Signore e signori, sono tornata!
Sebbene sia poco presente su EFP in questi mesi, a mia discolpa posso affermare che mi sto dedicando tanto alla scrittura, e infatti eccomi qui!
Questo racconto, di soli 4 capitoli, è una cosa abbastanza inedita per me, ossia un noir! A darmi ispirazione è stato il pacchetto del contest di Spoocky al quale partecipo, nonché la canzone "Slow, Love, Slow" del gruppo metal svedese "Nightwish". Nonostante non sia il mio genere musicale preferito, talvota l'immaginazione ci arriva da dove meno ce lo aspettiamo ;)
Spero che la storia di Paul Ross possa piacervi, vi auguro perciò buona lettura,
Nina^^
Sebbene sia poco presente su EFP in questi mesi, a mia discolpa posso affermare che mi sto dedicando tanto alla scrittura, e infatti eccomi qui!
Questo racconto, di soli 4 capitoli, è una cosa abbastanza inedita per me, ossia un noir! A darmi ispirazione è stato il pacchetto del contest di Spoocky al quale partecipo, nonché la canzone "Slow, Love, Slow" del gruppo metal svedese "Nightwish". Nonostante non sia il mio genere musicale preferito, talvota l'immaginazione ci arriva da dove meno ce lo aspettiamo ;)
Spero che la storia di Paul Ross possa piacervi, vi auguro perciò buona lettura,
Nina^^
Un sonno più profondo del tempo
Prologo
Paul Ross volse lo sguardo sull'insegna luminosa nascosta quasi alla fine del vicolo cieco. Ancora si chiedeva perché mai avesse accettato di presentarsi all'appuntamento. Cosa lo avesse spinto a vestirsi, mettere in moto la sua vecchia macchina – la quale, giustamente, aveva dissentito con il classico borbottio sinistro di motore ormai datato – e dirigersi fino al luogo prestabilito.
Il Nightwish, un locale notturno che aveva di sicuro conosciuto giorni, anzi notti migliori di quegli ultimi anni, era stato ritrovo e conforto per i soldati durante le lunghe e spaventose ore che precedevano l'alba della Seconda Guerra Mondiale, ma adesso che il conflitto si era concluso nessuno se ne rammentava più. O forse, erano proprio i ricordi legati a quel luogo che ne teneva la gente a debita distanza. Si narrava che fosse stato anche un nascondiglio per gli ebrei fuggiti dai Paesi Bassi e dalla Francia, ma di questo Paul non aveva certezza, essendo le sue incombenze diverse a quei tempi.
Una pioggerellina fitta fitta cadeva incessante, rendendo l'intera atmosfera cupa e uggiosa. Gli imponenti muri dei palazzi che troneggiavano lungo la Lake Street di Londra, grigi e minacciosi, trasmettevano un senso di mestizia e stanchezza assoluta. Le gocce di pioggia che vi scivolavano addosso parevano lacrime di chi non riesce più a sorridere delle piccole gioie della vita, quasi che il sole non li avrebbe mai più scaldati. Neppure i lampioni, con la loro fioca luce giallognola, servivano a rallegrare quella stradina di periferia che probabilmente ne aveva viste e vissute tante, troppe.
Paul si alzò il bavero del giubbotto di renna, avvertendo una gocciolina di pioggia scivolargli oltre la nuca. Ormai era lì, tanto valeva andare fino in fondo, mentendo a se stesso che fosse semplicemente mosso dalla curiosità e nient'altro. Muovendo prima la gamba destra – quella buona, come la chiamava lui – e poi la sinistra – quella deficiente – s'incamminò con la sua peculiare andatura claudicante, imboccando la stretta viuzzola che terminava con l'insegna al neon Nightwish. Qui la scritta era in un corsivo semplice, dove le lettere più che essere continue parevano volersi tenere strette per evitare di cadere e perdersi nel nulla. I colori erano sbiaditi: il fondo nero avrebbe dovuto mettere in risalto il rosso del nome, e invece pareva sommergerlo, inghiottirlo.
