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Autore: milton1945    12/04/2025    0 recensioni
Quando un collasso generale sprofonda il mondo nel caos, un ingegnere spaziale e un'operaia immigrata si uniscono per sopravvivere e scoprire un segreto che potrebbe ridare speranza all'umanità.
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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15 marzo 

 

Era stato l’inverno più caldo di sempre, quello dei razionamenti idrici a Parigi e Roma e della prima esplosione nucleare in Ucraina. Otto europei su dieci ritenevano la fine del mondo probabile o molto probabile e Pablo si chiedeva se la speranza degli altri due fosse dovuta a follia o a semplice ignoranza dei fatti. 

Non aveva un valido motivo per essere diretto a casa. Non sapeva nemmeno se poteva ancora chiamarla così, a dirla tutta. Nella villa di famiglia non metteva piede da quando i suoi erano morti. In precollina e con un giardino tanto grande che da bambino ci si era perso un paio di volte, avrebbe dovuto venderla finché il mercato immobiliare respirava ancora. 

Eppure in quel momento di crisi planetaria, era stato un istinto primordiale a spingerlo a tornare, affrontando un lungo viaggio controcorrente come fanno i salmoni prima di accoppiarsi e morire, anche se lui non aveva in programma di accoppiarsi a fine corsa. E nemmeno di morire, se era per quello. 

 Le autorità lo avevano evacuato insieme gli altri dottorandi dal Mars Training Camp, nel deserto del Neghev, solo due giorni prima, imbarcandolo su un cargo diretto a una base militare in Toscana. Da lì aveva raggiunto Genova con autostop, pullman, e treni locali, ma l’ultimo s’era fermato in mezzo al nulla, a quindici chilometri da Torino, per non meglio definiti motivi di sicurezza. A Pablo non era restato che farsela a piedi. 

Camminava  da un’ora, costeggiando l’autostrada, quando una nuvola di fragranze da forno da far venire le lacrime agli occhi lo avvolse come un incantesimo. Scavalcata la recinzione, raggiunse una piccola stazione di servizio. Nel piazzale delle pompe gremito di auto abbandonate, testimoni silenziose di una vana attesa di benzina, si aggirava un ragazzo, in apparenza l’unico abitante del posto. 

«Il carburante è finito da ieri.» Come se Pablo fosse lì per fare il pieno o forse illudendosi che fosse un giorno come gli altri. «Abbiamo ancora caffè e cornetti se vuole.» 

Poteva avere diciott’anni e lui, con i suoi ventiquattro, doveva sembrargli grande, un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi. 

Mezz’ora più tardi, dopo averlo rassicurato con frasi alle quali al posto suo Pablo non avrebbe mai creduto, riprese il viaggio, riposato e con la pancia piena, ma avvicinandosi a Torino i negozi di alimentari con le serrande abbassate si facevano più frequenti e i supermercati sembravano devastati: carrelli rovesciati a terra, vetrate infrante e centinaia di piccole confezioni disperse sul cemento lurido dei parcheggi, schiacciate come se le avesse calpestate una mandria, in fuga da un incendio invisibile. 

A una fermata dell’autobus, una coppia di anziani sembrava in attesa. La donna strizzava gli occhi per leggere ad alta voce il tabellone degli orari di un mezzo che non sarebbe mai arrivato e l’uomo controllava l’orologio da polso, scuotendo la testa.

 Quella commistione di normalità e disperazione non lo stupiva più. Ognuno aveva interpretato i primi segni del collasso come disfunzioni temporanee. I più pessimisti prevedevano il disastro, ma solo per gli altri. Un mese prima, quando le rivolte per il pane in Africa avevano bloccato il canale di Suez, erano stati in molti a vederlo come un problema locale. 

«Appena il Mar Nero tornerà navigabile, il grano arriverà e le rivolte finiranno» si illudevano. 

Ma le immagini delle principali città in Europa, America e nel resto del mondo, proposte da internet nei rari momenti di regolare funzionamento, facevano a pezzi quelle illusioni. I paesaggi urbani erano ovunque simili a quello che circondava Pablo ora. 

Dalla sommità delle colline a sud della città, vedeva strade deserte, e colonne di fumo nero alzarsi lente dalla periferia industriale a nord, in un cielo grigio e uniforme che stormi immensi di passeri, piccioni e corvi, tutti insieme, attraversavano come impazziti. Lugubri sirene d’allarme coprivano il silenzio irreale dovuto all’assenza di auto. 

