1.
Futuro oscuro, futuro
incerto
“Chiudi gli occhi e sta’ in
ascolto, ora.”
“In ascolto? Di cosa?”
“Di tutto. Senti il rumore del
vento tra le foglie.
Scaldati alla luce del sole.
Sfiora con una mano la
delicatezza di una foglia appena nata.
Ascolta la vita, e trovale un
senso.”
Tutt’intorno a lui, la vita
appariva sempre più ricca, sempre più immensa e grandiosa.
Come poteva spiegare a parole
l’insieme di sensazioni che avvertiva?
“Tutto ha un senso, anche le
cose più piccole, anche quelle che sembrano insignificanti”
Fu la risposta, nel buio dei
suoi occhi chiusi.
“Senza uno di questi elementi,
non sarebbe mai la stessa cosa.
Saremmo privati di un dono
inestimabile, proprio perché ogni elemento, in natura, ha uno scopo.
Perfino questa foglia tenera
sarà utile a suo tempo, per tutto il tempo che durerà.”
All’improvviso, un grande
senso di angoscia.
Una strana tristezza si
impadronì all’istante del suo cuore.
L’altro, in ascolto, lo capì.
“Se resti qui, quale sarà il
tuo scopo? Per chi sarai indispensabile?”
Silenzio, più eloquente di
mille parole.
Non lo sapeva.
Non lo sapeva affatto.
Era immobile sulla
porta, le valigie in mano, il buio delle finestre chiuse che lo accoglieva.
Non riusciva quasi
a credere di essere tornato lì. Da solo.
Ogni singolo istante
di silenzio sembrò gravare su di lui, più del peso delle sue valigie,
abbandonate bruscamente sul ciglio della porta.
Gli parve tutto
così privo di senso da gettarlo in uno stato di sconforto incommensurabile.
Richiuse la porta
d’ingresso del suo appartamento, con lentezza, quasi con solennità, sapendo che
questa svolta, nella sua vita, sarebbe stata decisiva per il suo futuro.
Entrò piano,
ascoltando il rumore dei suoi passi incerti, e la frescura data da tutto il
tempo in cui quel luogo era stato privato dalla luce del sole, in totale
contrasto con il clima piacevole di quella bella giornata di primavera.
Spalancò le
finestre e aprì le serrande, sentendo un impellente bisogno di luce, così
calda, così rassicurante in quel momento.
Si affacciò,
osservando il panorama consueto della città di Tokyo.
E, finalmente, si
concesse un sorriso, rassicurato.
Takaishi Takeru era
davvero affezionato al luogo dov’era cresciuto: ogni alto edificio, sobrio e
avanzato, ogni soffio di vento che tanto sapeva di ritorno a casa, ogni rumore
di clacson, nel caos del traffico giornaliero, ogni corsa di passanti per
arrivare in tempo al lavoro, ogni immagine di frenesia nei volti di chi
passava, riusciva a donargli un senso di benessere temporaneo, che sembrava
essere scomparso da qualche tempo.
La frustrazione,
che lo affliggeva da mesi, gli lasciò appena un attimo di tregua.
Era tornato. Era
finalmente a casa.
Era così strano,
tuttavia, pensare che, da quel momento, non avrebbe più dovuto occuparsi di
nessuno, che ora tutto ciò che poteva fare era riprendere i suoi studi e
pensare solo a condurre una vita tranquilla, come ogni normale ragazzo
ventitreenne dovrebbe fare.
Forse, però, lui
non voleva condurre una vita in
maniera tanto ordinaria.
Forse, il suo modo
di trascorrere ogni giorno di qualche mese fa lo rendeva più appagato, sebbene
fosse decisamente più duro e pieno di rimpianti per ciò di cui lo aveva
privato.
Sospirò, fissando
lo sguardo su alcune macchine in movimento, per la strada.
Non era certo la
solitudine a spaventarlo: aveva imparato fin da bambino a cavarsela da solo,
senza mostrare esitazione nell’affrontare difficoltà e momenti di tristezza.
Avrebbe affrontato
senza pensieri ogni cosa, se non fosse stato per un problema.
Il problema era
l’inutilità della sua vita attuale: lo spaventava, e lo lasciava senza punti di
appiglio a cui aggrapparsi.
Più ci pensava, più
non riusciva a capire cosa ci fosse che non andava in quello che faceva.