Se soffermarsi a osservare i palazzi in Lake Street gli aveva trasmesso un senso di tristezza esistenziale, trovarsi schiacciato fra le alte pareti di quel vicoletto gli infuse una sensazione di clausrofobia, sebbene lui non ne soffrisse. Non più, per lo meno. Quella era un'emozione negativa che la sua mente e di rimando il suo corpo avevano somatizzato durante gli anni della guerra, e che, di tanto in tanto, si ripresentava, soprattutto quando era agitato. Perché, inutile nasconderlo, era molto agitato. Allora, ecco, gli sembrava che le vie respiratorie si chiudessero, che due mani invisibili gli serrassero la gola e il respiro si facesse sempre più corto. Ma aveva imparato a gestire quegli attacchi di panico e a fingere che non stesse per soffocare. Alla veneranda età di quarantanove anni non poteva certo comportarsi come un bambino e scoppiare a piangere rannicchiandosi in un angolo.
In ogni caso era tempo di entrare e lo fece.
Capitolo 1
Il Nightwish era un locale fondamentalmente piccolo che non si era rinnovato neppure di una virgola dai tempi d'oro. È probabile che chiunque fosse il proprietario non ne sentiva la necessità, oppure pensasse che non ne valesse la pena spendere del denaro per qualcosa che non andava più di moda. Dopo la guerra, pareva quasi che nessuno sentisse più il bisogno di divertirsi, svagarsi, che gli uomini avessero altro a cui pensare, ora.
Paul Ross rimase qualche istante sull'uscio, mentre la porta d'ingresso alle sue spalle scivolava silenziosa sui cardini e la gamba deficiente gli mandava chiari segnali di insofferenza.
A sinistra si srotolava il bancone del bar, alle cui spalle c'era un numero ridotto di bottiglie di liquore e bicchieri di vetro sbeccati e opachi. Solo due persone sedevano sugli sgabelli, ed erano entrambi degli uomini di una certa età, ingobbiti e dall'aria trasandata, mentre rimiravano silenziosi e assorti il bicchiere già vuoto. Sulla destra, invece, si alzava un piccolo palco, occupato da un pianoforte datato – sebbene Paul non se ne intendesse di strumenti musicali, era fin troppo facile notare i graffi e le ammaccature sul legno chiaro –, poco più avanti era posizionato un microfono e, appena più indietro rispetto a quest'ultimo, un palo che correva dal soffitto al pavimento. Non era difficile immaginare le giovani ragazze che vi si erano esibite negli anni, allietando le poche ore si svago dei soldati, magari le ultime della loro intera esistenza.
Di fronte al palco, si contavano una decina di tavolini rotondi, malandati, scorticati. Ognuno di loro aveva almeno due sedie – Paul si chiese se reggesserro date le pessime condizioni in cui erano ridotte – e un'abat-juor con il cappello di tessuto bianco sfrangiato. Erano accese, tutte, ma l'effetto che producevano era molto più simile a quello dei lumini di un cimitero e non di un locale per adulti.
Solo un elemento strideva con lo squallore del Nightwish, quasi celato a occhi indiscreti. Sedeva in fondo al locale, nell'agolino più appartato che si potesse trovare lì dentro, in alto a sinistra. L'unico posto, tra l'altro, accanto a una finestra che, quasi sicuramente, affacciava sul cortile interno.
Paul si prese qualche secondo ancora per scrutare quella figura incoerente con tutto il resto, un paradosso bello e buono che non si sarebbe dovuto trovare lì, in quel momento, eppure c'era. Con il suo cappello a tesa larga, tanto da nasconderle il viso girato verso i vetri, il copriabito di pelliccia di un bianco candido – colore che la faceva stonare ancor di più con l'ambiente – e le mani nascoste sotto al tavolo.
