi si strinsero, una scintilla di intuizione accesa nella mente. "Per esserne uno che detesta così tanto il cyberpugilato," cominciò lentamente, un sorriso incerto che le si arricciava sulle labbra, "sei piuttosto aggiornato sulle espressioni iconiche dei suoi protagonisti." Si inclinò appena verso di lui, il tono più morbido ma pungente. "Quando l’hai detto: Chi non ha una testa dura sul ring non dura nemmeno un round!... mi sei sembrato quasi Il Terribile—"
La frase le si spezzò in gola. Le parole morirono sulle sue labbra mentre i pezzi del puzzle si incastravano nella sua mente. Ricordò i ritagli di giornale nella palestra, le vecchie foto sbiadite di un lottatore leggendario. Una figura imponente, un braccio alzato in segno di vittoria. Sotto, un nome che le aveva fatto battere il cuore quando era ragazzina: Il Terribile Kang.
Il respiro di Baby si fermò per un istante. Gli occhi le si allargarono, spostandosi febbrilmente tra il volto di Varrick e i ricordi che riaffioravano nella sua mente. Le immagini delle lotte trasmesse sui monitor dei negozi di elettronica le si riaffacciarono alla mente: quel lottatore che dominava il ring con movimenti precisi e micidiali, ogni colpo calcolato, ogni vittoria inevitabile.
Si girò di nuovo verso Varrick, questa volta con uno sguardo pieno di stupore e incredulità. Ogni dettaglio combaciava: la postura, la tensione nei muscoli, persino il modo in cui le sue mani avevano piegato il bordo del carrello di metallo, come se fosse carta.
"Tu..." sussurrò, le parole lente, cariche di emozione. "Tu sei... Il Terribile Kang."
Varrick alzò di scatto la testa, gli occhi guizzanti di sorpresa. Per un istante sembrò pietrificato, le labbra appena dischiuse come se le parole gli si fossero congelate in gola. Poi, con un gesto brusco, girò le spalle, come a chiudere un sipario invisibile. "Non so di cosa stai parlando," mormorò, la voce bassa e ruvida, carica di una tensione palpabile.
Baby lo fissò, incapace di distogliere lo sguardo, mentre il suo cuore batteva all’impazzata. Una sensazione strana, simile a una vertigine, le si arrampicò lungo la spina dorsale. Aveva la netta percezione di trovarsi davanti a qualcosa di enorme, un segreto che pulsava nell’aria, pesante come una tempesta imminente. Gli occhi le si spalancarono, fissi su di lui. Questa volta lo vedeva davvero, come se fino a quel momento avesse guardato attraverso una nebbia.
Osservò i suoi capelli neri, più corti rispetto alle immagini che aveva visto nei vecchi ologrammi, ma inconfondibili. Scandagliò la sua corporatura robusta, il portamento deciso, e quella sicurezza granitica che sembrava scolpita nei suoi movimenti. Era tutto lì, tutto. Come non aveva potuto notarlo prima?
E poi c’era la voce. Non l’aveva sentita spesso, ma quella tonalità profonda e tagliente le risuonava in mente con forza. Era la stessa che aveva catturato il suo immaginario da ragazzina, quando passava ore a fissare gli ologrammi sgranati delle trasmissioni sul cyberbox nei negozi di elettronica. Era lui. Non poteva essere nessun altro.
"Tu... sei Il Terribile Kang," sussurrò, la voce quasi spezzata, come se temesse che pronunciare quelle parole avrebbe potuto infrangere qualcosa di sacro. "Tu sei..."
Varrick rimase immobile, la schiena rigida come un arco teso. "Ti sbagli," ribatté con durezza.
Baby scosse la testa, incredula, cercando di raccogliere i pezzi di ciò che aveva appena capito. Ma ormai non c’era più modo di ignorarlo. Le mani le tremarono mentre si afferrava i capelli rosati, aggrovigliandoli tra le dita. Un misto di stupore, ammirazione e incredulità le bruciava nello sguardo.
"Per la miseria," mormorò, quasi senza fiato, mentre i suoi occhi si riempivano di una luce febbrile. "Sei davvero tu... la leggenda del cyberbox... davanti a me!"
Il suo sguardo risalì verso di lui, incredulo e febbrile. Lo fissava come se fosse un’apparizione, qualcosa che non avrebbe mai immaginato di incontrare nella realtà. Era una figura mitica, una leggenda che aveva preso vita davanti a lei. La sua voce tremava mentre parlava, come se stesse cercando di contenere un fiume in piena.
"Il Terribile Kang," ripeté con più forza, la meraviglia che le traspariva in ogni sillaba. "Come ho fatto a non accorgermene prima? Sei qui. Sei proprio qui, davanti a me."
Ogni parola era carica di un'emozione quasi dolorosa, come se il peso della scoperta fosse troppo grande da sostenere. Era sopraffatta, ma anche euforica, come se un sogno lontano e irraggiungibile si fosse improvvisamente materializzato davanti ai suoi occhi.
La realizzazione esplose nella mente di Baby come un fulmine, accendendo un incendio di pensieri e possibilità. Era come se il mondo, fino a quel momento avvolto da un grigio opprimente, si fosse improvvisamente riempito di colori vibranti. Il cuore le batteva all’impazzata, ma questa volta non era solo l'adrenalina dello stupore. No, questa era speranza, una sensazione che non provava da così tanto tempo da aver dimenticato quanto potesse essere travolgente.
Il suo volto si trasformò, la tensione e la confusione lasciarono il posto a un sorriso radioso che le illuminò i lineamenti. I suoi occhi, ancora fissi su Varrick, scintillavano di determinazione, come due stelle appena accese. "Ma certo..." mormorò, la sua voce carica di un'euforia quasi febbrile. "Potrebbe davvero funzionare!"
Varrick, che fino a quel momento era rimasto immobile, si voltò lentamente verso di lei. Il suo sguardo era ancora duro, indecifrabile, ma qualcosa nei suoi occhi tradiva un’ombra di preoccupazione, forse persino di curiosità.
Baby fece un passo avanti, come spinta da una forza invisibile. "Tu puoi allenarmi!" esclamò, le parole che le uscivano dalla bocca così velocemente che quasi non riusciva a crederci nemmeno lei. Era come se tutto ciò che aveva sempre desiderato, tutto ciò che aveva sempre sperato, fosse stato improvvisamente racchiuso in quella frase.
Le sue mani si mossero da sole, tese verso di lui, quasi a volerlo afferrare, a radicarlo nella sua realtà. "Tu sei Il Terribile Kang," continuò, la voce traboccante di entusiasmo. "Sei il più grande combattente del cyberpugilato, una leggenda vivente. Tu puoi insegnarmi. Tu puoi farmi diventare una campionessa, come te!"
Varrick si irrigidì, i suoi occhi si spalancarono per un attimo, come se le parole di Baby lo avessero colpito come un pugno in pieno volto. "Come?" chiese infine, la sua voce bassa, ma carica di un'incredulità palpabile.
"Pensaci!" continuò Baby, avvicinandosi ancora un po’. "Con il tuo aiuto potrei finalmente vincere qualche scontro! Non sarebbe magnifico? Ho solo bisogno di una possibilità!" Le sue mani si mossero animate, quasi a voler modellare l’idea davanti a lui. "E in poco tempo potrei guadagnare abbastanza da ripagarti ogni singolo crybz che ti devo. Tutto risolto!"
La sua voce si incrinò leggermente, ora quasi supplicante, come se ogni parola contenesse un pezzo della sua anima. "Ti prego, Varrick!"
Ma prima che potesse proseguire oltre, lui la interruppe con un tonante: "No!"
La parola risuonò nell’aria come uno schiaffo. Ferma, decisa, inamovibile. La fronte aggrottata, gli occhi scuri come nubi di tempesta. Il contrasto tra la sua severità e l’euforia di Baby era abissale, un uragano che spezzava in un attimo la sua corsa verso il sogno.
Baby si bloccò, come se quelle due lettere avessero formato una barriera invisibile tra di loro. Il suo sorriso si congelò, la speranza che le bruciava dentro vacillò, ma non si spense del tutto. Stava già cercando un modo per aggirare quel muro, per scalfire quella risposta definitiva che lui le aveva lanciato addosso.
Varrick scosse la testa, con un'espressione cupa che sembrava voler mettere fine a ogni discussione. Fece per allontanarsi senza aggiungere altro, i suoi movimenti rapidi e decisi, come se volesse tagliare di netto la conversazione. Baby lo seguì a passo svelto, la determinazione ancora intatta nei suoi occhi.
"Ti prego!" lo implorò, quasi senza fiato, ma l'uomo non si fermò nemmeno per guardarla. La sua schiena era un muro inespugnabile, e il suo passo si fece più rapido, quasi nervoso, dirigendosi verso l’entrata della clinica.
Baby si aspettava che si avvicinasse alla porta con la vetrata, ma lui la sorprese. Si fermò davanti a una credenza incassata nel muro, aprì le ante con gesti bruschi e decisi e cominciò a rovistare al suo interno. Ne tirò fuori una manciata di oggetti: alcune razioni di cibo in involucri sigillati, bottiglie d’acqua e altre forniture essenziali. Baby lo osservò, confusa, seguendo i suoi movimenti rapidi con gli occhi.