L’università, che aveva cominciato a frequentare dalla fine delle scuole superiori,
gli aveva sempre riconosciuto meriti molto elevati, che riuscivano a soddisfare
il suo grande impegno nello studio; la sua famiglia, pur se separata da tanti
anni, era sempre stata per lui un punto fermo, appoggiandolo e aiutandolo
quando ne aveva bisogno; gli amici non gli erano mai mancati, a volte sinceri e
indispensabili che frequentava ancora, o che aveva frequentato fino a pochi
mesi prima.
Aveva tante
attitudini, coltivati durante gli anni dell’adolescenza e della sua crescita,
tra cui la pallacanestro, alla quale si dedicava durante il tempo libero, per
distrarsi dai più tristi pensieri.
Eppure, qualunque
cosa facesse, la sua esistenza sembrava solamente di contorno, di scarsa
importanza.
Era come se
qualcuno, crudelmente, avesse coperto con vernice bianca ogni mattonella di un
edificio colorato da tinte vivaci e che evocavano sentimenti profondi: tutto
ciò che restava era una struttura uguale alle altre, anonima e svuotata da
tutto l’impegno di chi l’aveva costruita con passione e grande applicazione,
senza alcun dettaglio, anche insignificante, che riuscisse a differenziarla
dalle altre.
Così vedeva tutte
le sue azioni, Takeru: come spreco di impegno e di energie, soffocate da un
senso di frustrazione che rendeva ogni sua voglia di rendersi utile senza
senso.
Era un edificio
anonimo, formato da mattonelle immacolate di scarsa importanza.
Da quando aveva
preso totalmente consapevolezza di sé e delle sue aspirazioni, aveva sempre
desiderato di rendersi utile per qualcuno, di agire in maniera tale che il suo
impegno risultasse indispensabile per gli uomini, che fosse ricordato per
qualcosa di bello, di appagante, di rasserenante.
Aveva tentato tante
volte, in questi ventitrè anni, senza sosta, senza darsi pace.
Tentato.
Si era maledetto
varie e varie volte, senza mai porre fine alla sua frustrazione.
Nessuna delle
strade che sembravano tracciarsi chiare davanti ai suoi occhi riuscivano a
concretizzarsi, svanendo e perdendo d’importanza nel momento in cui Takeru
decideva di intraprenderle. A cosa servivano i suoi studi, se la sua passione
non riusciva mai a dargli un frutto concreto, piacevole, soddisfacente? A cosa
serviva la pallacanestro, dato che sapeva che non sarebbe mai diventato un
giocatore di fama internazionale per sua scelta?
A cosa serviva la
famiglia, se, nel momento in cui lui decideva di aiutarli a risolvere qualche
problema, appariva chiaro che quello non era il suo destino, che doveva
staccarsi da loro il più possibile?
Sorrise mestamente,
mentre passava una mano tra i suoi capelli corti colore del grano.
Si era impegnato a
fondo, l’ultima volta, e anche allora credeva di aver trovato qualcosa di
giusto a cui applicarsi. Evidentemente, però, suo fratello Yamato non era dello
stesso avviso.
“A qualcuno servirò, lo so che
servirò.”
“Non ne sei sicuro, Takeru.
Perché cerchi di illuderti?”
“Hai bisogno di aiuto, e io
intendo darti i mezzi necessari per farti riavere tutti quegli strumenti che ti
hanno rubato. Da solo non riuscirai mai a…”
“Non reggerai tutto questo
stress. Ti stai spegnendo, e nemmeno te ne accorgi.
E’ la mia vita che cerchi di
salvare, ma non credere che ti darà soddisfazione:
risolverò il problema, presto
o tardi, e allora tu cosa farai?”
“Voglio rendermi utile adesso,
voglio aiutare mio fratello, i miei amici…”
“E dopo? Aspetterai che io sia
di nuovo nei guai per sentirti bene?”
“Non capisco… Cosa stai
dicendo?”
“Vai via da qui, Takeru.”
“… Cosa?”
“Torna a Tokyo, riprendi la
tua vita e lasciami qui.”
“Mi stai… scacciando? Perché?
Io…”
“Lo hai detto tu stesso: ogni
essere vivente trova il suo scopo, nella vita.
E credimi, se ti dico che
questo non è il tuo.
Non è me, che devi aiutare:
sei solo tu, ma non te ne vuoi rendere conto.
Credi davvero che quella
pianta che hai sfiorato con le dita sarebbe viva, se non avesse trovato il
terreno giusto?
Se ti lasci morire dentro,
difficilmente guarirai.”
“Yamato, ma…”
“E’ necessario che tu mi dia
retta.”
Takeru sospirò,
allontanandosi dalla finestra e cominciando a disfare le valigie, con l’unico
intento di trovare qualcosa da fare per allontanare le sue preoccupazioni dalla
mente.