Di nuovo quella sensazione claustrofobica, di nuovo Paul si chiese perché avesse risposto alla sua chiamata d'aiuto. Ma adesso, vedendola, la nebbia iniziava a dissiparsi e la verità, marchiata a fondo nel suo animo, era un po' più visibile di prima.
«Signore, vuole accomodarsi?»
La voce atona che gli giunse lo destarono dalla paura e dall'incertezza. Paul si voltò a guardare il cameriere, quasi sicuramente anche padrone del bar, che gli aveva rivolto la parola. Schiarendosi la gola annunciò che la signora in fondo lo stava aspettando. L'altro annuì e tornò sui suoi passi, riprendendo posto al di là del bancone dei liquori.
Paul si mosse, un piede dietro l'altro, la zoppia che lo faceva sembrare più basso di quello che era, la mente vuota e il cuore in subbuglio.
E se non era come la ricordava? Se fosse invecchiata così tanto da non trovare più nulla della donna che aveva amato da giovane? Ma ogni dubbio scomparve quando la salutò e lei alzò lo sguardo su di lui.
«Ciao, Paul».
Due parole, quasi senza intonazione, due semplici parole che nascondevano un mondo dietro. Un mondo fatto di sofferenza, di bombe, di brandine e bende insaguinate, di uniformi tagliate e lacerate. Di urla di dolore e lacrime, tante lacrime. Di odore di carne bruciata, di disinfettante e preghiere sussurrate fra i denti, a denti stretti, altre volte gridate per sovrastare il resto.
Ma sapeva essere anche un mondo dolce, fatto di sguardi che somigliavano a carezze; di dita che si sfioravano appena potevano, per caso o volutamente; di labbra che si erano toccate una volta, la prima, e non avevano più smesso. Di parole scritte su fogli ingialliti, sporchi di inchiostro e di rossetto che portava le impronte di un bacio lasciato a mo' di saluto. Di promesse fatte, non mantenute, ma sincere.
Un mondo che non esisteva più.
«Iniziavo a temere che non saresti venuto.»
Strano, ma quell'ipotesi non gli era mai, neanche lontamente, passata per l'anticamera del cervello. Come se non fosse un'eventualità da tenere in conto.
«E invece...»
«Già, e invece...» ripeté lei, lasciando la frase in sospeso. Per un attimo ci fu un imbarazzante silenzio, entrambi impacciati su cosa dire o cosa fare. Poi, di nuovo, la donna prese coraggio, togliendosi il cappello e indicando la sedia di fronte alla sua. «Ma siediti», lo invitò. «Abbiamo così tante cose da dirci...».
Paul Ross si accomodò, senza tuttavia togliersi il giubbotto.
Quando la donna aveva sollevato gli occhi per guardarlo, sembrava che il tempo non avesse scalfito la sua giovinezza, ma adesso che non c'era più il cappello a celarle il volto e i capelli biondi striati di grigio, legati morbidamente sul capo, i segni dell'ultimo decennio si notavano tutti. Il viso era scavato; i lineamenti dolci e arrotondati avevano lasciato spazio a zigomi messi in risalto dalla magrezza; il naso sembrava troppo grande su quel volto spigoloso. Gli occhi, di un castano chiaro, erano sprofondati nelle orbite; le labbra sottili e tinte di rosso erano screpolate e si muovevano nevrotiche sui denti. Neanche il fard riusciva a celare il colorito grigiastro della pelle. Le lentiggini, che un tempo spiccavano sulle guance rosate, erano sparite. La bellissima e gioviale infermiera venticinquenne che aveva conosciuto in un ospedale militare sembrava essere stata letteralmente inghiottita da quella versione sbiadita della donna che aveva dinnanzi. Era lei, certo, Rosa Evans, oggi signora Sunderland, o quanto meno le somigliava, ma non era altro che il negativo di una fotografia scattata ben oltre dieci anni fa.
Chissà, si chiese Paul, che impressione aveva avuto lei di lui.
«Quanto tempo, Paul. Come stai?» Riprese Rosa. «Come va la gamba? Ti fa ancora male?»