Poi lui si piegò, afferrando la vecchia sacca d'allenamento che Baby aveva completamente dimenticato fino a quel momento. L’oggetto sembrava appartenere a un altro tempo, consumato e segnato dagli anni, con le cuciture sfilacciate agli angoli. Senza dire una parola, Varrick iniziò a infilare dentro tutto ciò che aveva preso dalla credenza, le sue mani si muovevano con una rapidità e una precisione che trasmettevano impazienza.
"Che cosa stai facendo?" chiese Baby, avvicinandosi a piccoli passi, indecisa se intervenire o aspettare che fosse lui a darle una spiegazione.
"Un omaggio della clinica," rispose Varrick bruscamente, senza nemmeno alzare lo sguardo su di lei. La sua voce era un taglio netto, fredda e priva di emozione.
Chiuse la cerniera della sacca con un gesto deciso e improvvisamente gliela spinse contro il petto. Baby vacillò leggermente sotto il peso inaspettato, ma il suo braccio cibernetico, più forte del previsto, riuscì a reggere la sacca senza farla cadere. Lo sguardo di lei si alzò lentamente verso l’uomo, ma prima che potesse dire qualcosa, lui alzò una mano per interromperla. "Senti, ragazzina. Hai avuto quello che volevi."
Il tono di Varrick era definitivo, tagliente, come se volesse chiudere la questione una volta per tutte. "Se quello che ti spinge a continuare a importunarmi—"
"Importunarti?" lo interruppe Baby, il tono un misto di indignazione e incredulità. "Io non sto—"
"Se è il debito con me," proseguì lui senza lasciarle il tempo di finire, "allora ti assolvo dall’obbligo."
Indicò la porta con un gesto secco della mano, come se volesse scacciarla via. "Sei libera di andare."
Le sue parole colpirono Baby come un pugno nello stomaco. La sacca che reggeva sembrava improvvisamente più pesante, non tanto per il suo contenuto, quanto per il significato che portava con sé. Lei lo fissò, cercando un segno di esitazione nel suo volto, ma Varrick sembrava fatto di pietra, immobile e impenetrabile, come se ogni emozione fosse stata spazzata via da una volontà di ferro.
Baby non si mosse, restò immobile, con la sacca ancora stretta al petto e lo sguardo fisso su Varrick. Qualunque scintilla di determinazione o sfacciataggine avesse animato i suoi occhi fino a un attimo prima si spense, lasciando spazio a un'espressione che mescolava smarrimento e supplica. Il suo corpo rimase rigido, ma i suoi occhi, ora lucidi e imploranti, tradivano il peso delle domande che si accumulavano nella sua mente.
Perché lui reagiva così? Perché un uomo che aveva vissuto e dominato quel mondo come una leggenda ora lo respingeva con una tale veemenza? La repulsione di Varrick verso il cyberpugilato non aveva senso per Baby, soprattutto perché quella disciplina non era solo la sua vita, era stata la sua gloria.
Baby si morse il labbro, esitante. Sentiva il bisogno di dire qualcosa, ma allo stesso tempo aveva paura di spingere troppo. La tensione tra loro era palpabile, e lei non voleva rischiare di peggiorare la situazione. Ma doveva sapere. Doveva capire.
Abbassò la voce, parlando con una titubanza che non le apparteneva. "È per quella sconfitta, non è vero?" chiese, scegliendo le parole con cura, quasi temendo la sua reazione. "Quella contro il Magnifico Lune… tuo fratello."
L’impatto delle sue parole fu immediato. Varrick la fissò, immobile, con uno sguardo che sembrava volerla perforare, ma non c'era rabbia nei suoi occhi. Non questa volta. La sua espressione si allentò, per quanto fosse possibile su quel viso duro e segnato. Le mascelle non erano più serrate come prima, ma i lineamenti restavano tesi, come se contenessero qualcosa di molto più profondo. La rabbia, che fino a quel momento sembrava il suo unico scudo, si dissolse gradualmente, lasciando spazio a un miscuglio di stanchezza e rammarico.
Baby lo notò subito. Poteva vederlo chiaramente ora: la fatica, il peso di qualcosa che lui portava con sé da troppo tempo. Era scritto nelle spalle leggermente incurvate, nei movimenti meccanici delle mani, nell'ombra che sembrava sempre avvolgerlo. Varrick non rispose. Rimase lì, immobile, come se le sue parole avessero aperto una ferita che aveva cercato di sigillare a tutti i costi.
Baby abbassò lo sguardo, un’ondata di senso di colpa la colpì come un pugno. "Mi dispiace," mormorò, stringendo nervosamente la sacca che aveva ancora tra le mani. "Non volevo essere insensibile..."
Non si aspettava una risposta, e infatti lui rimase in silenzio, ma la sua espressione parlava per lui. Era un punto dolente, uno che nessuno aveva osato toccare per tanto tempo. Baby lo sapeva. La sua mente tornò indietro a quel giorno, a quello che ricordava di quell’evento.
Era stato l’argomento principale in tutte le megalopoli dello stato per mesi. L’incontro tra i fratelli Kang, il Terribile Kang contro il Magnifico Lune, era stato pubblicizzato come l’evento del secolo. Non si trattava solo di una sfida tra due cyberboxer leggendari; era una battaglia tra due giganti, due miti viventi. Il risultato avrebbe cambiato per sempre il panorama del cyberpugilato.
Ma non era la sconfitta di Varrick a essere diventata una macchia indelebile nella sua carriera. No, il mondo intero avrebbe potuto accettare che uno dei due perdesse. Qualcuno doveva cadere, e anche il secondo miglior cyberboxer dello stato sarebbe stato comunque una leggenda. Il problema non era il fatto della sconfitta, ma come era avvenuta.
Baby ricordò vividamente quel giorno. Era solo una ragazzina allora, ma come tutti gli altri, si era radunata nella piazza centrale della città per guardare l’incontro trasmesso sugli enormi proiettori olografici. Le immagini riempivano l’intero spazio sopra la folla, due figure immense che si fronteggiavano sopra le teste di centinaia di spettatori esaltati.
Ma il Terribile Kang, il gigante invincibile, sembrava la pallida ombra di sé stesso. Sin dal primo round aveva preso colpi su colpi, vacillando più e più volte. Ogni volta che cadeva, il pubblico tratteneva il respiro, incredulo. Lui, che non era mai stato messo al tappeto in tutta la sua carriera, sembrava incapace persino di mantenersi in piedi. Dopo appena un’ora, il Magnifico Lune lo aveva abbattuto con un gancio pulito, lasciandolo disteso al suolo in una scena surreale.
Era stata un’umiliazione pubblica. Un evento che nessuno riusciva a spiegarsi. Il Terribile Kang era stato un muro, un titano, il solo cyberboxer che non si era mai inginocchiato davanti a nessuno. Eppure, in quella notte disastrosa, suo fratello lo aveva sconfitto con una facilità quasi ridicola.
Le voci si erano diffuse come un incendio: un ubriacone, lo avevano chiamato. Un fallito. I pettegolezzi parlavano di allenamenti trascurati, di debolezze nascoste. La reputazione di Varrick, costruita in anni di sangue e sudore, era andata in pezzi nel giro di poche ore. I fan lo avevano abbandonato, gli sponsor lo avevano schernito. Per Baby, era chiaro ora: quella sconfitta non era stata solo una caduta. Era stata una rovina.
"Vai," disse Varrick finalmente. Il suo tono non era più arrabbiato, solo stanco, come se quelle poche lettere fossero costate più di quanto avrebbe voluto ammettere.
Baby capì che era meglio non insistere, ma la sensazione di lasciare quella stanza in quel modo la faceva stare male. Con riluttanza, si avvicinò alla porta, infilando la sacca sulla spalla. Si voltò un attimo indietro, sperando di trovare nei suoi occhi qualcosa di più, ma lui era già a braccia incrociate, lo sguardo perso altrove, rigido e inaccessibile come una statua di ferro.
Rimase lì per un momento, combattuta. Poi abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro. Fece un passo verso la porta, alzò la mano per afferrarla, ma si bloccò. Un pensiero improvviso la fermò, qualcosa che non poteva ignorare. Si voltò di nuovo verso di lui.
"Non so cosa sia successo," disse, la sua voce tremante ma sincera. "Ma quella sconfitta non può cancellare tutto quello che sei stato. Sei stato una leggenda, sei ancora una leggenda per persone come me!"
Lui non rispose, continuando a fissare un punto indefinito davanti a sé, le braccia incrociate. Baby strinse i pugni, cercando di dominare l’agitazione. Non poteva lasciare che finisse così.
"Anche i migliori perdono," continuò, la sua voce più forte ora, carica di determinazione. "L’importante non è evitare di cadere. L’importante è sapersi rialzare!" Sollevò il pugno per enfatizzare le sue parole.
Finalmente Varrick si mosse, ma non come Baby sperava. Sbuffò, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi, e si avvicinò a lei con passi lenti ma decisi. Il suo volto era stanco, segnato, ma i suoi occhi brillavano di una frustrazione trattenuta.
