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Autore: _Alcor    26/04/2025    2 recensioni
Il tentativo di recupero di una salma da parte dei Becchini fallisce. L’anziana non ha famiglia o contatti con l’esterno da mesi, ma al suo capezzale un’entità dalla forma di bambina e dagli occhi eterocromi rifiuta di lasciarle la mano.
Gli operatori hanno fatto contatto visivo con la creatura. Il primo soffre di emicranie croniche da due giorni, il secondo ha sviluppato una forma grave di epilessia. Si richiede intervento immediato per neutralizzare la minaccia.
Ma messa davanti all’entità, la Spazzina Leila Leyven esita. Non è misericordia, è solo curiosa di scoprire che cosa farà quel mostro una volta cresciuto come un essere umano.
{Log.no 1927 | Due brevi stralci di vita + un documento | Ispirazione a LC e DD di Project Moon}
Genere: Horror, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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[Leila Leyven]





«Segnale GPS assente.»

Il tachimetro digitale sfarfalla, i valori del furgoncino oscillano senza una regola. Stacco il piede dall’acceleratore e sposto lo sguardo dalla carreggiata ai campi sconfinati che circondano la zona.

Terra scura a perdita d’occhio divisa dal cielo dalla striscia verde degli argini del fiume, la calura estiva distorce i contorni dell’orizzonte dietro una nebbiolina lattiginosa. Quando si gira da queste parti, sembra sempre che la società sia rimasta bloccata a trecento anni fa.

La nebbia si muove, al suo interno una cavalletta nera compie grossi balzi.

Ovviamente, quelli fastidiosi si trovano sempre in culo al mondo.

Mi sistemo l’auricolare sull’orecchio, premo l’acceleratore al massimo e scalo fino alla sesta. L’essere atterra al centro della strada: occhi arancioni su un volto liscio come una maschera, arti umani piegati in maniera innaturale che a malapena supportano il corpo dalle costole sporgenti.

Lo investo e il furgone sobbalza. La massa di arti e ali membranose sparisce sotto il cofano, scrocchiano come il carapace di un insetto che viene schiacciato. Controllo lo specchietto retrovisore, la massa nera giace al centro della strada circondata da una macchia di sangue luminescente. Un’ala tremola, quasi cercasse ancora di prendere il volo.

Il tachimetro digitale si ferma sugli ottantasette. Clicco il pulsante di emergenza del telefono e drizzo il sostegno per vedere meglio. L’icona del GPS ancora gira in cerchio, in attesa di trovare il segnale.

Il suono di una cornetta che viene alzata riverbera nell’auto. Tipico di Dom, rispondere ancora prima che il cellulare squilli. Batto le dita sul volante. «Ho steccato un ein, dopo torno a raccoglierlo se qualcun altro non se lo fa su.»

«Se l’hai triturato di nuovo sotto il furgone, temo non potremmo nemmeno estrarre gli occhi.» Dom ride, dalla linea arrivano le note di un pianoforte. Lui dentro le mura della città con la musica classica, io a fare la pioniera per l’umanità.

Sappiamo benissimo chi di noi due si diverte di più. «La Collettività(CIVITAS) mi perdoni, i suoi servi mi fanno sempre schifo.»

Il po-pon del navigatore trilla. Lancio un’altra occhiata allo schermo del telefono, tempo stimato di arrivo tre minuti. La strada prosegue con una curva gentile verso destra, un paio di alberi alti e privi di foglie circondano il cancello d’entrata della casetta.

La voce di Dominic arriva distorta, si vede che siamo vicini al posto di arrivo. «Vedi di non fare lo stesso casino con lo zwei, quelle calamità non sono roba da tutti i giorni.»

Il contorno della casa vibra, le ombre che delineano il tetto sfumano a un grigio irregolare simile al tratto di una matita su un foglio di carta. Un’anomalia talmente profonda da incidere sulla struttura fisica degli oggetti. Non le lasciano mai degenerare fino a questo punto.

Il contachilometri sfarfalla di nuovo, la linea con Dominic cade. Mi scappa una risata di gola. Se vogliamo rendere importante il laboratorio Leyven, dobbiamo iniziare a fare apparecchiatura a prova di anomalia.

