La ragazza chiuse la cuccetta con un
calcio. Sbadigliò sguaiatamente e si
stiracchiò le lunghe membra filiformi. Aveva
sonno, era andata a letto vestita e non sapeva
che ore fossero: i suoi bioritmi erano completamente
sballati dalla vita che faceva. Ma nel cyberspazio
concetti come mattina o notte erano del tutto
obsoleti. Si passò una mano sul volto, si grattò
la nuca rasata facendo bene attenzione a non far
scattare le sue unghie retrattili, affilate come
rasoi. Ghignò al pensiero: erano un innesto illegale,
considerato un’arma nelle altre stazioni. Ma lì su La
Tana erano il minimo che ci si potesse aspettare da
una come lei. Osservò il suo riflesso nella superficie
levigata e lucida di un lungo e stretto pannello ornamentale
della sua misera stanzetta e fece una smorfia. Gli occhi,
sottili e cupi, erano cerchiati da una pesante ombra nera,
in parte dipinta da lei stessa e in parte dovuta alle
nottate in bianco trascorse a cavalcare le onde di dati
che si riversavano nel suo impianto corticale. Scrollò
la testa facendo tintinnare il milione di piccole perle
che aveva intrecciate ai lunghi dread fucsia. Li raccolse
in una fascia larga così da farne una specie di
coda. Avrebbe voluto guardare il suo grande tatuaggio,
ma era da molto tempo che non trovava due specchi adeguati:
l'aveva sulla schiena. L’aveva fatto quando non aveva
ancora compiuto diciassette anni e alla maniera antica,
dolorosa. Ci erano voluti cinque mesi di paziente lavoro e
parecchi crediti prima che il tatuatore finisse il suo
capolavoro. Ilah ricordò Prometeo che campeggiava all’altezza
delle clavicole, pagato con un lavoretto banale sulle
serrature di una quindicina di appartamenti; il suo pensiero
andò alle linee sinuose delle navi da trasporto truppe che
circondavano la stazione: per quelle aveva dovuto piratare
una rete di bancomat. Importantissimo, c'era anche il viso
della sua bisnonna dall’espressione battagliera e la cresta
gialla. Aveva tartassato il tatuatore perché desse il meglio
di sé: per raffigurare sua nonna non avrebbe badato a spese
e avrebbe preteso il massimo. L'artista aveva fatto un ottimo
lavoro davvero e aveva preteso che lei gli rifacesse tutto il
sistema di sicurezza del suo negozio. Ilah sorrise: c'erano
solo due persone che potevano entrare e uscire dal negozio di
tatuaggi dopo l'orario di chiusura, ora. Una era lei.
Uscì dal suo covo e si diresse verso il più vicino distributore
automatico di cibo. Le strade erano come sempre in penombra, per
favorire il risparmio energetico, ma affollate di gente. Nessuno
sembrava fare caso alla ragazzina dai dread colorati e
dall’abbigliamento peculiare. Anzi Ilah in quell’ambiente, con i
suoi anfibi rossi dalla punta rinforzata, le calze a rete gialle
strappate in più punti, i pantaloncini neri attillati e il
giubbotto di pelle anch’esso nero, sembrava fin troppo normale. Infilò
una scheda mezza scarica nella fessura del distributore e si mise a
studiare il menù. Non aveva molta fame ma una voglia spaventosa di
dolci. Anzi, mangiava solo quelli eppure il suo fisico rimaneva
esile: con la sua testa di capelli rosa vivo e le lunghe gambe scarne
faceva facilmente venire in mente l’immagine di un fenicottero. Alla
fine optò per parecchie barrette al surrogato di cioccolato e una
bibita energetica. Con indolenza si appoggiò al muro e scartò la
sua merenda, lasciando cadere gli involucri dove capitava e guardando
con occhi vacui la folla che passava. Nessuno era una brava persona
lì sopra, neanche lei. A diciassette anni era già ricercata sui
server di metà delle stazioni orbitanti per crimini informatici
e aveva il fiato sul collo di parecchi boss che desideravano i
suoi servigi. Era brava in quello che faceva. Poteva vantarsene,
e lo faceva.
Ma ormai lì, in quel covo clandestino di gente senza scrupoli,
si era giocata tutte le sue carte. Non era l'unica brava a cavalcare
la Rete: certo, ancora non aveva incontrato qualcuno che le tenesse
testa, ma erano in molti a volerle rendere la vita difficile.
Aveva sbagliato una mossa. Colta da ingordigia, o forse per semplice
distrazione, aveva accettato un lavoro di troppo. Dopo aver servito
più volte uno dei boss più influenti di tutta La Tana, un certo
Kemmer, aveva pensato bene di fare un favore bello grosso a Eltsin
Ortal, suo più pericoloso rivale. Bella mossa, pensò: ora li aveva
contro entrambi.
Dopo la quarta barretta di surrogato la bibita terminò e Ilah gettò
il vuoto in direzione dei bidoni dell'immondizia di un blocco abitativo
lì vicino. Col peso delle altre barrette in tasca, che le avrebbero
fatto da pranzo e cena, si incamminò senza una destinazione. Non aveva
più un soldo: il suo ultimo datore di lavoro, Ortal, avendo saputo
che aveva lavorato per Kemmer, aveva evitato di pagarla. Lei non aveva
potuto nemmeno vendicarsi: se si fosse connessa nuovamente alla rete
del boss mafioso dalle lontanissime origini europee, sarebbe stata
bruciata in pochi secondi.