"Ti ho già detto di lasciar perdere," disse con una calma glaciale. "Non sono più quel Varrick. E non ti devo niente."
Baby scosse la testa, rifiutandosi di mollare. "Sei l’unico che può aiutarmi! Perché non vuoi darmi una possibilità?”
"Basta, ragazzina," disse Varrick con fermezza, il tono tagliente e definitivo. Fece un passo deciso verso la porta, l’aprì con uno scatto, e prima che Baby potesse reagire, le spinse la mano sulla spalla, indirizzandola verso l’uscita.
"Varrick, ti prego, ascoltami!" gridò Baby, cercando di rimanere dentro, le dita che si aggrappavano al bordo della porta come se quello potesse fermarlo. Ma lui non cedeva, la sua figura bloccava il varco come una montagna.
"Non c’è più niente da dire," ribatté, la voce più bassa ma non meno ferma. "Questa conversazione finisce qui."
Baby lo fissò, il cuore che le martellava nel petto, le parole che si spegnevano sulle labbra. Lui però non ricambiò lo sguardo; era già voltato verso l’interno, come se stesse cercando un ultimo modo per chiudere definitivamente la questione.
Prima che chiudesse la porta, Baby sentì un sibilo nell’aria e, un attimo dopo, qualcosa di morbido la colpì al petto. Barcollò appena, abbastanza sorpresa da lasciare andare la porta. Guardò verso il basso e vide una felpa sgualcita, scura, chiaramente usata ma ancora calda di lui.
Aveva preso la felpa dall'attaccapanni vicino alla porta, un movimento rapido e pratico, come a voler dare qualcosa senza renderlo significativo.
Baby strinse il tessuto tra le mani, sentendo l’odore di vecchio sapone e sudore stantio. Alzò lo sguardo verso di lui, ma Varrick già richiudeva la porta con un gesto deciso.
"Varrick!" provò ancora, la voce spezzata.
L’uomo si fermò per un istante, la mano appoggiata alla porta. Un momento che sembrò sospeso, come se fosse sul punto di dire qualcosa, di concedere un’ultima parola. Ma quando finalmente si mosse, lo fece solo per richiudere il portone, questa volta con lentezza, lasciandola dall’altro lato.
Baby rimase immobile davanti alla porta chiusa, stringendo la felpa contro di sé come una sorta di scudo contro il freddo improvviso che la investiva, sia fuori che dentro. La sacca le pesava sulla spalla, e una sensazione di vuoto si arrampicava nel petto, mordendole le costole.
Eppure, nonostante tutto, si costrinse a sollevare il mento. Non poteva finire lì. Lui aveva chiuso la porta, ma Baby sapeva che non era un addio. Era solo un’altra sfida, e lei era decisa a combatterla.
Quando abbassò lo sguardo, il morbido peso della coperta le ricordò dov’era. Le sue dita si mossero istintivamente lungo il tessuto, esplorandone la trama, quasi per confermare che fosse reale, e poi sollevò lo sguardo, cercando un punto di riferimento. La stanza era silenziosa, ma non del tutto vuota. La televisione, prima viva di suoni e immagini, era spenta, una sagoma scura nell'angolo della clinica. La sedia accanto al tavolo era vuota. Non c’era traccia del cyrurgo.
Baby sentì un’improvvisa fitta di ansia. Era sola? La calma precedente lasciò spazio a un sottile senso di abbandono, un freddo diverso da quello che la coperta poteva scacciare. Si tese, ogni muscolo protestando al movimento, e ascoltò.
Fu allora che il silenzio fu interrotto da un rumore. Un tintinnio metallico, seguito da un suono più deciso, un colpo secco. Baby girò lentamente la testa verso la fonte, il cuore che accelerava. Qualcuno stava trafficando con qualcosa di metallo, forse una strumentazione, o degli attrezzi.
Il cyrurgo era lì. Anche se non riusciva ancora a vederlo, sapeva che non era mai andato via.
Baby inspirò lentamente, come a prepararsi per ciò che stava per fare. La coperta era calda e avvolgente, ma anche opprimente, quasi un ostacolo tra lei e il mondo reale, perciò decise che era ora di muoversi. Con cautela, fece leva sul suo braccio buono e sollevò il busto, sentendo i muscoli tendersi dopo un lungo riposo. La coperta scivolò giù, ammucchiandosi sulle sue gambe.
Un peso diverso attirò la sua attenzione. Abbassò lo sguardo, inizialmente confusa. L’assenza del familiare dolore e della sensazione instabile che accompagnava il vecchio ammasso di metallo al posto dell’altro braccio la disorientò per un momento. Poi, si rese conto del cambiamento.
I suoi occhi si spalancarono. Il braccio che aveva al posto del vecchio impianto decadente era... bellissimo. Non c’era altra parola per descriverlo. Il metallo splendeva di un tenue rosa pallido, che sembrava quasi fatto apposta per armonizzarsi con i suoi capelli. Le guance le si scaldarono, un arrossire improvviso che la colse alla sprovvista. Il cyrurgo aveva scelto quel colore di proposito. Non era un dettaglio casuale; aveva prestato attenzione, l’aveva osservata.
Baby studiò il nuovo arto con meraviglia crescente. I cavi sotto le placche di metallo erano sottili, elegantemente disposti lungo l’intera struttura, come vene d’acciaio che pulsavano una forza invisibile. Sembravano fragili, ma ogni fibra dava l'impressione di solidità.
Sollevò la mano, muovendo lentamente le dita. Obbedivano al suo comando con una naturalezza sconvolgente, senza il minimo ritardo o esitazione. La fluidità del movimento era così precisa che, per un attimo, Baby si chiese se fosse davvero artificiale. Era come se fosse il suo vero braccio, la sua carne, il suo sangue.
Sperimentò, sfiorando pollice e indice insieme. Nessun suono meccanico, nessun cigolio metallico. Solo un sottile tic, appena percettibile, quando le superfici si incontravano. Era un suono delicato, quasi musicale, che si armonizzava con la raffinatezza dell'arto.
Baby non riusciva a distogliere lo sguardo. Non solo era qualcosa di funzionale, ma un'opera d'arte.
Il suo nuovo braccio le strappò un sorriso, uno di quelli che non poteva trattenere nemmeno volendo. Era un sorriso piccolo, intimo, ma reale. Per un momento si sentì avvolta da un calore che sembrava provenire dal centro del petto, un calore che scacciava la stanchezza e la paura. Doveva ringraziarlo. Il cyrurgo le aveva dato qualcosa che non avrebbe mai osato chiedere: un dono che la faceva sentire, almeno per un istante, intera, e pronta a combattere.
Con una determinazione nuova, Baby scostò le gambe da sotto la coperta, lasciandola ricadere sul divano. Solo allora notò che le scarpe erano sparite. Abbassò lo sguardo sui calzini, un po' sgualciti, che le coprivano i piedi. Lui doveva averle tolto le scarpe, forse per farla stare più comoda. La cosa la sorprese e, in un certo senso, la commosse.
Le cercò con lo sguardo, trovandole poco distanti, nascoste in parte dall’ombra. Si alzò con cautela, le gambe un po’ rigide dopo essere rimasta sdraiata tanto a lungo. Raggiunse le scarpe, infilando i piedi con gesti rapidi e automatici, un'abitudine radicata in anni di necessità e movimento costante.
Quando fu pronta, si guardò attorno. La stanza sembrava immobile, soffocata dal silenzio, eppure i rumori metallici continuavano a farsi sentire, echeggiando come piccole scosse elettriche tra gli scaffali pieni di attrezzi e fascicoli impilati in un disordine organizzato.
Baby seguì quel suono, spostandosi con passi cauti tra gli scaffali. Il nuovo braccio scintillava lievemente sotto la luce fioca, un promemoria costante di ciò che aveva appena ricevuto. Si sentiva strana, come se un'altra versione di sé stessa si stesse facendo strada tra i corridoi della clinica, alla ricerca dell’uomo che aveva reso tutto possibile.
Il rumore si faceva sempre più nitido mentre Baby si avvicinava. Oltrepassato l’ultimo scaffale, si trovò davanti alla saletta operatoria. Era esattamente come la ricordava, un luogo che sembrava sospeso tra un’officina e una clinica: il lettino al centro, i rubinetti con le tracce di recente utilizzo, il carrello degli attrezzi sparpagliati e i lunghi scaffali sigillati che probabilmente contenevano pezzi di ricambio e impianti.
Al centro della stanza, stava il cyrurgo, Varrick. Non c'era nessun paziente con lui, né sembrava impegnato a pulire i suoi strumenti. Era invece chinato su un carrello, apparentemente concentrato su qualcosa. Baby fece qualche passo più vicina, fermandosi di colpo quando vide cosa stava facendo: davanti a lui, su un vassoio di metallo, giaceva il suo vecchio braccio.
Era in condizioni disastrose, un pezzo di rottame più che un’appendice funzionante. I bordi del metallo erano sbiaditi e screpolati, i cavi pendenti erano ricoperti da una patina scura, e le giunture sembravano irrimediabilmente arrugginite. Baby lo fissò per un lungo momento, un misto di vergogna e sollievo attraversandole il petto. Era difficile credere che fino a poche ore prima fosse stato parte di lei.
