Ziva chiuse gli occhi per un
istante. Un istante soltanto.
Un istante lungo quattro mesi.
Li riaprì immediatamente.
Non era ancora pronta a
rinfacciare a sé stessa il passato. Non era ancora forte abbastanza.
Ma lo sarebbe stata. Doveva solo
avere pazienza.
Allungò la mano verso la macchinetta
del caffè. Si accorse che le dita tremavano, ma non si permise di abbandonarsi
al panico. Prima o poi ce l’avrebbe fatta, pensò, a superare quella paura, quel
senso di angoscia e terrore.
Spinse la moneta nell’apposita
fessura e digitò tre numeri in rapida successione.
La bottiglia d’acqua che aveva
richiesto si mosse meccanicamente e cadde sul fondo della macchina, dove poi
lei si chinò a raccoglierla.
Tony arrivò pochi istanti dopo,
trovandola immobile, intenta a fissare l’etichetta con l’aria di chi non vede
realmente ciò che sta guardando. Dietro a quegli occhi la sua mente stava lavorando
furiosamente, e lui poteva solo immaginare cosa stesse pensando.
“Ehi” la chiamò.
Lei evidentemente non l’aveva
sentito arrivare, poiché la vide chiaramente trasalire e voltarsi verso di lui
con gli occhi colmi di terrore e panico. Non si stupì di quella reazione, ma avvertì
comunque una dolorosa morsa stringere il suo cuore alla visione di lei così
indifesa, vulnerabile. Avrebbero dovuto aspettare mesi prima che Ziva riuscisse
a non sobbalzare ad ogni minimo rumore, a non avere più incubi, a non avere più
paura persino della sua stessa ombra. Sapeva che l’irreprensibile donna che lui
conosceva era momentaneamente scomparsa. Gli mancava, ma prima che la vedesse
tornare a combattere con le unghie e con i denti, voleva darsi l’opportunità di
conoscere quella nuova ed inedita versione dell’agente David.
Perché lei non diceva alcunché,
ma lui vedeva ogni cosa. Anche ciò che agli altri sfuggiva.
“Sono solo io, ritrai gli artigli.”
Ziva lo fissava con diffidenza, nonostante
Tony le stesse sorridendo come solo lui sapeva fare, come quella volta di poche
settimane prima in cui c’erano solo loro due, in quella stanza nel deserto
della Somalia. Quella creatura, quell’angelo caduto che tremava di paura perché
le avevano rubato qualcosa che ancora non era stato pronunciato a voce; che
tremava perché la corrente la stava trascinando in un angolo sino a quel
momento ignoto della sua anima. A Tony faceva paura quella scintilla d’inesplorato
che brillava in quegli occhi ancora così vivi, così fieri. E lo affascinava. La
fissava cercando in quello sguardo la vecchia Ziva, quella che lui conosceva. Perché
non sapeva come trattare quella donna che piangeva nel cuore, quella Ziva dall’anima
ferita e gli occhi aridi. Quegli occhi che le dicevano “non lasciarmi andare”.
No, non avrebbe lasciato che la
sua anima si perdesse, prigioniera di un male che voleva affrontare insieme a
lei, combattere per lei.
“Tony...” sussurrò lei a mò di
saluto, abbassando nuovamente lo sguardo sulla bottiglia che teneva fra le
mani.
“Cosa fai qui?” le chiese. “Gibbs
ti aveva ordinato di andare a consegnare a Ducky quei reperti...”
Lei sorrise. “Ci sono stata. Mentre
tornavo qui mi ha fermata Abby. Mi ha raccontato della sua serata elegante di
ieri...”
“Del tizio che passa le giornate
nei cimiteri a fotografare le lapidi? Quello che sembrava essere esattamente il
suo tipo?”
“Non proprio. O meglio, pensava che
lo fosse, finché...” il sorriso sulle sue labbra si allargò, e alzò il viso per
guardarlo. “... finché non ha scoperto che tra una fotografia e l’altra si
dilettava anche a catturare iguane per poi ucciderle in modi piuttosto
fantasiosi e crudeli. Dice che nel ristorante dove sono andati a mangiare le
hanno proibito di tornare.”
Sorrise un’ultima volta, con
sincerità, poi lo superò e si diresse verso il bagno.
Entrò nella piccola stanza
lasciando la porta aperta dietro di sé. Si appoggiò al lavabo senza avere il
coraggio di alzare lo sguardo verso la propria immagine riflessa sulla grande
specchiera. Aprì il getto d’acqua calda ed iniziò a strofinarsi le mani con
foga, senza fare caso all’eccessivo calore.