Mi tolgo l’auricolare e lo lancio sul cruscotto, vista la situazione nemmeno quello andrà finché non avrò finito. Rallento, scalo alla seconda e ruoto il volante per accostarmi al vialetto di entrata.

Il furgoncino scricchiola. Investire quella bestia non deve avergli fatto bene.

Giro la chiave per spegnerlo, acchiappo il casco protettivo dal sedile del passeggero e me lo infilo. Sposto la coda di capelli castani perché rimanga assicurata e clicco il pulsante alla base dell’elmetto. I cuscinetti freschi si attaccano alle guance e, con un sibilo, le placche protettive si chiudono a proteggere dal mento fino al naso.

Il visore trasparente si accende, i soliti valori vitali brillano di rosso e arancione senza regola. Attendo che il sistema riconosca l’interferenza da anomalia e si spenga da solo. Allaccio il colletto della tuta protettiva, la gomma aderisce al corpo come una seconda pelle. Lo sbuffo dell’aria eliminata dai fori sulle spalle si intrufola sotto il mento.

Scendo giù. Una catena e un lucchetto rotto pendono dai battenti del cancello, per terra c’è ancora la striscia di nastro giallo che segnala un luogo da cui recuperare una salma da mandare al riciclo.

Con il tempo che è passato, forse faranno qualcosa di utile giusto con le ossa del morto. Sempre che l’anomalia non abbia intaccato il corpo stesso, quando si parla di grado III non puoi dare per scontato nulla.

Tiro fuori dallo sportello posteriore la valigetta nera con il logo del Laboratorio Leyven, faccio scattare le sicurezze ed estraggo la pistola da soppressione. Silenziosa, in grado di spegnere un corpo con un solo proiettile e, soprattutto, senza intaccarne i tessuti preziosi. La poggio alla cintura, si attacca con un suono di risucchio.

Supero il cancello e mi avvicino alla porta di ingresso, è spalancata. Devono averla lasciata così i Becchini quando sono scappati. Non posso dargli torto: gioco con roba malfunzionante, ma ho infinite protezioni in più rispetto a dei nessuno privi persino di una tuta anti-distorsione.

Mi sporgo verso l’interno: i contorni delle mensoline sono irregolari come se fossero state abbozzate da un artista nervoso, sfumano a pallide note di grigio. Uno strato spesso di polvere nera copre le centinaia di foto sul muro, rappresentano le stesse quattro persone.

Inspiro: odore di stantio e carbone, nemmeno il filtro dell’aria funziona. Che culo.

Schiocco la lingua, per ora la casa corrisponde al profilo di una abitazione dove potrebbe nascere uno zwei. Abbandonata, un solo abitante all’interno che ha perduto qualche familiare fin troppo importante e che non ha mai superato la disperazione a essa associata. La Collettività(CIVITAS) e Il Singolo(DESERTOR) avranno gettato il loro sguardo su di lei per esaurire il suo desiderio di rivedere i cari perduti.

Magari smettessero, l’ultimo zwei che è scorrazzato per trenta giorni ha raso al suolo la vecchia capitale. Questo qui dev’essere vivo da almeno quindici, forse riuscirò a cavarmela.

Il corridoio si apre su due porte, per terra sono rovesciate le borse dei due Becchini scappati. Attrezzatura fin troppo costosa è sparsa un po’ ovunque sul pavimento grigiastro; per ripagare cose del genere neanche un espianto totale di organi basta. Loro forse se la caveranno se si offriranno come tester per l’osservazione degli effetti dell’esposizione a individui che hanno incontrato lo sguardo dei Senza-Nome.

Scavalco la custodia bianca da cui spunta un cucchiaio per l’estrazione della cornea. Una delle porte dà su una gigantesca cucina impolverata di nero, l’altra su una stanza dove una vecchia dalla pelle rosata giace su un letto con gli occhi chiusi.

Coperte, cuscino… tutto è un insieme di righe irregolari che tremano e si spostano. Dal lenzuolo spunta solo un braccio sottile come il ramo di un alberello, stringe una mano paffuta. Da bambino.