Varrick, ignaro della sua presenza o forse semplicemente non interessato, lo stava studiando con attenzione. Le sue mani cibernetiche, precise e ferme, lo vivisezionavano. Le dita scivolavano sui solchi profondi delle nocche, tracce di anni di colpi inferti e ricevuti, e percorrevano le pieghe deformate che avevano modellato il metallo in una forma irreparabilmente distorta.
Il cyrurgo sembrava perso nei suoi pensieri, le sopracciglia leggermente aggrottate in una curiosità assorta. Baby si chiese cosa potesse vedere in quel mucchio di rottami. Forse stava cercando di capire come fosse arrivato a ridursi in quello stato, o forse stava valutando se ci fosse ancora qualcosa da salvare. Ma l’idea che ci fosse ancora valore in quel vecchio pezzo di metallo sembrava assurda, quasi quanto il fatto che lui avesse deciso di sostituirlo con un capolavoro.
Baby non riusciva a capire cosa potesse vedere in quel braccio. Perché non l'aveva semplicemente buttato via? Era solo un pezzo di ferraglia ormai, un ricordo inutile del passato. Ma proprio mentre i suoi pensieri si infittivano, una voce interruppe il silenzio:
"Come ti senti?"
La domanda la fece sobbalzare leggermente. Era stato lui a parlare, senza alzare lo sguardo dal braccio che continuava a maneggiare con precisione meticolosa. L'aveva notata, forse da quando aveva messo piede nella stanza. Baby si accorse di sorridere, anche se lui non la stava guardando. Sollevò il nuovo braccio cibernetico, lasciando che la luce pallida del neon lo illuminasse.
"Da favola," rispose, e l’entusiasmo nella sua voce era sincero.
Varrick annuì appena, un gesto quasi impercettibile. "Bene," disse con un tono piatto, distante, e tornò al silenzio.
Il vuoto che seguì era pesante. Baby si morse il labbro, chiedendosi se la conversazione fosse già finita. Non sembrava esserci molto altro da dire, eppure l’idea di tornare indietro, di lasciare quella stanza le sembrava sbagliata. Si guardò intorno, senza trovare nulla che potesse catturare la sua attenzione. Non c’era nulla da fare in giro.
Alla fine, decise di avvicinarsi al cyrurgo. I suoi passi erano leggeri, come se temesse di disturbare un rituale.
"Cosa stai facendo?" chiese, la curiosità mescolata a una timida esitazione.
Varrick non alzò lo sguardo, ma le sue mani si fermarono un istante sul vecchio braccio, come se la domanda lo avesse costretto a riflettere. Poi riprese, con la stessa calma di prima.
"Stavo osservando," rispose Varrick, la sua voce appena un sussurro che si confondeva con il lieve ronzio delle luci al neon.
Baby inclinò la testa, incuriosita e un po' titubante. Lo osservò far scorrere le sue dita metalliche sui profondi solchi del vecchio braccio meccanico. Era un movimento lento, meticoloso, quasi reverenziale, come se stesse analizzando ogni graffio e imperfezione per ricostruirne la storia. La sua fronte si corrucciava sempre di più, un'espressione di turbamento che le fece stringere inconsciamente le mani.
Per un lungo momento, nella stanza ci fu solo il suono delle dita metalliche che sfioravano il metallo malconcio. Poi, improvvisamente, Varrick parlò di nuovo. "Ti piace gettarti nelle risse?" chiese, la sua voce priva di intonazione, ma carica di un sottile giudizio.
La domanda la colpì come un fulmine a ciel sereno. Baby spalancò gli occhi, stupita, quasi incapace di credere alle sue orecchie. "Cosa?" esclamò, la sua voce alzandosi involontariamente di tono. Per un istante rimase senza parole, poi scosse la testa con veemenza, come se volesse scacciare l'insinuazione.
"Non sono una delinquente! Non attaccherei mai qualcuno per strada!" aggiunse, il tono fermo e carico di indignazione, le guance lievemente arrossate per la rabbia e l’imbarazzo.
Nonostante il suo sfogo, Varrick non mostrò alcuna reazione visibile. Continuò a studiare il vecchio braccio cibernetico come se fosse l’unica cosa che meritasse la sua attenzione, i suoi occhi fissi sui solchi e sulle ammaccature. Era come se il metallo danneggiato raccontasse una storia che solo lui poteva comprendere, un linguaggio silenzioso fatto di graffi e cicatrici meccaniche.
"Una malformazione così notevole del metallo può avere solo una spiegazione," continuò Varrick, il tono della sua voce più basso, ma carico di una gravità che non lasciava spazio a repliche. Fece scorrere lentamente le dita metalliche sui profondi solchi che deformavano il braccio cibernetico, seguendoli come se fossero una mappa che conduceva a una verità oscura.
Si fermò di colpo, la sua mano immobile sopra le cicatrici del metallo, e abbassò leggermente il capo, ponderando qualcosa di invisibile. Baby rimase immobile, il fiato bloccato nel petto, come se anche il minimo movimento potesse spezzare la tensione che improvvisamente si era formata nella stanza. Non riusciva a leggere la sua espressione; sembrava assorto in pensieri troppo profondi per essere condivisi.
Poi, inaspettatamente, Varrick alzò lo sguardo verso di lei. I suoi occhiali, freddi e penetranti, la fissarono con una durezza che la fece quasi indietreggiare. Era la stessa espressione che aveva visto quando l'aveva sorpresa a rubare nella sua clinica: non un'esplosione di rabbia, ma un giudizio gelido, più tagliente di qualsiasi rimprovero.
"Dimmi," iniziò, la sua voce priva di esitazione. "Non sei una ladra." Fece una pausa, lasciando che le sue parole affondassero. "Sei troppo inesperta per esserlo davvero, e ciò che hai fatto è stato chiaramente spinto da una disperazione recente."
Baby sentì il sangue gelarsi nelle vene mentre lui parlava, la sua analisi tagliente sembrava smontarla pezzo per pezzo.
"Ma," continuò Varrick, i suoi occhi stretti in una linea inquisitoria, "non sei nemmeno una delinquente che si getta nelle risse, a giudicare da quello che dici." Si avvicinò di un passo, lasciando il braccio cibernetico sul carrello senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
"Ebbene," concluse, il tono della sua voce diventato più incisivo, quasi una sfida. "Se non sei nessuna di queste due cose, allora... cosa sei?"
La domanda, così diretta e carica di aspettative, fece vibrare l'aria intorno a loro. Baby si sentì improvvisamente nuda sotto quel peso, come se fosse stata smascherata di fronte a una parte di sé che non voleva affrontare. Abbassò lo sguardo, cercando qualcosa da dire, ma ogni risposta sembrava inadeguata. Eppure sapeva che quella non era solo una domanda: era una richiesta, un'esigenza di verità.
Baby, stranita dalla direzione inaspettata che quella conversazione stava prendendo, decise di affrontare la questione con un pizzico di orgoglio e un sorriso che sfidava il silenzio. Spinse il petto in fuori, il nuovo braccio cibernetico in bella vista, come se fosse sul punto di salire su un ring, e dichiarò con voce sicura: "Sono una cyberpugile. Una cyboxer!"
Le parole uscirono con la stessa forza con cui avrebbe assestato un pugno ben calcolato, e Baby restò ferma ad aspettare la reazione. Forse Varrick l’avrebbe fissata incredulo, magari con un sorrisetto sarcastico o un commento tagliente. Si preparò anche all’idea che avrebbe potuto ridere di lei, di quella ragazzina che osava definirsi una combattente.
Ma la reazione che ricevette fu tutt’altro che prevedibile.
Varrick si irrigidì come se quelle parole lo avessero colpito al petto, scuotendo qualcosa di profondo dentro di lui. Le sue mani metalliche, che prima si muovevano con metodica precisione sul vecchio braccio cibernetico, si bloccarono di colpo. Poi, lentamente, le dita si chiusero a pugno, un suono sordo di metallo che si torceva sotto la tensione.
L’uomo solitamente imperturbabile sembrava trasformato. Il suo corpo, che di solito emanava un’energia contenuta e calma, era ora rigido come una corda tesa. Baby non poteva vedere i suoi occhi nascosti dietro i pesanti occhiali cibernetici, ma percepì chiaramente lo sguardo bruciante che la trapassava. Era come se l’avesse inchiodata al pavimento, incapace di muoversi.
"Che cosa hai detto...?"
La sua voce era poco più di un sussurro, ma c’era qualcosa in quel tono che fece accapponare la pelle di Baby. Non era incredulità, né ammirazione. Era qualcosa di più complesso, più oscuro.
Lentamente, Varrick si voltò completamente verso di lei. La sua postura era rigida, il volto difficile da leggere. Le labbra erano dischiuse in un’espressione che sembrava a metà tra il turbamento e il disappunto, ma dietro quegli occhiali Baby avvertiva una tensione che non sapeva spiegare. Si sentiva improvvisamente a disagio sotto il peso di quel silenzio. Ogni battito del cuore le sembrava amplificato, rimbombando nelle orecchie come un tamburo.
Varrick rimase in silenzio ancora per qualche secondo, abbastanza a lungo da farle dubitare di aver parlato ad alta voce. Poi riprese:
"Ripeti."