Pablo scese al fiume e l’attraversò da una passerella pedonale, con l’intenzione di raggiungere il centro e verificare se al municipio ci fossero punti di assistenza della Protezione civile, ma presto si rese conto dell’assurdità dell’impresa. Il caos sembrava avere colpito la città al centro come un bomba, rilasciando i suoi effetti attorno al punto d’impatto con una potenza decrescente: se in periferia c’erano ancora rari esercizi aperti e qualche anziano in ostinata attesa dell’autobus, più si avvicinava ai quartieri centrali e maggiore era il disordine sociale. I croissant caldi rimediati dal ragazzo dell’autogrill sembravano ricordi di una vacanza lontana, anche se era successo meno di due ore prima. 

Doveva ripassare sulla sponda destra per raggiungere casa, ma il primo ponte utile sembrava ostruito su entrambi i lati da veicoli messi di traverso, troppo organizzati per essere solo i resti di un incidente. 

Pablo si avvicinò, mantenendosi il più possibile al coperto dietro le siepi di biancospino che costeggiavano l’argine alto del fiume. Si rannicchiò e trattenne il fiato. 

Al centro del ponte una station-wagon, bloccata da una rudimentale gimcana formata con bidoni della spazzatura. 

Un capannello di persone attorno all’autista, appena sceso. Il grido disperato di una donna dall’interno. Spintoni, urla. Il bagagliaio aperto e qualcosa scaricato con rabbia. Una confezione da sei di bottiglie d’acqua e pacchi non identificabili, forse cibo. Ancora urla, prima della partenza dell’auto. 

Un posto di blocco dunque, dove civili qualsiasi fermavano i rari veicoli e li perquisivano in cerca di risorse, requisendone una parte per lasciarli passare. 

Pablo proseguì e al ponte successivo la scena era analoga. Mentre rifletteva sul da farsi, una colonna di mezzi militari apparve all’altro lato di una vasta piazza. Il lungo serpente di veicoli blindati, jeep armate e camion trasporto truppe si apriva un varco fra auto e scooter abbandonati, vittime degli incidenti causati dal blackout dei semafori e dal panico. I militari ignorarono gli incendi che devastavano la periferia, e si diressero al ponte, forse per lasciare la città e stabilire un presidio in un luogo meno esposto alla crescente anarchia. 

Comunque fosse, il mezzo capofila, un cingolato blindato e con una lama dozer in prua, spazzò via il blocco stradale. Pablo lo riconobbe come un Combat Engineer Vehicle: ce n’erano diversi al Mars Training Camp e la loro presenza aveva convinto gli studenti che fossero stati usati per rimuovere un campo profughi e fare spazio a loro, suscitando immediate proteste, poi rientrate dopo le rassicurazioni dei responsabili del dottorato. 

«Sono solo macchine movimento terra, ragazzi. Vecchi tank militari riconvertiti per usi civili.» 

Dalla facilità con cui il CEV distrusse le barricate, spazzando via veicoli e cassonetti come fossero sagome di cartone, Pablo capì che gli avevano mentito ma non aveva alcuna importanza ormai: la Palestina non esisteva più e Israele aveva forse i giorni contati. Ora doveva solo arrivare a casa, riflettere e fare un piano. 

Approfittando della confusione, Pablo attraversò di corsa il ponte e guadagnò una stradina che si inerpicava sul versante boscoso appena oltre il fiume. I fitti popolamenti di ippocastani, anche se provati dalla lunga siccità e con le foglie simili a carta bruciata, garantivano una buona copertura. 

La villa era una sagoma silenziosa contro il cielo grigio di fine giornata. La cancellata di ferro battuto spalancata, come se qualcuno, in un tentativo di fuga o di rifugio, l'avesse lasciata aperta. Si inoltrò nel giardino, fra i sentieri un tempo ben definiti da bordure geometriche di bosso e ora invasi da erbacce e piante rampicanti, intrecciate alle statue di marmo. I rami delle grandi querce creavano pallidi giochi d'ombra sul terreno ancora coperto di foglie secche. 

I danni sulla cornice della porta d'ingresso erano evidenti: graffi profondi e il legno intorno alla serratura scheggiato. Segni di scasso anche alle finestre del piano terra, e uno dei vetri blindati ancora intero ma incrinato ma. Accanto alla porta sul retro, la serratura biometrica era operativa e una sequenza do-do-sol-do-do gli confermò che Argo lo aveva riconosciuto. La App for Recognition and Gateway Operations, il software di scansione retinica, era molto lontano dall’accoglienza commovente del cane di Ulisse, e quelle cinque note, l’incipit di Also Sprach Zarathustra, a Pablo suonarono lugubri come mai prima. 