“Se continui così finirai per
spellartele, quelle mani” disse una voce alle sue spalle.
Ziva sussultò prima di voltarsi
ad incrociare ancora una volta lo sguardo di Anthony DiNozzo.
“Dovresti piantarla di cogliermi
di sorpresa in questo modo, Tony, o una volta o l’altra potrebbe capitare un
incidente mentre ho in mano la pistola.”
Lui sorrise sardonico palesando
la propria incredulità al solo pensiero. La guardò voltarsi di nuovo e
riprendere a lavarsi le mani. Aveva gesti impetuosi, veementi. Sembrava quasi
furiosa. Con sé stessa o con lui?
Cautamente, le si avvicino, le
prese le mani e le allontanò dal getto rovente.
“Smettila, Ziva” le ordinò. “Così
finirai soltanto per farti del male.”
Per la prima volta da giorni, lei alzò uno
sguardo colmo d’ira, svuotato dell’apatia che l’aveva caratterizzato negli
ultimi mesi. Lo fissò dritto negli occhi.
“Vattene, Tony. Questi non sono
affari tuoi.”
Lui la fissò rabbioso, poi mollò
la presa.
“Va bene” le sibilò sprezzante. “se
vuoi rovinarti la vita da sola d’accordo, non sarò certo io ad impedirtelo. Ma sappi
una cosa...”
Lei rimase ferma a fissarlo,
ostinata.
“Io non so cosa ti sia successo
in questi ultimi quattro mesi. Non posso neanche immaginarlo e, onestamente,
non ne ho neanche la forza. Perché so che qualsiasi cosa riuscissi ad
immaginare, mi farebbe male. Fa male a tutti noi vederti in questo stato, Ziva,
m-”
“Quale stato, DiNozzo?”
“Oh, avanti.” Le si avvicinò
sempre di più, costringendola ad arretrare fino a doversi appoggiare al lavabo.
“Credi davvero che nessuno di noi si sia accorto dei numerosi cambiamenti nel
tuo modo di fare? Di come ti innervosisci ogni volta che qualcuno ti si
avvicina troppo? Non siamo dei menefreghisti, Ziva. Ci stai a cuore. E se non
ci avviciniamo troppo, se non ti chiediamo mai come stai, è perché ti
conosciamo. Sappiamo come sei fatta. Vogliamo lasciarti il tuo spazio. O meglio...”
Tony fece una smorfia. “... gli altri
vogliono lasciarti lo spazio necessario. Fosse per me ti rinchiuderei in
ascensore con Gibbs fina a quando almeno lui non riesca a tirarti fuori quello
che hai dentro, ma... credo che non si possa avere tutto dalla vita, no? E gli
altri presumo non sarebbero d’accordo.” Altra smorfia.
“Hai finito?” gli chiese lei,
palesemente ansiosa di andarsene da quel posto, da quello spazio troppo
stretto, da quello sguardo che la incatenava a lui e la immobilizzava in quel
preciso punto.
“No!” rispose lui, veemente. “No,
diamine, non ho finito! Sono solo all’inizio. Quel che voglio farti capire... quello
che tutti noi vogliamo che ti entri in quella testa dura che hai è che devi
utilizzare la tua esperienza a tuo favore. Rivoltarla e trovarne un senso che
ti aiuti ad andare avanti. Perché se non.... se non ce la fai, se non ci
riesci... potrebbe essere troppo tardi e troppo difficile per noi darti una
mano.”
Lei cercò di svincolarsi, ma lui
poggiò le mani sul ripiano del bagno e la imprigionò senza possibilità per lei
di liberarsi.
“No, Ziva, non ti lascerò andare finché
non avrò finito. Ho cercato di avvicinarmi a te per settimane. Ho cercato di
essere paziente, di tenerti d’occhio e guardarti da lontano, di aspettare che
fossi tu a fare la prima mossa... ma la sai una cosa? Non ce la faccio più. Non
è facile vederti così, e non riesco ad attendere un giorno di più.
Non te lo meriti, Ziva. Ma ti è
capitata questa... cosa...”
Lei si infiammò. “Questa ‘cosa’,
la chiami? Questa situazione che sto vivendo, DiNozzo, mi sta straziando.” Con la
forza della collera che la scuoteva, riuscì a scrollarselo di dosso, invertendo
le parti: ora era lui che si trovava costretto a retrocedere davanti alla forza
di lei. “Anche se vi raccontassi nei minimi particolari quello che ho passato
in quegli interminabili mesi, non arrivereste a capire cosa sia stato per me
quell’inferno. L’unica verità è che io sono sopravvissuta, da sola, e da sola
devo portare avanti questa cosa... e finirla. Quindi perdonami se non vengo da
te a implorare aiuto.”