Baby deglutì, il suo entusiasmo iniziale smorzato dall’atmosfera tesa. Non sapeva se era un ordine o una richiesta, ma il tono dell’uomo lasciava poco spazio al rifiuto.
"Io... sono una cyberpugile," mormorò di nuovo, questa volta con meno sicurezza. "Una cyboxer."
La tensione nell’aria si fece quasi insostenibile, e Baby si chiese che cosa mai avesse scatenato quella reazione in lui.
Varrick rimase immobile, la figura rigida come scolpita nel metallo. Ogni muscolo, ogni componente sembrava bloccato in un fermo immagine, come se il tempo stesso si fosse arrestato. Baby lo osservava, e con il passare dei secondi l’iniziale curiosità si trasformò in un leggero senso di inquietudine. Che cosa gli stava succedendo?
Lentamente, le sopracciglia di Baby si corrugarono, un pensiero preoccupante cominciava a formarsi nella sua mente. "Qualcosa non va?" chiese infine, la voce più insicura di quanto avrebbe voluto.
La sua domanda sembrò scuoterlo. Varrick si mosse, ma con una lentezza innaturale, come se stesse cercando di rimettere insieme i pezzi di un ricordo troppo pesante da sopportare. Senza dire nulla, si voltò, dandole le spalle, con la mano si massaggiava la nuca come a tentare di alleviare una pressione invisibile.
"Tra tutte le persone che potevano capitarmi..." borbottò, la voce bassissima, quasi impercettibile, ma sufficiente per raggiungere le orecchie di Baby.
Il tono delle sue parole era strano, una mescolanza di frustrazione, incredulità e forse qualcosa di più profondo, qualcosa che Baby non riusciva a decifrare. Si mordicchiò il labbro, indecisa su cosa fare. Poi, spinta da un misto di apprensione e curiosità, fece qualche passo in avanti, accorciando la distanza tra loro.
"Stai bene?"
La sua voce, gentile e carica di sincera preoccupazione, tagliò il silenzio della stanza. Il rumore dei suoi passi sul pavimento fu l’unica risposta per un istante. Varrick rimase ancora fermo, la sua figura proiettava un’ombra lunga sotto la luce fredda della stanza.
Varrick prese un respiro profondo, uno di quelli che sembrano progettati per contenere un’esplosione interna. Non disse nulla. Poi, con una brusca decisione, afferrò il vecchio braccio cibernetico che aveva continuato a maneggiare fino a quel momento.
Con passi pesanti e cadenzati, si voltò, allontanandosi da Baby senza nemmeno guardarla, diretto verso un carrello metallico posizionato in un angolo della sala. Baby lo seguì con lo sguardo, la confusione che cresceva dentro di lei come un groviglio. Non capiva. Poi lo vide sollevare il braccio meccanico, un gesto deciso e carico di tensione, e gettarlo nel carrello con una forza quasi eccessiva.
Il metallo colpì la superficie con un suono sordo e violento, rimbalzando tra gli altri pezzi accatastati con un clangore metallico che riecheggiò nella stanza. Baby sobbalzò, la potenza del gesto la colse di sorpresa. Rimase immobile, gli occhi fissi sulla schiena di Varrick, che era fermo davanti al carrello. Aveva le mani strette attorno ai bordi come se stesse cercando di trattenersi dal fare qualcosa di azzardato. Il silenzio che calò era opprimente, quasi palpabile, e la tensione nella stanza sembrava vibrarle sulla pelle. Baby si mordicchiò il labbro inferiore, cercando di dare un senso a quella reazione.
Finalmente, Varrick parlò. La sua voce era piatta, apparentemente priva di emozione, ma c’era una durezza nascosta, un qualcosa che Baby non riuscì a decifrare. "Puoi andare adesso."
Quelle parole la colpirono come un pugno allo stomaco. Baby rimase interdetta, il cuore che batteva più forte nel petto. Erano fredde, spietate nella loro semplicità, e la lasciarono sospesa in un mare di domande. "Andare?" ripeté, la sua voce sottile e confusa.
Fece un passo avanti, cercando di guardarlo, ma Varrick non si voltò. Le sue spalle erano rigide, le braccia immobili, ancora saldamente aggrappate al carrello come se temesse che lasciarlo andare potesse scatenare qualcosa di irreparabile.
“Intendi... fuori dalla clinica?” aggiunse Baby, l’incertezza che si rifletteva nel tono della sua voce. Il nodo che sentiva crescere nello stomaco si strinse ancora di più. Perché? La domanda rimase sospesa nella sua mente. Non poteva crederci. Dopo averla aiutata, dopo averle ridato quel braccio così perfetto, ora la stava mandando via così bruscamente? Perché?
"Esatto," rispose Varrick, e la parola sembrò tagliare l’aria come una lama. La sua voce era ruvida, quasi ringhiante, e il tono lasciava intendere che non volesse discutere ulteriormente.
Baby lo osservò attentamente, cercando di decifrarlo. Non era solo irritazione quella che percepiva, ma qualcosa di più profondo e radicato. Era arrabbiato, sì, ma c'era anche qualcos'altro. Si chiese cosa avesse detto per scatenare una reazione del genere. Era stato il riferimento al cyberpugilato?
Deglutì, sentendo un nodo crescere nella gola. Sapeva che la scelta più sicura sarebbe stata andarsene, fare quello che le aveva detto e non voltarsi indietro. Ma dove sarebbe andata? Non aveva un posto in cui rifugiarsi, né persone che la stessero aspettando.
Le sue mani scivolarono involontariamente verso il braccio cibernetico nuovo, accarezzandolo con gratitudine e una punta di nervosismo. Poi un'idea le balenò in mente, un pensiero folle, ma che sembrava essere l’unica opzione possibile.
Non poteva lasciarsi scappare quell’opportunità. Poteva provare a convincerlo a lasciarla rimanere. Dopotutto, la clinica, così come l’uomo che la gestiva, sembrava trascurata, un luogo che avrebbe potuto facilmente finire dimenticato.
"Posso aiutarti," disse di getto, le parole che le uscivano più veloci di quanto avesse pianificato. "Potrei... tenere in ordine la clinica, pulire, organizzare gli scaffali. Questo posto potrebbe attirare più clienti se fosse un po’ più... accogliente."
Varrick non si mosse. Il suo corpo rimase rigido, ma Baby non si arrese. Sentì una strana determinazione crescere dentro di sé. "Davvero," aggiunse, cercando di mascherare il nervosismo con un tono più leggero, "potrei essere utile. Hai detto tu stesso che non sono una ladra. E io..." esitò un attimo, cercando le parole giuste, "non ho un altro posto dove andare."
Un’ombra attraversò il volto di Varrick, ma non si voltò verso di lei. Baby intravide un piccolo movimento delle sue spalle, forse un sospiro o un tremito, difficile dirlo.
Baby fece un passo avanti, determinata a farsi ascoltare. "Non ho altro modo per ripagarti," dichiarò con voce ferma, nonostante un’ombra di esitazione le gravasse sul cuore. Poi alzò le braccia al cielo in un gesto quasi teatrale, come se volesse arrendersi al suo stesso destino. "Se mi lasci stare qui, posso... ripagarti aiutandoti nella clinica."
Fece una pausa, aspettandosi che Varrick la fermasse, che le dicesse qualcosa, ma lui rimase in silenzio, il volto un enigma sotto gli occhiali cibernetici. Allora continuò, il tono più caldo e sfumato da una punta di frustrazione. "Mi guadagnavo da vivere come cyberpugile," ammise, le parole lasciandole un retrogusto amaro in bocca. "Ma non ho fatto altro che accumulare sconfitte dopo sconfitte. E adesso..." Il ricordo dell’ultima conversazione con il suo allenatore le si affacciò nella mente come un pugno allo stomaco. Scosse la testa, un lampo di rabbia le attraversò gli occhi mentre incrociava le braccia sul petto. "Adesso sono stata tagliata fuori dalla palestra. Non avevo abbastanza soldi per pagarli, e per loro questo è tutto ciò che conta."
Per un istante rimase lì, a fissare Varrick, aspettandosi una reazione, un qualunque segnale che stesse ascoltando. E fu allora che accadde.
"Vuoi continuare a esserlo?" La voce di Varrick, tagliente e piena di un’intensità quasi inquietante, ruppe il silenzio come un fulmine.
Baby si irrigidì, sorpresa dal tono improvvisamente severo, quasi accusatorio. Era come se lui stesse scavando direttamente nella sua anima, soppesando ogni parola che aveva appena detto. Fece un mezzo passo indietro, la sua sicurezza vacillò per un attimo. "Essere una cyberpugile?" chiese, incerta, cercando di capire dove voleva arrivare.
Varrick annuì, il movimento lento, quasi impercettibile, ma abbastanza da farsi notare. Ancora non la guardava. Sembrava che ogni fibra del suo corpo fosse concentrata nel contenere qualcosa, un’emozione intensa e pesante come il piombo.
Baby si scosse, recuperando la determinazione che minacciava di scivolarle via. Alzò il mento, gli occhi brillanti di una luce risoluta. "Certo che sì," dichiarò, la voce piena di un fervore che non riuscì a trattenere. "Il mio sogno è quello di diventare la campion—"
"Basta così!"