«Ogni tanto» fu la riposta secca di Paul.
La gamba era il motivo per cui si erano conosciuti. Nel 1942, durante un attacco dell'armata tedesca in Francia, Paul Ross, capitano della sua brigata, era finito con il piede sopra una mina. Trasportato d'urgenza all'ospedale da campo più vicino, l'avevano operato alla bell'è meglio, con una prognosi di un paio di mesi di convalescenza. Il chirurgo che l'aveva operato gli aveva già annunciato che probabilmente non avrebbe più riacquistato la motorietà completa dell'arto sinistro e, per risollevargli il morale, l'aveva affidato alle cure della loro infermiera migliore: Rosa Evans, appunto. A Paul, stordito dagli analgesici contro il dolore, la visione di Rosa gli era apparsa angelica. Il sorriso della ragazza l'aveva accolto nel Paradiso, i lunghi e folti capelli biondi facevano da cornice a quell'ovale dolcissimo. Perfetto. Se ne era innamorato all'istante e, paradossalmente, i mesi più dolorosi della sua vita divennero anche i più lieti.
Stando al racconto di Rosa, anche lei si era invaghita del capitano Ross fin dal primo istante in cui si erano guardati.
«Solo un po' di fastidio», mentì Paul. In verità, il fastidio alla gamba si faceva sempre più insopportabile. Soprattutto quando pioveva e faceva freddo, le fitte si acuivano e la zoppia
diventava più evidente.
«Stai prendendo le medicine?»
No, aveva smesso. Quelle droghe – come le definiva lui – lo facevano sentire stordito tutto il giorno, quasi che fosse in un perenne stato di intontimento e lui detestava sentirsi così.
«Sì», mentì di nuovo.
Un ronzio sommesso giunse fino a loro dal palco. Entrambi si voltarono in quella direzione, notando che un uomo dall'età indefinita, con indosso un vecchio smoking scuro, ormai fuori produzione, si era accomodato al pianoforte; una donna, intanto, vestita di rosso, con capelli neri tagliati corti e la fronte incorniciata da una fascia dello stesso colore dell'abito e dalla quale spiccavano tre finte piume di pavone, si sistemava al microfono. Paul notò anche che, nel frattempo, alcuni dei tavolini al centro della sala erano stati occupati da pochi maschi. Neanche una donna era presente, fatta eccezione per Rosa e la cantante. Proprio quest'ultima salutò gli astanti, augurandosi di poter allietare la loro nottata con la sua voce.
«I signori gradiscono ordinare?» Il barman si accostò al loro tavolo, tenendo in mano un taccuino e una penna.
«Per me del whisky», rispose Rosa.
«Anche per me» le fece eco Paul.
Quando il cameriere/padrone si fu allontanato, Rosa e Paul tornarono a guardarsi e lei sorrise mesta:
«Tu non bevi», asserì.
«Magari ho cominciato». Sempre tagliente nelle risposte, lui.
"Come and share"
(Vieni e condividi)
"This painting with me"
(Quest’immagine con me)
(Vieni e condividi)
"This painting with me"
(Quest’immagine con me)
Quelle parole, sussurrate al microfono, quasi recitate più che cantate, fecero sussultare entrambi.
Era la loro canzone, dannazione!
Avevano passato intere notti a bisbigliarne i versi, bocca contro bocca, mentre i respiri si fondevano fino a diventare una cosa soltanto.
"Unveiling of me
(Il mio svelamento)
The magician that never failed me
(Il mago che non mi ha mai deluso)"
(Il mio svelamento)
The magician that never failed me
(Il mago che non mi ha mai deluso)"
Rosa assottigliò gli occhi, come se volesse imprimere nella mente l'immagine di lui adesso che era distratto a guardare verso il palco.