L'interno sembrava ancora inviolato, ma c’era poco da farsi illusioni, considerando quanto visto su quei ponti. Salì al piano superiore. Dalla finestra della sua vecchia stanza la villa vicina mostrava chiari segni di saccheggio: porte sfondate, finestre infrante e sulla facciata, graffiti più surreali che minacciosi promettevano morte e distruzione. 

E non era tutto: ombre furtive si muovevano oltre i vetri dell’ultimo piano e non sembravano i proprietari. L'aria portava il peso del silenzio, spezzato dall'abbaiare disperato di un cane in lontananza. 

Pablo non aveva molto tempo. Raggiunse lo sgabuzzino nel seminterrato, dove teneva il materiale da trekking. Oltre la porta scricchiolante, l'aria sapeva di vecchia carta e tela cerata. Gli attrezzi appesi in ordine alle pareti gli ricordavano sempre il motivo per cui li possedeva. 

Anni prima, la sua ragazza l’aveva mollato alla vigilia di una vacanza in montagna a lungo progettata insieme, e lui si era intestardito ad andarci da solo, in un patetico tentativo di dimostrarsi indipendente. Tipica demenza post-adolescenziale, per come la vedeva ora, ma poteva ringraziare quel capriccio: lo aveva costretto a diventare un esperto escursionista, abituato a lunghe e solitarie camminate nella natura, e a dotarsi di un arsenale adatto per la massima autosufficienza. 

Recuperò uno degli zaini, un robusto modello da venti litri. Ripararsi, nutrirsi, muoversi, comunicare: erano gli aspetti chiave della sopravvivenza. 

Fuori, grida rabbiose. Qualcuno era nel giardino. 

Scartò la tenda: troppo ingombrante. Meglio la bivy, più discreta. Aggiunse un telo tarp contro la pioggia. Scarpe robuste, vestiti a strati. 

Un rumore secco. Si affacciò alla finestra a bocca di lupo: ombre in movimento. 

Agganciò il sacco a pelo sotto lo zaino e passò ad acqua e cibo. Kit di purificazione, borraccia. Pochi alimenti, fornello da campo, combustibile solido. 

Il rumore di un mezzo a motore dall’esterno, lo spinse ad accelerare. 

Prese torcia, bussola, GPS e anche qualche mappa: i satelliti non sarebbero durati per sempre. Aveva appena aggiunto il pannello pieghevole per la ricarica di cellulare e satellitare quando il rumore di un fragoroso schianto metallico lo paralizzò: stavano sfondando la saracinesca del garage con un'auto o un furgone. Così sarebbero entrati prima del previsto. 

Accelerò: coltello, kit di pronto soccorso, spray urticante. Lo zaino pesava circa sei chili, un buon compromesso tra necessità e mobilità. 

Quello sgabuzzino ricordava tanti momenti felici, ma non c'era tempo per addii solenni: il futuro richiedeva sopravvivenza, non contemplazione; e per sopravvivere serviva un piano. Lui ne aveva uno e non prevedeva di restare lì. 

Si mise lo zaino in spalla e raggiunse la porta sul resto. Dallo spioncino sembrava sicuro e uscì. 

«Eccolo! L’ho visto, venite!»

Uno della banda diede l’allarme come se fosse Pablo il ladro. Grida piene di rabbia e disperazione, forse anche di molta paura. 

Lui prese rapido la via del bosco, che della collina scendeva al fiume. Si inoltrò tra pini e ippocastani senza voltarsi. Lungo il sentiero radici sporgenti affioravano come serpenti dal terreno umido, rami bassi gli graffiavano il viso e le braccia mentre correva, e buche nascoste sotto uno strato di foglie cadute minacciavano di farlo inciampare a ogni passo. 

Le recinzioni delle ville vicine potevano rallentare la corsa sua e degli inseguitori, ma Pablo ne ricordava ancora la disposizione e sapeva come evitarle. Il respiro si faceva affannoso, il cuore martellava nelle orecchie, mescolandosi ai suoni del bosco: fruscio di foglie mosse dal vento, crepitare di rami spezzati dai suoi passi frettolosi, e ancora quell’abbaiare lugubre in lontananza. E le grida dei suoi inseguitori sempre più flebili e lontane. 

Si fermò solo al limitare del bosco, dove una strada lo separava dal Po e dal parco fluviale. Piegato e con le mani sulle ginocchia, respirò a fondo l’odore di terra bagnata e quello aromatico di resina, prima di ripartire. 

Oltre la strada, dalla città, una brezza leggera portava odore di bruciato e le colonne di fumo nero che striavano il cielo erano aumentate. 

   
 
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