La sua frase fu interrotta bruscamente da un’esplosione di parole che sembrava vibrare nell’aria stessa. Baby sobbalzò, come colpita da un’ondata di energia invisibile. Varrick si era voltato verso di lei con una rapidità che la fece trasalire. Per la prima volta, il suo volto, fino a quel momento un guscio impenetrabile, si era trasformato in una maschera di emozioni difficili da decifrare: rabbia, frustrazione, forse anche una traccia di dolore.
La sua postura era rigida, il petto che si alzava e si abbassava come se cercasse di controllare un respiro agitato. Le sue mani, strette a pugno, tremavano appena, un contrasto stridente con l’aria calma e distante che aveva mostrato fino a poco fa. Baby rimase senza parole, la sua bocca leggermente aperta mentre cercava di comprendere cosa avesse scatenato quella reazione.
Il silenzio che seguì era pesante come una cappa di piombo, rotto solo dal ronzio meccanico dei macchinari attorno a loro. E in quel momento, Baby capì che c'era qualcosa di profondo, di personale, dietro quella rabbia improvvisa. Ma non sapeva ancora cosa fosse.
Fece per aprire la bocca, ma l’uomo la interruppe, la sua voce tagliente come una lama: "Esci dalla mia clinica."
Baby rimase immobile, i suoi occhi sbarrati per la sorpresa. Le parole le si bloccarono in gola mentre cercava di assimilare il comando perentorio. Un brivido le attraversò la schiena, ma si sforzò di muovere un passo avanti, ignorando l’istinto che le urlava di fermarsi. "Ma ti ho detto—"
"Non importa." La voce di Varrick si alzò di un tono, non abbastanza per essere un grido, ma sufficiente a farle capire che non c’era spazio per discussioni. "Non devi ripagarmi."
Baby scosse la testa, incredula. Non poteva credere alle sue orecchie. Lui aveva speso tempo, risorse, forse anche una fortuna, per ripararle il braccio con un nuovo modello lucido e perfetto. E ora le stava dicendo che non doveva nulla? Sembrava impossibile. La sua mente si riempì di domande. Perché? Perché questo cambiamento improvviso?
"Non posso!" protestò, la voce incrinata dall’urgenza di spiegarsi. Scosse la testa con forza, come a scacciare l’assurdità di quelle parole. "No! Non posso andarmene così. Sono in debito con te, e il minimo che posso fare è ripagarti."
Varrick sospirò, un suono pesante, pieno di stanchezza e frustrazione. Si passò una mano sul viso, come se stesse cercando di trovare un briciolo di calma, ma il suo corpo parlava di tutt’altro.
Baby si avvicinò di qualche altro passo. Una scintilla di sfida le brillava negli occhi. Doveva sapere. Doveva capire.
"Perché vuoi così tanto che me ne vada?" chiese, con un tono che cercava di bilanciare curiosità e cautela. "Anche senza pagare?"
Varrick non rispose.
Baby lo studiò attentamente, e poi la consapevolezza le balenò in mente. "È perché sono una cyberpugile?" azzardò, inclinando leggermente la testa. Si accorse che l’uomo irrigidì le spalle al suono di quella parola. Una reazione impercettibile, ma che confermava il suo sospetto.
"Il fatto che lo sia ha chiaramente toccato un nervo scoperto," continuò, spingendo il discorso un po’ oltre. Cercava una reazione, un indizio. Ma Varrick non si mosse, non le rispose. Il suo silenzio, tuttavia, diceva più di mille parole.
Baby non lasciò che il silenzio si prolungasse troppo. Fece un passo avanti, come se l’avvicinarsi fisicamente potesse scardinare il muro che Varrick si ostinava a mantenere eretto. I suoi occhi lo studiavano con insistenza, cercando una crepa, un punto debole. "Quindi è per questo, vero? Perché sono una cyberpugile. Lo detesti così tanto da non volermi nemmeno nella tua clinica."
Varrick non si mosse. Sembrava scolpito nella pietra, immobile, il volto indurito come una maschera che nascondeva tutto tranne la tensione. La mascella stretta, i muscoli delle braccia contratti, persino il modo in cui il suo respiro restava appena percettibile: tutto parlava di un autocontrollo feroce.
Baby si avvicinò di un altro passo, il suo tono si fece più tagliente. "Che cosa ti disturba così tanto?" Il suo sguardo non si staccava dal suo volto, anche se lui continuava a guardare altrove, come se ignorarla potesse bastare a farla andare via. "Sono i combattimenti crudeli? Le scommesse che girano attorno a tutto questo? O forse—"
"Basta." La parola uscì come un ringhio, appena sussurrata.
Baby, però, non era una che si fermava. "Hai un problema con il fatto che qualcuno come me voglia ancora provarci? Che qualcuno voglia inseguire un sogno nonostante tutto?"
L’aria nella clinica sembrava essersi fatta più pesante. Ogni ombra sembrava più cupa, ogni suono più ovattato. Varrick finalmente si girò, ma solo di poco. Era un movimento appena accennato, ma bastò a far incontrare per un istante i suoi occhiali con quelli di Baby.
"Parla, allora!" insistette, stringendo i pugni. "Dimmi perché vuoi cacciarmi. Dimmi cosa ti disturba così tanto di me o del cyberpugilato!"
La sua voce ruppe qualcosa. Varrick si mosse di scatto, voltandosi completamente verso di lei come una tempesta pronta a scatenarsi. "Perché è una farsa!" La sua voce rimbombò nella stanza, come un colpo che le fece quasi fare un passo indietro. "Perché non ha regole vere, non ha onore! È solo uno spettacolo mascherato da sport, e quelli come te finiscono sempre per rovinarsi! Non vuoi ascoltare? Bene, allora continua a giocare a fare la campionessa!” scosse la testa, come se parlare con lei fosse una causa persa. “Mi sorprende che tu non abbia una scia di vittorie alle spalle. Chi non ha una testa dura sul ring non dura nemmeno un round! Ma tu hai davvero la testa più dura che abbia mai visto, ragazzina."
Baby sobbalzò, il cuore che le martellava nel petto. Le sue parole l’avevano colpita più di quanto volesse ammettere. Ma c’era qualcosa in quella frase, in quel tono, che l’aveva fermata. Qualcosa che le suonava familiare, come un’eco di ricordi lontani. Si prese un momento per riflettere, il silenzio tra loro si fece quasi palpabile. E poi...
I suoi occhi si strinsero, una scintilla di intuizione accesa nella mente. "Per esserne uno che detesta così tanto il cyberpugilato," cominciò lentamente, un sorriso incerto che le si arricciava sulle labbra, "sei piuttosto aggiornato sulle espressioni iconiche dei suoi protagonisti." Si inclinò appena verso di lui, il tono più morbido ma pungente. "Quando l’hai detto: Chi non ha una testa dura sul ring non dura nemmeno un round!... mi sei sembrato quasi Il Terribile—"
La frase le si spezzò in gola. Le parole morirono sulle sue labbra mentre i pezzi del puzzle si incastravano nella sua mente. Ricordò i ritagli di giornale nella palestra, le vecchie foto sbiadite di un lottatore leggendario. Una figura imponente, un braccio alzato in segno di vittoria. Sotto, un nome che le aveva fatto battere il cuore quando era ragazzina: Il Terribile Kang.
Il respiro di Baby si fermò per un istante. Gli occhi le si allargarono, spostandosi febbrilmente tra il volto di Varrick e i ricordi che riaffioravano nella sua mente. Le immagini delle lotte trasmesse sui monitor dei negozi di elettronica le si riaffacciarono alla mente: quel lottatore che dominava il ring con movimenti precisi e micidiali, ogni colpo calcolato, ogni vittoria inevitabile.
Si girò di nuovo verso Varrick, questa volta con uno sguardo pieno di stupore e incredulità. Ogni dettaglio combaciava: la postura, la tensione nei muscoli, persino il modo in cui le sue mani avevano piegato il bordo del carrello di metallo, come se fosse carta.
"Tu..." sussurrò, le parole lente, cariche di emozione. "Tu sei... Il Terribile Kang."
Varrick alzò di scatto la testa, gli occhi guizzanti di sorpresa. Per un istante sembrò pietrificato, le labbra appena dischiuse come se le parole gli si fossero congelate in gola. Poi, con un gesto brusco, girò le spalle, come a chiudere un sipario invisibile. "Non so di cosa stai parlando," mormorò, la voce bassa e ruvida, carica di una tensione palpabile.
Baby lo fissò, incapace di distogliere lo sguardo, mentre il suo cuore batteva all’impazzata. Una sensazione strana, simile a una vertigine, le si arrampicò lungo la spina dorsale. Aveva la netta percezione di trovarsi davanti a qualcosa di enorme, un segreto che pulsava nell’aria, pesante come una tempesta imminente. Gli occhi le si spalancarono, fissi su di lui. Questa volta lo vedeva davvero, come se fino a quel momento avesse guardato attraverso una nebbia.