Il 15 luglio 1942 era una data che le avrebbe cambiato la vita, per sempre. Era il giorno in cui si erano conosciuti, lei in qualità di infermiera e lui di paziente. Nonostante fosse reduce da un intervento ed era palese che soffrisse, Rosa l'aveva trovato bellissimo. Raramente un ragazzo l'aveva affascinata a tal punto, non a caso era oggetto di scherno da parte delle colleghe, le quali sospettavano che non provasse sentimenti. Ma Paul Ross era tutt'altra storia.
"This deep sigh
(Questo profondo sospiro)
Coiled around my chest
(Si è avvolto attorno al mio petto)
Intoxicated by a major chord
(Intossicato da un accordo maggiore)"
(Questo profondo sospiro)
Coiled around my chest
(Si è avvolto attorno al mio petto)
Intoxicated by a major chord
(Intossicato da un accordo maggiore)"
Fu sollevata di appurare che il tempo aveva scalfito ben poco il suo fisico: i capelli erano ancora scuri e portava il taglio di sempre, lunghi sulla nuca e acconciati dietro le orecchie, sebbene ogni tanto una ciocca gli ricaddese sugli occhi. Gli occhi... di un grigio chiaro che cambiava tonalità a seconda se ci fosse il sole o la pioggia, come in quel momento. Anche la stazza era rimasta la stessa, forse aveva messo su qualche chilo, ma niente di preoccupante. Ricordava ancora come ci si sentisse stretta fra le sue braccia forti, sparire contro il petto di un uomo di quasi un metro e novanta, essere sfiorata dalle sue mani grandi, calde e gentili.
"I wonder: do I love you
(Mi domando: amo te)
Or the thought of you?
(O il pensiero di te?)"
(Mi domando: amo te)
Or the thought of you?
(O il pensiero di te?)"
«E così», Rosa si schiarì la voce, fingendo che in sottofondo non ci fossero le parole che si erano promessi in intimità, «adesso sei un investigatore privato?»
«Già.»
«Hai lasciato il posto di ispettore alla omicidi.»
«Proprio così.»
«Non ti sono mai piaciute le regole» di nuovo Rosa sorrise triste, ripensando al carattere ribelle di Paul che spesso lo aveva portato a litigare con i suoi superiori sotto le armi. E anche con lei... Come quando aveva confermato la sua partecipazione alla Campagna D'Italia, sebbene avesse un problema alla gamba sinistra. Lui si era giustificato dicendo che non avrebbe abbandonato i suoi ragazzi per nulla al mondo, neppure se quella maledetta coscia gliel'avessero tagliata!
Il barman tornò con i due liquori, li lasciò sul tavolo e andò via. Oltre la finestra che, come aveva ipotizzato Paul, dava sul giardino interno, la pioggia continuava a venire giù lenta e costante.
«Tua madre sta bene?» Continuò lei, sorseggiano il whisky ambrato.
"Slow, love, slow
(Piano, amore, piano)"
(Piano, amore, piano)"
Paul al contrario tenne lo sguardo sul suo bicchiere, tenendolo fra i palmi. Non era andato lì per fare conversazione come se fossero amici di vecchia data. Si era presentato in quel locale per adulti perché c'era evidentemente qualcosa di cui urgeva parlargli.
«Nella lettera che mi hai mandato sembravi ansiosa di rivelarmi un segreto. Quasi che la tua stessa vita fosse in pericolo.»
«Subito al dunque, vero ispettore?!»
«Investigatore.»
Rosa soppesò i pensieri che le affollavano la mente e, poiché non sapeva bene da dove cominciare, decise di partire dalla fine, estraendo dalla borsetta alcune lettere indirizzate a se stessa. Le fece scivolare sulla superficie del tavolino.
«Le ho ricevute nell'ultimo periodo. Sono lettere minatorie. Qualcuno vuole ammazzarmi».
"Only the weak
(Solamente i deboli)
Are not lonely
(Non sono solitari)
Southern blue
(Blu del sud)"
(Solamente i deboli)
Are not lonely
(Non sono solitari)
Southern blue
(Blu del sud)"