La salma e lo zwei. Non ho preso pillole per reggere le distorsioni di grado I, se alzo gli occhi e incontro il suo sguardo andrò giù come un cadavere pure io. Poggio la mano alla pistola di soppressione.

Il colorito della donna è buono per una che dovrebbe essere un cadavere da un mese, potrei persino pensare che tuttora il suo cuore pompi sangue nelle vene. Mi concentro sul mento dell’altro essere. Capelli corti e ciuffi irregolari biondo cenere, le ragazze nelle foto non avevano quel colore.

I Senza-nome avranno fatto una chimera di tutti i morti che la vecchia ha pianto, mi dispiace così tanto non poterla guardare in faccia. Sono davanti a qualcosa di talmente raro.

Le linee a matita si ravvivano, si muovono a destra e sinistra come se il pavimento sotto di noi dovesse aprirsi per inghiottirci. Stringo l’impugnatura della pistola ed esito, se la uccido ora solo i suoi occhi venderanno abbastanza da permetterci di comprare strumentazioni migliori per il laboratorio. Ma non sapremo mai cosa accade se studi veramente uno zwei e i loro poteri al di sopra di ogni legge fondamentale, cosa succederebbe se gli facessimo sviluppare il raziocinio di un adulto.

Espiro. «È morta, devi lasciarcela mandare al riciclo.»

Le linee crepitano, formano decine di piccole fiamme con i bordi degli oggetti. Dominic è come me, avrebbe fatto la stessa mossa. Ne sono sicura. Basta che non mi tiri indietro.

La zwei dischiude le labbra, la voce è dissonante come se un uomo e una ragazzina stessero parlando allo stesso momento. «In quel caso, devo andarci anch’io.»

È in grado di parlare, ottimo! «E perché?»

Uno stridio mi distrugge le orecchie. Le parole mamma, figlia, sorella, amore si sovrappongono allo stesso tempo. «…non si abbandona.»

Mi lacrimano gli occhi, sangue bollente mi cola dal naso e si accumula sulle labbra. Contro una come lei le tute protettive potrebbero essere fatte di carta e non farebbe differenza, pare che la sua stessa esistenza sia fatta per nuocere agli umani.

«Te l’ha chiesto la signora?»

Mugugna. «Vuole che le rimanga accanto.»

«Fino a quando?»

«Per sempre.»

Ha senso, è lo stesso desiderio che l’ha portata ad attirare lo sguardo dei Senza-nome. «E lei è ancora qui?»

Scuote la testa, la stretta sulla mano esile trema. «Non so dove sia finita.»

Riconosce il concetto di morte e il concetto di lealtà. Mi avvicino e le poso una mano sulla spalla. «Ha smesso di esistere, come tutte le persone quando muoiono. Per questo devono essere portate al riciclo, dove possono aiutare chi è ancora vivo.»

La bambina tenta di sciogliere la stretta, ma le dita dell’anziana non la lasciano andare come se fosse appena iniziato il rigor mortis. Non dovrebbe essere possibile in un cadavere di due settimane.

«Rimarrò da sola?»

«Oppure puoi venire con me, se seguirai alcune regole prometto di non abbandonarti mai.»

«Davvero…?» La voce sfuma, perde i toni maschili che la venavano.

Un altro stridio violento mi martella la testa, decine di parole si accavallano. Non ti credo, lo vorrei, ma mamma–! Il sapore ferroso del sangue mi punge la lingua. «Devi solo seguire una regola: il giorno in cui esprimerai un desiderio, sarai uccisa.»



Attivo il liquido per pulire i vetri, poi i tergicristalli, i residui collosi si diluiscono in una schiuma verdastra che viene sparata sul prato. Più ci provo, più sembra che il sangue della rana-zanzara riappaia sul parabrezza in luoghi differenti. Certe creature son delle gran rotture anche dopo essere morte.

Ottimismo, sono quasi a casa. Nel retro ho due cadaveri di ein e una vecchietta da mandare al riciclo, e sul sedile del passeggero l’equivalente di una catastrofe su gambe.

Mi scappa un sorriso, Dominic adorerà scoprirlo.