Quel ricordo non
voleva lasciarlo andare, a quanto pareva.
La verità era che
quelle parole lo avevano ferito profondamente: Yamato non aveva l’abitudine di
parlare molto, ma le sue frasi erano sempre cariche di significato, come quella
volta. Non si era preoccupato di smorzare i termini, costringendolo ad aprire
gli occhi sulla realtà e sulla vita insensata a cui si stava condannando.
Per un momento,
aveva creduto sul serio che aiutare suo fratello maggiore e la sua band a
recuperare gli strumenti che qualcuno aveva rubato loro senza riguardi e senza
contegno e freno, lo avrebbe fatto sentire realizzato, impegnato a fare
qualcosa di utile.
Quel discorso lo
aveva fatto risvegliare da quell’apparente stato idilliaco di soddisfazione in
cui era caduto: aveva avuto il potere di farlo tornare nel suo piccolo
appartamento a Tokyo, dopo aver vissuto per un paio di mesi a Osaka dove era
Yamato, di fargli riprendere i suoi studi universitari e la sua ricerca disperata
di uno scopo.
Ma non era felice.
Aveva solo voglia
che tutto si concludesse in qualche maniera.
Nell’estrarre un
block notes di colore nero si fermò di colpo, come se avesse ricevuto un colpo
all’altezza dello stomaco.
Quante volte aveva
desiderato di strapparli, quei fogli senza senso?
Quante volte aveva
pensato di terminare anche questa sua grande passione, visti gli scarsi
risultati che aveva il suo assiduo lavoro?
Takeru non ebbe la
forza di aprirlo, di sfogliare quelle pagine piene di cancellature, di frasi
senza senso, di “x” che cancellavano, alle volte, righi interi occupati dalla
sua scrittura stretta e ordinata.
Erano le storie che
aveva scritto negli ultimi mesi.
Erano le storie
prive di sentimento, piene di freddezza e di incompletezza, che avevano
solamente contribuito a demoralizzarlo.
Erano il parto
malriuscito di tante idee chiare e perfette nella sua mente.
Erano il fallimento
del suo esperimento che andava avanti da anni.
Si sedette sulla
poltrona più vicina, posando il suo sguardo colore del cielo sulla trama della
copertina. Scrivere aveva rappresentato la sua grande passione fin da piccolo,
quando aveva dedicato una poesia a sua madre, all’età di otto anni: ricordava
che lei ne era rimasta davvero impressionata, e aveva deciso di continuare per
questa strada, con maggiore impegno e sempre più grande passione per
quest’attività.
Con il passare
degli anni, però, i suoi lavori avevano cominciato a divenire senza alcun
senso, privi di qualsiasi emozione e di caratterizzazione di personaggi. Era
rimasto sconvolto, inizialmente, per poi reagire correggendo, rileggendo,
lambiccandosi il cervello per ore e strappando innumerevoli volte le pagine che
non andavano, che rovinavano l’effetto che voleva che suscitasse.
Solo ultimamente,
però, aveva capito.
Non erano solo
pagine, che non andavano: erano tutte le storie, senza possibilità di fare
alcunché per risolvere il problema.
Si era rassegnato a
malincuore, pensando di non avere scelta.
Dentro di sé, però,
un senso di sconforto profondo era riuscito a peggiorare la sua situazione di
tristezza e insoddisfazione. Continuava a chiedersi se, un giorno, ogni sua
domanda avrebbe avuto una risposta, ma sentiva che, probabilmente, quel giorno
non sarebbe mai arrivato.
Cosa intendeva
Yamato, quando parlava di terreno giusto?
Aveva qualcosa in mente, o aveva parlato in maniera generica?
Così sconfortante,
il sapersi solo ad affrontare i suoi timori…
Un improvviso
vociare, proveniente dalla finestra aperta, lo fece sobbalzare, sorpreso.
Sembrava un insieme
di voci infantili, che ridevano e strillavano allegramente, come solo i bambini
spensierati sanno fare.
Takeru si alzò in
piedi, incuriosito. Il dolce chiasso che entrava nell’appartamento era davvero
troppo forte, per appartenere a pochi piccoli che giocano insieme: possibile
che ci fosse un qualche asilo, nei paraggi?
Poteva darsi che
fosse rimasto fuori città per troppo tempo, dopotutto.
Si affacciò
nuovamente alla finestra, scrutando se, nei dintorni, ci fosse la fonte di
tante risate serene e un po’ birichine. Osservò palazzi, cercò tra i soliti
passanti frettolosi, scrutò, un po’ perplesso, tra le file di auto parcheggiate
e tra le strade accanto alle case abitate, senza, però, arrivare a capo di
questa stranezza.