“Smettila” rispose semplicemente
lui, per nulla intimorito da quella sfuriata. “Non lo vedi? Allontanarci tutti,
farti terra bruciata intorno... non è così che risolverai il problema.”
Alzò le braccia e con le mani
catturò i polsi di lei, obbligandola ancora una volta all’immobilità.
Lei lo fissò di rimando per
qualche istante, poi – come se non riuscisse a sopportare oltre il peso di
quello sguardo – chiuse gli occhi e chinò la testa.
“Mi... mi dispiace, Tony. È così
facile prendersela con voi...quando in realtà l’unica persona verso cui sono
arrabbiata sono io.”
Lui non rispose. Si limitò a
lasciarla andare e ad ascoltarla.
“La verità...” sussurrò “è che mi
sto perdendo. Non so più in cosa credere, cosa pensare. Ogni volta che chiudo
gli occhi vedo le loro facce... che ridono mentre mi infliggono dolore. E non
parlo solo di dolore fisico. Le loro torture psicologiche erano la cosa
peggiore. Mi hanno raccontato cose... cose che preferirei dimenticare
immediatamente. E io, in quel deserto dimenticato da tutti, non sapevo come
fare... come riconoscere le loro bugie dalla verità.”
Mentre parlava si mosse verso la
parete. Vi si appoggiò di schiena e si lasciò cadere sul pavimento, lo sguardo
vuoto. Tony non ci mise che pochi istanti a decidere di seguirla e sederle
accanto.
“La verità è che in quei quattro
mesi ho smesso di vivere. E ora non so come tornare indietro.”
Lui, senza dire una parola, le
prese la mano e la strinse, cercando di infonderle coraggio tramite quel
delicato, unico contatto fisico. Sapeva che per lei era ancora difficile
lasciare che altri la toccassero. Il fatto però che non scacciasse la sua mano,
che non deviasse il suo tocco, era motivo per lui di nuova fiducia. Fu in quell’istante
che decise che era arrivato il momento di risponderle.
“Puoi ritrovare ciò che sei nel
male che ti hanno fatto, nel dolore che ti hanno inflitto. Ziva. Non tutto è
perduto. Hai davanti una scelta orribile... so che te ne rendi conto. Ma puoi
ritrovare te stessa in quelle ferite, in quelle cicatrici. Puoi trasformare
quel dolore nel motivo per alzarti dal letto la mattina, e venire al lavoro. Devi
indossare ciò a cui sei sopravvissuta come una medaglia, con onore, perché deve
essere un vanto per te essere qui, ora. Solo quando ci sarai riuscita potrai
tentare, con altrettanto onore, di lasciarti tutto questo alle spalle. Ma devi
toccare il punto più profondo di te stessa prima di riuscire a risalire sino
alla superficie.”
Lei non parlò, non rispose. Tony si
voltò a guardarla e vide che i suoi occhi erano asciutti, ma sentì la stretta
della mano di lei farsi più forte. Lui ricambiò la stretta.
“Penso” riprese a parlare “che la
nostra intera esistenza sia caratterizzata da queste ferite, queste cicatrici
che rimangono impresse nella nostra anima senza mai scomparire del tutto. Siamo
al mondo come siamo stati creati, ma impariamo a vivere attraverso le nostre
esperienze, anche quelle più traumatiche. Non devi ricordare come vivevi, Ziva,
ma devi imparare un nuovo modo di farlo. Un modo che ti permetta di convivere
con tutto ciò che hai vissuto, con il dolore che hai qui” le sussurrò,
toccandole con la mano il punto del torace dove si trovava il cuore. “ Io... Noi
ti siamo accanto, ma è una cosa che devi imparare tu da sola. Però posso
aiutarti a rialzarti, se me lo permetterai.”
La guardò intensamente, poi
sorrise e si alzò dal pavimento.
Le porse una mano e lei,
comprendendo il significato simbolico insito in quel gesto, accettò e lasciò
che l’aiutasse a rialzarsi.
Si guardarono qualche istante
negli occhi, fissandosi l’uno con sincera gioia, l’altra con intensità. Poi finalmente
uscirono dal bagno e si diressero ad affrontare una nuova giornata di lavoro.