Dalla finestrella del drive-thru l’inserviente dalla faccia butterata di acne mi tende un sacchetto di plastica e il portabicchieri. «Non dimenticate di inquadrare il QR code all’uscita, per i vostri punti fedeltà!»

«Cosa date attualmente?» Piazzo il cellulare sul lettore accanto alla cassa, il led rosso a lato segnala la transazione avvenuta. Gli sfilo di mano l’ordine.

Il sorriso dell’inserviente si allarga, il tono sale come se si fosse appena ricordato che dovrebbe essere estremamente energico con i clienti. «Con duecento punti c’è il peluche MantoCaramello.»

Immagina venire a comprare qui ogni giorno per i prossimi tre mesi per permettersi un pupazzo. Lancio un’occhiata alle gambe della zwei seduta accanto a me, le passo il cibo tra le mani. Con l’età apparente che ha, è normale che tutti si mettano subito a cercare di vendermi chincaglieria.

Meglio far finta di nulla e tirare avanti: le ho fatto mettere le lenti a contatto che schermano l’influenza dei Senza-nome ma sono studiate per funzionare sugli ein. Sposto il piede dalla frizione e premo delicatamente sul gas, la macchina arranca avanti. Lo scricchiolio dopo che abbiamo investito la seconda anomalia è diventato un cigolio sofferente.

La zwei tiene il viso rivolto al cibo ma non lo tocca. Non pare percepire la necessità di cibo e, ne son sicura, la vecchia non le avrà preparato niente nel tempo in cui sono state insieme. «Mangia, Amelia.»

«Amelia?» chiede, la voce ora è da bambina della sua età. Persino il tono confuso le si addice.

«Primo nome che mi è venuto in mente, non posso certo chiamarti Ehitu per il resto della vita.»

«Non è un brutto nome.»

Per quanto sarebbe divertente chiamarla così, dovremo mantenere un minimo di apparenze per la durata di questo esperimento. Accanto all’uscita che si immette sulla strada, un cartellone enorme mostra MantoCaramello: muscoli guizzanti e un grosso sigaro che pende dalle labbra. Stringe la versione pupazzo di sé stesso.

Lo indico con la testa. «Ti piacerebbe?»

«Se ci fosse di BaffoZafferano, magari.»

Corrugo un sopracciglio. Non fanno merchandising di quel personaggio da anni, ha le conoscenze della vecchia? O forse, delle persone su cui è stata basata…

Un clacson mi riscuote. La fila del drive-thru è avanzata e il guidatore alle nostre spalle si sta sperticando in gestacci. Mi immetto sulla strada e subito nella rotonda. Tappa veloce al riciclo convenzionato e subito a casa dal fratellino.

«Ti immaginavo di più preferire… chessò, DonnaWasabi.»

Amelia alza il mento e gira verso di me il viso. Un occhio blu notte e uno arancione vibrante mi bruciano le retine. «Veramente–»

Stringo il volante e inchiodo, le sue parole sfumano nel morso di un mal di testa. La visuale mi si riempie di macchie rosse e blu, ho l’impressione che qualcosa di soverchiante e incomprensibile mi stia stringendo il collo.

Uno strattone, sbatto il muso contro il volante. Decine di clacson si attivano allo stesso tempo e la sensazione vischiosa di una bibita mi bagna i pantaloni. Prendo fiato, la bava mi sfugge dalla bocca senza che riesca a controllarla.

C’è un ombra nera su di me, distinguo il contorno degli occhi severi anche se non riesco a identificarla. Al suo fianco un automa umanoide, tenuto insieme da radici intrecciate, gira lo sguardo: gli occhi brillano come il sole estivo.

Delle lenti contenitive migliori sono le prime cose a cui dobbiamo pensare, Dom. Così come sono non contano un cazzo.



Cinque anni passano in un batter d’occhio e si diventa ricchi in così poco, se fai le scelte giuste. Smonto dall’auto e raggiungo Amelia davanti al grattacielo dei laboratori Leyven, un intero edificio di sessanta pianti a nome nostro.