Solo quando ebbe
fissato lo sguardo su una villetta circondata da un giardino verde –cosa
abbastanza rara, in una città molto priva di spazi verdi qual era Tokyo – poco
distante da dove si trovava lui, sgranò gli occhi, sinceramente sorpreso.
Un grande gruppo di
bambini, di età diversa e di ogni tipo e carattere, si rincorreva e giocava
dando calci ad un pallone, come se fosse il massimo divertimento che un essere
umano possa mai sperare di ottenere. Altri, invece, erano seduti sull’erba,
soprattutto bambine, da quello che Takeru riusciva a notare, e avevano in
braccio alcuni giocattoli: immaginò che fossero bambole, che le piccole di
quell’età immaginano siano le loro figlie.
Ma la cosa che
colpì più di tutti il giovane che osservava la scena, non credendo ai suoi
occhi, era il clima di tranquilla complicità che regnava in quella villetta.
Da quanto tempo non
sorrideva più in quella maniera tanto ingenua e spontanea?
Da quanto tempo
aveva dimenticato come si faceva ad essere davvero felice?
Anche i bambini
sapevano vivere meglio di lui, a quanto sembrava.
Un lieve sorriso
increspò le sue labbra, spesso rigide in un’espressione seria.
Era davvero strano,
pensare che anche lui era stato un bambino, un tempo.
Troppo tempo fa, in
effetti. Prima che la sua crescita lo lasciasse a brancolare nel buio, senza
una sola candela a indicargli la strada.
Vide, con rinnovato
stupore e senza che riuscisse a spiegarsi la cosa, parecchi ragazzi non molto
più grandi di lui, a quanto sembrava, prendere parte ai giochi dei bambini.
C’era un giovane dai capelli scuri, grintoso e veloce, che prendeva
improvvisamente possesso della palla, ridendo e correndo piano abbastanza per
farsi rincorrere agevolmente dai piccoli che giocavano, urlando, probabilmente,
incoraggiamenti a fare di meglio; una ragazza, più in là, dai corti capelli
rossi, che posizionava un piccolo spuntino su una tovaglia appoggiata sul
prato, con una cura e pazienza che dava dell’incredibile; un’altra, forse più
giovane della prima, dai lunghi capelli castani, aiutava un gruppo di bambine a
vestire e pettinare le bambole, parlando allegramente di chissà cosa con loro,
come se si stessero consultando su ciò che poteva essere meglio per le loro figlie; un ragazzo dai capelli scuri e
dagli occhiali, invece, assisteva, con aria decisamente apprensiva e timorosa,
ai giochi pericolosi tipici di alcuni piccoli bambini, intenti a lottare con
due rami usati a mo’ di spade; infine, una giovane, forse la più piccola di
tutti i ragazzi, con i capelli scuri corti fino alle spalle circa, abbracciava
dolcemente e accarezzava i capelli a una bambina in lacrime, tentando di
consolarla, probabilmente, di qualche dispetto che aveva subito da uno dei suoi
piccoli amici.
Sembrava che tutti
avessero qualcosa da fare, e che se ne occupassero con gioia.
Takeru non riusciva
a capire. Non poteva essere una famiglia, perché erano decisamente in troppi
per essere tutti fratelli e sorelle; inoltre, non c’era traccia di una figura
paterna o di una materna: i più grandi potevano, al massimo, essere fratelli
maggiori.
Una scuola, forse?
Ma no, era
impossibile: sembrava una villa dove le famiglie agiate passano la vita, non
una sede di studi.
Aggrottò le
sopracciglia, decisamente confuso.
Poteva darsi che
fosse un orfanotrofio?
Non sapeva darsi
una risposta, mentre ascoltava il richiamo quasi materno della ragazza dai
capelli rossi a fare merenda. Quello che sapeva, però, era che voleva saperne
di più, riguardo a quella villa piena di sentimenti positivi, visibili anche
dalla finestra di un appartamento troppo grande per un solo ragazzo.
Come potevano avere
tutti uno scopo tanto preciso?
Come potevano
apparire così determinati ad accudire quei bambini?
Cosa li spingeva a
donarsi completamente a loro e ai loro giochi?
Un senso di invidia
lo colpì all’improvviso, senza che lui potesse farci nulla. Avrebbe voluto
essere altrettanto sicuro e fermo, in quello che faceva, avrebbe voluto aiutare
qualcuno come quella ragazza dall’aspetto dolce che prendeva per mano e
accompagnava verso il piccolo buffet un bambino dai capelli viola, più restio
ad unirsi alla folla.