Osservò i suoi capelli neri, più corti rispetto alle immagini che aveva visto nei vecchi ologrammi, ma inconfondibili. Scandagliò la sua corporatura robusta, il portamento deciso, e quella sicurezza granitica che sembrava scolpita nei suoi movimenti. Era tutto lì, tutto. Come non aveva potuto notarlo prima?
E poi c’era la voce. Non l’aveva sentita spesso, ma quella tonalità profonda e tagliente le risuonava in mente con forza. Era la stessa che aveva catturato il suo immaginario da ragazzina, quando passava ore a fissare gli ologrammi sgranati delle trasmissioni sul cyberbox nei negozi di elettronica. Era lui. Non poteva essere nessun altro.
"Tu... sei Il Terribile Kang," sussurrò, la voce quasi spezzata, come se temesse che pronunciare quelle parole avrebbe potuto infrangere qualcosa di sacro. "Tu sei..."
Varrick rimase immobile, la schiena rigida come un arco teso. "Ti sbagli," ribatté con durezza.
Baby scosse la testa, incredula, cercando di raccogliere i pezzi di ciò che aveva appena capito. Ma ormai non c’era più modo di ignorarlo. Le mani le tremarono mentre si afferrava i capelli rosati, aggrovigliandoli tra le dita. Un misto di stupore, ammirazione e incredulità le bruciava nello sguardo.
"Per la miseria," mormorò, quasi senza fiato, mentre i suoi occhi si riempivano di una luce febbrile. "Sei davvero tu... la leggenda del cyberbox... davanti a me!"
Il suo sguardo risalì verso di lui, incredulo e febbrile. Lo fissava come se fosse un’apparizione, qualcosa che non avrebbe mai immaginato di incontrare nella realtà. Era una figura mitica, una leggenda che aveva preso vita davanti a lei. La sua voce tremava mentre parlava, come se stesse cercando di contenere un fiume in piena.
"Il Terribile Kang," ripeté con più forza, la meraviglia che le traspariva in ogni sillaba. "Come ho fatto a non accorgermene prima? Sei qui. Sei proprio qui, davanti a me."
Ogni parola era carica di un'emozione quasi dolorosa, come se il peso della scoperta fosse troppo grande da sostenere. Era sopraffatta, ma anche euforica, come se un sogno lontano e irraggiungibile si fosse improvvisamente materializzato davanti ai suoi occhi.
La realizzazione esplose nella mente di Baby come un fulmine, accendendo un incendio di pensieri e possibilità. Era come se il mondo, fino a quel momento avvolto da un grigio opprimente, si fosse improvvisamente riempito di colori vibranti. Il cuore le batteva all’impazzata, ma questa volta non era solo l'adrenalina dello stupore. No, questa era speranza, una sensazione che non provava da così tanto tempo da aver dimenticato quanto potesse essere travolgente.
Il suo volto si trasformò, la tensione e la confusione lasciarono il posto a un sorriso radioso che le illuminò i lineamenti. I suoi occhi, ancora fissi su Varrick, scintillavano di determinazione, come due stelle appena accese. "Ma certo..." mormorò, la sua voce carica di un'euforia quasi febbrile. "Potrebbe davvero funzionare!"
Varrick, che fino a quel momento era rimasto immobile, si voltò lentamente verso di lei. Il suo sguardo era ancora duro, indecifrabile, ma qualcosa nei suoi occhi tradiva un’ombra di preoccupazione, forse persino di curiosità.
Baby fece un passo avanti, come spinta da una forza invisibile. "Tu puoi allenarmi!" esclamò, le parole che le uscivano dalla bocca così velocemente che quasi non riusciva a crederci nemmeno lei. Era come se tutto ciò che aveva sempre desiderato, tutto ciò che aveva sempre sperato, fosse stato improvvisamente racchiuso in quella frase.
Le sue mani si mossero da sole, tese verso di lui, quasi a volerlo afferrare, a radicarlo nella sua realtà. "Tu sei Il Terribile Kang," continuò, la voce traboccante di entusiasmo. "Sei il più grande combattente del cyberpugilato, una leggenda vivente. Tu puoi insegnarmi. Tu puoi farmi diventare una campionessa, come te!"
Varrick si irrigidì, i suoi occhi si spalancarono per un attimo, come se le parole di Baby lo avessero colpito come un pugno in pieno volto. "Come?" chiese infine, la sua voce bassa, ma carica di un'incredulità palpabile.
"Pensaci!" continuò Baby, avvicinandosi ancora un po’. "Con il tuo aiuto potrei finalmente vincere qualche scontro! Non sarebbe magnifico? Ho solo bisogno di una possibilità!" Le sue mani si mossero animate, quasi a voler modellare l’idea davanti a lui. "E in poco tempo potrei guadagnare abbastanza da ripagarti ogni singolo crybz che ti devo. Tutto risolto!"
La sua voce si incrinò leggermente, ora quasi supplicante, come se ogni parola contenesse un pezzo della sua anima. "Ti prego, Varrick!"
Ma prima che potesse proseguire oltre, lui la interruppe con un tonante: "No!"
La parola risuonò nell’aria come uno schiaffo. Ferma, decisa, inamovibile. La fronte aggrottata, gli occhi scuri come nubi di tempesta. Il contrasto tra la sua severità e l’euforia di Baby era abissale, un uragano che spezzava in un attimo la sua corsa verso il sogno.
Baby si bloccò, come se quelle due lettere avessero formato una barriera invisibile tra di loro. Il suo sorriso si congelò, la speranza che le bruciava dentro vacillò, ma non si spense del tutto. Stava già cercando un modo per aggirare quel muro, per scalfire quella risposta definitiva che lui le aveva lanciato addosso.
Varrick scosse la testa, con un'espressione cupa che sembrava voler mettere fine a ogni discussione. Fece per allontanarsi senza aggiungere altro, i suoi movimenti rapidi e decisi, come se volesse tagliare di netto la conversazione. Baby lo seguì a passo svelto, la determinazione ancora intatta nei suoi occhi.
"Ti prego!" lo implorò, quasi senza fiato, ma l'uomo non si fermò nemmeno per guardarla. La sua schiena era un muro inespugnabile, e il suo passo si fece più rapido, quasi nervoso, dirigendosi verso l’entrata della clinica.
Baby si aspettava che si avvicinasse alla porta con la vetrata, ma lui la sorprese. Si fermò davanti a una credenza incassata nel muro, aprì le ante con gesti bruschi e decisi e cominciò a rovistare al suo interno. Ne tirò fuori una manciata di oggetti: alcune razioni di cibo in involucri sigillati, bottiglie d’acqua e altre forniture essenziali. Baby lo osservò, confusa, seguendo i suoi movimenti rapidi con gli occhi.
Poi lui si piegò, afferrando la vecchia sacca d'allenamento che Baby aveva completamente dimenticato fino a quel momento. L’oggetto sembrava appartenere a un altro tempo, consumato e segnato dagli anni, con le cuciture sfilacciate agli angoli. Senza dire una parola, Varrick iniziò a infilare dentro tutto ciò che aveva preso dalla credenza, le sue mani si muovevano con una rapidità e una precisione che trasmettevano impazienza.
"Che cosa stai facendo?" chiese Baby, avvicinandosi a piccoli passi, indecisa se intervenire o aspettare che fosse lui a darle una spiegazione.
"Un omaggio della clinica," rispose Varrick bruscamente, senza nemmeno alzare lo sguardo su di lei. La sua voce era un taglio netto, fredda e priva di emozione.
Chiuse la cerniera della sacca con un gesto deciso e improvvisamente gliela spinse contro il petto. Baby vacillò leggermente sotto il peso inaspettato, ma il suo braccio cibernetico, più forte del previsto, riuscì a reggere la sacca senza farla cadere. Lo sguardo di lei si alzò lentamente verso l’uomo, ma prima che potesse dire qualcosa, lui alzò una mano per interromperla. "Senti, ragazzina. Hai avuto quello che volevi."
Il tono di Varrick era definitivo, tagliente, come se volesse chiudere la questione una volta per tutte. "Se quello che ti spinge a continuare a importunarmi—"
"Importunarti?" lo interruppe Baby, il tono un misto di indignazione e incredulità. "Io non sto—"
"Se è il debito con me," proseguì lui senza lasciarle il tempo di finire, "allora ti assolvo dall’obbligo."
Indicò la porta con un gesto secco della mano, come se volesse scacciarla via. "Sei libera di andare."
Le sue parole colpirono Baby come un pugno nello stomaco. La sacca che reggeva sembrava improvvisamente più pesante, non tanto per il suo contenuto, quanto per il significato che portava con sé. Lei lo fissò, cercando un segno di esitazione nel suo volto, ma Varrick sembrava fatto di pietra, immobile e impenetrabile, come se ogni emozione fosse stata spazzata via da una volontà di ferro.
Baby non si mosse, restò immobile, con la sacca ancora stretta al petto e lo sguardo fisso su Varrick. Qualunque scintilla di determinazione o sfacciataggine avesse animato i suoi occhi fino a un attimo prima si spense, lasciando spazio a un'espressione che mescolava smarrimento e supplica. Il suo corpo rimase rigido, ma i suoi occhi, ora lucidi e imploranti, tradivano il peso delle domande che si accumulavano nella sua mente.