Le passo il braccio intorno alla spalla e lancio uno sguardo di sfuggita ai suoi occhi, le iridi rosso fuoco mi strappano a malapena un sospiro dolorante. Mi mette una mano sulla guancia e fa girare la faccia.

«Non metterti a rischio così.»

Le sorrido, sembra già una ventenne. Dobbiamo ancora capire come funziona la sua crescita. «Poterti guardare il viso è una conquista, dobbiamo godercela.»

Le lenti a contatto che Dominic ha creato sono in grado di far passare un ein per una persona totalmente normale; i giorni in cui incrociare lo sguardo della mia gallina dalle uova d’oro preferita mi mandava in coma per settimane sono lontani e dimenticati.

Amelia non fa un passo, si abbraccia i gomiti e studia le porte di vetro che conducono all’interno. «Posso davvero entrare?»

Tiro fuori dalla tasca il badge. «Se funziona, direi di sì.»

«L’abbiamo usato per fare la spesa un attimo fa.»

«Allora significa che il piccolo di casa non ci ha ancora diseredato.» Lo appoggio sul lettore accanto all’entrata, si accende il led verde. Le porte scivolano di lato senza emettere suono, l’ingresso è uno stanzone enorme con un tappeto rosso che porta agli ascensori.

«Benvenuta Leila,» la voce dello speaker è maschile, calda, rabbrividisco. Ho già trent’anni, prima o poi dovrei davvero considerare di interrompere la mia vita da tutrice single per qualcuno con una voce così.

Proseguo, Amelia mi segue tenendo un paio di passi di distanza. Si guarda intorno come se ambienti del genere fossero qualcosa di nemmeno concepibile per lei. «Sicura che possiamo?»

«È anche casa nostra, tecnicamente.»

Congiunge le mani davanti al viso. «Non dovrei avere il vostro cognome, non me lo sono guadagnata. E non siamo nemmeno arrivati con un regalo, non ti ho sistemato la ricrescita.»

Se dopo tre mesi si vede a malapena mezzo dito di ricrescita, possiamo aspettarne altri tre prima di rifare la tinta. Mi fermo e le stringo la spalla. «Ame, respira. Dominic ha tutto quello che desidera, e se non lo ha, lo compra.»

Amelia chiude gli occhi, prende un grosso respiro. «Non me lo son guadagnata.»

«Mah, guarda che a lui non interessa essere così formale. Avrebbe preferito incontrarti alla taverna dove va a sollazzarsi le notti. In ‘sta casa di certo non ci dorme.»

«A che gli serve?»

«Apparenze, più che altro luogo per ricevere gente. Tu vorresti qualcosa del genere?»

Amelia storce il naso. Le ho talmente inculcato il concetto che desiderare è qualcosa di sbagliato, che anche solo la parola le provoca una rigidità fisica istintiva. «Ho a malapena finito di risparmiare per il robot pulitore, non ho la testa per mettermi a studiare le caratteristiche di una buona casa per il ritiro.»

Quello che vuoi, compralo. Quello che non puoi comprare con lo sforzo, non lo vuoi veramente. Non pensavo che un concetto come questo sarebbe bastato a far rallentare la manifestazione dei suoi poteri da zwei.

Ci fermiamo all’ascensore, mi sporgo verso lo scanner per la retina. La luce rossa mi abbaglia per qualche secondo, le porte si aprono di nuovo.

Grazie ad Amelia abbiamo potuto creare un patentino per la formula di lenti a contatto che schermassero totalmente l’influenza del Singolo(DESERTOR) e della Collettività(CIVITAS). Studi su di lei hanno permesso di identificare più facilmente dove si concentrano le influenze dei Senza-nome nel corpo e come corrompano la loro umanità. Gli espianti dai cadaveri sono aumentati di accuratezza e profitti. Cedendole anche solo un quarto delle mie rendite per il resto della vita, potrebbe condurre una esistenza dignitosa per sempre.

È il minimo che possa fare per ripagarla, tanto tutti quei soldi non mi servono.

Amelia mi sfiora il braccio, i lividi mi mandano una fitta direttamente in testa. Saranno due mesi che non accennano a guarire, sto diventando troppo vecchia per continuare a giocare alla Spazzina in ogni caso.

  
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