Strinse i pugni,
prendendo una decisione improvvisa.
Afferrò il cappotto
abbandonato sul divano, infilandolo, e aprì la porta del suo appartamento,
uscendo e chiudendolo a chiave.
Mentre scendeva le
scale, troppo impaziente e ancora con gli occhi pieni di quella visione dolce
che lo aveva fatto sentire così inutile, sorrise lievemente, divertito dalla
sua pazzia momentanea.
Forse non avrebbe
risolto nulla, cercare di capire cosa stessero facendo tutti quei ragazzi in
mezzo a quei bambini. Forse sarebbe tornato a casa con un senso di nuova
sconfitta e frustrazione, ma al momento non gli interessava.
Quello che voleva,
in realtà, era solo osservare da vicino quella sorta di paradiso in terra.
Voleva solo bearsi
di un po’ di serenità, dato che la cercava da tanti, lunghissimi anni.
Ciao a tutti! Ecco il mio primo capitolo pubblicato! Si tratta, effettivamente, solo di un capitolo di presentazione, ma indispensabile per cominciare la storia! Takeru avrà un ruolo fondamentale nella vicenda, e ci tenevo a presentarlo accuratamente tramite un intero capitolo! :)
In ogni caso... Vorrei davvero ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato, che mi hanno fatto veramente sentire bene!
Un sentito grazie a Shine, come sempre pronta a recensirmi! Se penso a quanto tempo hai aspettato per tornare a recensirmi... So che hai aspettato tanto tempo prima di vederla pubblicata (sei stata la prima a leggerla, comunque :)), ma adesso è qui, e spero che continuerai ad apprezzarla! Mi fa piacere sapere che il mio prologo ti abbia convinto, pur con quella frase che non ti è chiara... Mi impegno a soddisfarti sempre e comunque, e aspetto sempre un tuo commento e parere! Grazie ancora per tutti i complimenti che mi fai, ti voglio un mondo di bene! :D
A HikariKanna un ringraziamento per aver letto, apprezzato... e per essere venuta di persona a riferirmelo! ** Che dire, sono felice che ti sia piaciuto il prologo, e mi dispiace per il mal di testa che ti ho causato! XD E neanche in questo capitolo posso darti informazioni sull'identità delle due donne (anche se, forse, un accenno a una delle due l'ho lasciato!) Beh, il tempo per scrivere l'ho trovato, malgrado il classico e i suoi impegni... e spero tanto che continuerai a seguirmi! Un bacio!
Mystery Anakin dovrebbe essere fiera di quello che fa per me, continuando a leggere le mie storie anche qui! :D Chissà, forse un giorno ti verrà curiosità e ti informerai... Veroo? ^^ Grazie per i complimenti: sono felice di averti interessata! Per l'identità della madre che abbandona suo figlio, mi dispiace dirti che non posso rivelarlo subito: se leggerai anche i prossimi aggiornamenti lo saprai, promesso! Sono curiosa di sapere un tuo parere su questo capitolo! Tvtb!
Sono felice di aver ritrovato anche Suzuna, dopo tanto tempo! Mi mancavano le tue recensioni, e sinceramente speravo anche in un tuo commento positivo... Davvero ti piace? ** Sono contenta, e spero di non deludere le tue aspettative! In ogni caso, ce la metterò tutta, promesso! :) Mi fai sapere anche su questo? Ti ringrazio tantissimo! Alla prossima!
Per Siorachan mi sento un po' in colpa: mi dispiace di aver scelto le coppie che ti piacciono di meno, se hai capito quali saranno! :( Deve essere un po' scomodo leggere, con questo presupposto... In ogni caso, mille grazie per i complimenti: sono davvero molto graditi! Se avrai ancora voglia di seguirmi, sono curiosa di conoscere anche la tua opinione riguardo questo capitolo! Un saluto!
Oltre ai ringraziamenti, sono felice che Roe abbia indovinato l'identità delle due donne del prologo! :) Che dire, sono onorata di averti incuriosita, visto che è da un po' che non leggi molto su Digimon, e proprio per questo sono felice e grata del tuo interesse! Aspetta e vedrai: per Ken ho in mente qualcosa che, immagino, non potrai capire prima del tempo... ^^ Spero che il tuo interesse rimanga acceso anche dopo questo cap, e comunque sono aperta a sentire la tua opinione! Fammi sapere, e grazie! Un abbraccio!
Ci vediamo alla prossima, appena possibile!
Padme Undomiel