Perché lui reagiva così? Perché un uomo che aveva vissuto e dominato quel mondo come una leggenda ora lo respingeva con una tale veemenza? La repulsione di Varrick verso il cyberpugilato non aveva senso per Baby, soprattutto perché quella disciplina non era solo la sua vita, era stata la sua gloria.
Baby si morse il labbro, esitante. Sentiva il bisogno di dire qualcosa, ma allo stesso tempo aveva paura di spingere troppo. La tensione tra loro era palpabile, e lei non voleva rischiare di peggiorare la situazione. Ma doveva sapere. Doveva capire.
Abbassò la voce, parlando con una titubanza che non le apparteneva. "È per quella sconfitta, non è vero?" chiese, scegliendo le parole con cura, quasi temendo la sua reazione. "Quella contro il Magnifico Lune… tuo fratello."
L’impatto delle sue parole fu immediato. Varrick la fissò, immobile, con uno sguardo che sembrava volerla perforare, ma non c'era rabbia nei suoi occhi. Non questa volta. La sua espressione si allentò, per quanto fosse possibile su quel viso duro e segnato. Le mascelle non erano più serrate come prima, ma i lineamenti restavano tesi, come se contenessero qualcosa di molto più profondo. La rabbia, che fino a quel momento sembrava il suo unico scudo, si dissolse gradualmente, lasciando spazio a un miscuglio di stanchezza e rammarico.
Baby lo notò subito. Poteva vederlo chiaramente ora: la fatica, il peso di qualcosa che lui portava con sé da troppo tempo. Era scritto nelle spalle leggermente incurvate, nei movimenti meccanici delle mani, nell'ombra che sembrava sempre avvolgerlo. Varrick non rispose. Rimase lì, immobile, come se le sue parole avessero aperto una ferita che aveva cercato di sigillare a tutti i costi.
Baby abbassò lo sguardo, un’ondata di senso di colpa la colpì come un pugno. "Mi dispiace," mormorò, stringendo nervosamente la sacca che aveva ancora tra le mani. "Non volevo essere insensibile..."
Non si aspettava una risposta, e infatti lui rimase in silenzio, ma la sua espressione parlava per lui. Era un punto dolente, uno che nessuno aveva osato toccare per tanto tempo. Baby lo sapeva. La sua mente tornò indietro a quel giorno, a quello che ricordava di quell’evento.
Era stato l’argomento principale in tutte le megalopoli dello stato per mesi. L’incontro tra i fratelli Kang, il Terribile Kang contro il Magnifico Lune, era stato pubblicizzato come l’evento del secolo. Non si trattava solo di una sfida tra due cyberboxer leggendari; era una battaglia tra due giganti, due miti viventi. Il risultato avrebbe cambiato per sempre il panorama del cyberpugilato.
Ma non era la sconfitta di Varrick a essere diventata una macchia indelebile nella sua carriera. No, il mondo intero avrebbe potuto accettare che uno dei due perdesse. Qualcuno doveva cadere, e anche il secondo miglior cyberboxer dello stato sarebbe stato comunque una leggenda. Il problema non era il fatto della sconfitta, ma come era avvenuta.
Baby ricordò vividamente quel giorno. Era solo una ragazzina allora, ma come tutti gli altri, si era radunata nella piazza centrale della città per guardare l’incontro trasmesso sugli enormi proiettori olografici. Le immagini riempivano l’intero spazio sopra la folla, due figure immense che si fronteggiavano sopra le teste di centinaia di spettatori esaltati.
Ma il Terribile Kang, il gigante invincibile, sembrava la pallida ombra di sé stesso. Sin dal primo round aveva preso colpi su colpi, vacillando più e più volte. Ogni volta che cadeva, il pubblico tratteneva il respiro, incredulo. Lui, che non era mai stato messo al tappeto in tutta la sua carriera, sembrava incapace persino di mantenersi in piedi. Dopo appena un’ora, il Magnifico Lune lo aveva abbattuto con un gancio pulito, lasciandolo disteso al suolo in una scena surreale.
Era stata un’umiliazione pubblica. Un evento che nessuno riusciva a spiegarsi. Il Terribile Kang era stato un muro, un titano, il solo cyberboxer che non si era mai inginocchiato davanti a nessuno. Eppure, in quella notte disastrosa, suo fratello lo aveva sconfitto con una facilità quasi ridicola.
Le voci si erano diffuse come un incendio: un ubriacone, lo avevano chiamato. Un fallito. I pettegolezzi parlavano di allenamenti trascurati, di debolezze nascoste. La reputazione di Varrick, costruita in anni di sangue e sudore, era andata in pezzi nel giro di poche ore. I fan lo avevano abbandonato, gli sponsor lo avevano schernito. Per Baby, era chiaro ora: quella sconfitta non era stata solo una caduta. Era stata una rovina.
"Vai," disse Varrick finalmente. Il suo tono non era più arrabbiato, solo stanco, come se quelle poche lettere fossero costate più di quanto avrebbe voluto ammettere.
Baby capì che era meglio non insistere, ma la sensazione di lasciare quella stanza in quel modo la faceva stare male. Con riluttanza, si avvicinò alla porta, infilando la sacca sulla spalla. Si voltò un attimo indietro, sperando di trovare nei suoi occhi qualcosa di più, ma lui era già a braccia incrociate, lo sguardo perso altrove, rigido e inaccessibile come una statua di ferro.
Rimase lì per un momento, combattuta. Poi abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro. Fece un passo verso la porta, alzò la mano per afferrarla, ma si bloccò. Un pensiero improvviso la fermò, qualcosa che non poteva ignorare. Si voltò di nuovo verso di lui.
"Non so cosa sia successo," disse, la sua voce tremante ma sincera. "Ma quella sconfitta non può cancellare tutto quello che sei stato. Sei stato una leggenda, sei ancora una leggenda per persone come me!"
Lui non rispose, continuando a fissare un punto indefinito davanti a sé, le braccia incrociate. Baby strinse i pugni, cercando di dominare l’agitazione. Non poteva lasciare che finisse così.
"Anche i migliori perdono," continuò, la sua voce più forte ora, carica di determinazione. "L’importante non è evitare di cadere. L’importante è sapersi rialzare!" Sollevò il pugno per enfatizzare le sue parole.
Finalmente Varrick si mosse, ma non come Baby sperava. Sbuffò, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi, e si avvicinò a lei con passi lenti ma decisi. Il suo volto era stanco, segnato, ma i suoi occhi brillavano di una frustrazione trattenuta.
"Ti ho già detto di lasciar perdere," disse con una calma glaciale. "Non sono più quel Varrick. E non ti devo niente."
Baby scosse la testa, rifiutandosi di mollare. "Sei l’unico che può aiutarmi! Perché non vuoi darmi una possibilità?”
"Basta, ragazzina," disse Varrick con fermezza, il tono tagliente e definitivo. Fece un passo deciso verso la porta, l’aprì con uno scatto, e prima che Baby potesse reagire, le spinse la mano sulla spalla, indirizzandola verso l’uscita.
"Varrick, ti prego, ascoltami!" gridò Baby, cercando di rimanere dentro, le dita che si aggrappavano al bordo della porta come se quello potesse fermarlo. Ma lui non cedeva, la sua figura bloccava il varco come una montagna.
"Non c’è più niente da dire," ribatté, la voce più bassa ma non meno ferma. "Questa conversazione finisce qui."
Baby lo fissò, il cuore che le martellava nel petto, le parole che si spegnevano sulle labbra. Lui però non ricambiò lo sguardo; era già voltato verso l’interno, come se stesse cercando un ultimo modo per chiudere definitivamente la questione.
Prima che chiudesse la porta, Baby sentì un sibilo nell’aria e, un attimo dopo, qualcosa di morbido la colpì al petto. Barcollò appena, abbastanza sorpresa da lasciare andare la porta. Guardò verso il basso e vide una felpa sgualcita, scura, chiaramente usata ma ancora calda di lui.
Aveva preso la felpa dall'attaccapanni vicino alla porta, un movimento rapido e pratico, come a voler dare qualcosa senza renderlo significativo.
Baby strinse il tessuto tra le mani, sentendo l’odore di vecchio sapone e sudore stantio. Alzò lo sguardo verso di lui, ma Varrick già richiudeva la porta con un gesto deciso.
"Varrick!" provò ancora, la voce spezzata.
L’uomo si fermò per un istante, la mano appoggiata alla porta. Un momento che sembrò sospeso, come se fosse sul punto di dire qualcosa, di concedere un’ultima parola. Ma quando finalmente si mosse, lo fece solo per richiudere il portone, questa volta con lentezza, lasciandola dall’altro lato.
Baby rimase immobile davanti alla porta chiusa, stringendo la felpa contro di sé come una sorta di scudo contro il freddo improvviso che la investiva, sia fuori che dentro. La sacca le pesava sulla spalla, e una sensazione di vuoto si arrampicava nel petto, mordendole le costole.
Eppure, nonostante tutto, si costrinse a sollevare il mento. Non poteva finire lì. Lui aveva chiuso la porta, ma Baby sapeva che non era un addio. Era solo un’altra sfida, e lei era decisa a combatterla.