Devo andarmene, concluse rassegnata. Infilò le mani in tasca e
pensierosa calciò via rumorosamente una bottiglia di plastica
vuota che ebbe la ventura di trovarsi sul suo percorso. Avrebbe
dovuto abbandonare il suo rifugio lì su La Tana e scappare via. Doveva
trovare un passaggio su qualche nave. Sarebbe tornata su Prometeo? Aveva
però voglia di vedere la più popolosa stazione orbitante, la mitica
Stazione Apollo. Ne aveva sentite di tutti i colori su quel posto: i
primi tre settori si diceva fossero più malfamati di La Tana. Pareva
improbabile, ma se fosse stato vero, si sarebbe trovata bene. Prometeo
invece era grande: le possibilità di essere rintracciata dai suoi
genitori era bassa. Poi sapeva come rendersi irreperibile: Kemmer e
Ortal ne sapevano qualcosa.
Dalla sua memoria artificiale estrasse un paio di nominativi: erano
gente di Controllo di La Tana. Raccattava informazioni di ogni genere
e le salvava nella sua memoria cibernetica: prima o poi qualcosa le
sarebbe tornato utile. Proprio come in quel caso: Controllo era
l'ente preposto a supervisionare il traffico aereo nello spazio intorno
alla stazione. Governava anche gli attracchi. Il punto migliore da
cui cominciare a cercare una nave. Cercò altre informazioni sui due
tizi e trovò qualcosa di interessante. Il bello di La Tana è che si
trova sempre qualcosa da scambiare... o qualcuno da ricattare, si
disse frugandosi nelle tasche, sorridendo. Si recò allo spazioporto
di persona. Aveva deciso che era giunto il momento di una cavalcata.
- Carino qui.
Con le mani in tasca si affacciò alla grande finestra. Si vedeva
un panorama mozzafiato: il molo lungo e sottile con le astronavi
attraccate, una struttura dall'aspetto eterogeneo come tutto, lì su
quella strana stazione. Esso sporgeva nel vuoto dello spazio dal
fianco della stazione stessa che sembrava una fetta di torta tagliata
male. Oppure un modellino di quelli sezionati per mostrare
l'interno. Poteva vedere i livelli sovrapposti di quella struttura
raffazzonata e rattoppata ovunque e, se aguzzava bene la vista, poteva
vedere perfino la gente camminare nei pressi dei bordi. Si ricordò di
un disegno animato visto sui testi scolastici: il formicaio, presente
solo sul pianeta. Stava guardando la sezione di un formicaio umano
esposto anziché da un vetro, da un enorme campo di forza invisibile
che impediva all'atmosfera di quel posto di volarsene via nello spazio
nero. Lo spazio, freddo e vuoto, faceva da incredibile sfondo alle
astronavi galleggianti attraccate, unite alla stazione da passerelle
tubolari flessibili. Cordoni ombelicali, pensò accarezzandosi la
pancia piatta e nuda con un brivido freddo, sgradevole.
- Hey, hey! Non andartene in giro. Fai quello che devi e sparisci.
L'uomo si guardò intorno, nervoso. Gli aveva passato ben tre dermi
di gialla per entrare lì. Aveva a portata di mano alcuni terminali
collegati alla rete di Controllo con privilegi alti. Quanto può
valere conoscere i vizi di qualcuno, si chiese sfiorando una
tastiera antiquata. Era una piastra sensibile al tocco con le
lettere cancellate dall'uso. Non ne avrebbe avuto bisogno.
Estrasse il suo Bolonov e le piastre a contatto ancora umide
di gel superconduttore, per fortuna. Aderirono alla porzione
rasata del suo cranio senza fare storie.
Si catapultò dentro il sistema con una velocità e una violenza
che avrebbe fatto vomitare anche un esperto cavaliere del
cyeberspazio. La rete di Controllo era fredda, semplice, schematica
ma soprattutto protetta male. Aggirò agevolmente la maggior parte
delle protezioni e sfondò con la forza bruta l'ultima solo perché
le andava di farlo. Si stava annoiando.
Lanciò la copia dei dati per sicurezza, ripromettendosi di
cancellarli subito per non occupare spazio prezioso nella memoria
che aveva cablata nel cervello. Cominciò a scorrere i dati delle
navi attraccate: ce n'erano poche, fece alla svelta. Aveva bisogno
di qualcuno che l'accogliesse senza fare storie, qualcuno che avesse
bisogno di lei.
Una sola aveva problemi coi pagamenti delle tasse, un equipaggio
minimo e l'affitto dell'ormeggio in scadenza di lì a tre giorni. Tutto
contemporaneamente. Perfetto. La nave aveva perfino un nome simpatico:
Coyote. L'unica cosa che non le piaceva era il comandante: una
donna. Avrebbe preferito un uomo. Non aveva più dermi né altre
droghe da scambiare con favori e forse un maschio avrebbe ceduto
a lusinghe di altro tipo. Ma non si sentiva ancora pronta per
quel genere di cose: il sesso non era certo il suo forte. Anzi,
i pagamenti “in natura” le facevano ribrezzo al solo pensiero. Sperò
ardentemente di non dovervi fare mai ricorso. Molto meglio ricattare
con l'offerta di aiuto immediato.
- Allora, hai finito?
- Che stress! Ho finito, cazzo. Ho finito!
Innervosita, si disconnesse più bruscamente di come era entrata
senza patire altro che un piccolo fastidio passeggero. Uscì dall'edificio
di Controllo sbattendo le porte e, sgranocchiando una barretta di
surrogato di cioccolato, andò a cercare una connessione da piratare. Aveva
bisogno delle telecamere di La Tana. Doveva trovare una morettona
riccioluta di nome Patris Michaela.