1.
Ripeté l'operazione da capo, con attenzione. Le orecchie
le scottavano e la cute le prudeva da impazzire per
l'imbarazzo. Mosse la penna ottica da un menù all'altro,
con cautela. Ma il risultato fu il medesimo. L'unica banca,
o istituzione più somigliante lì su La Tana, si rifiutava
di considerare valido il suo conto aperto presso GeoCredit. In
sostanza non riusciva ad accedere al suo ormai magro
gruzzolo: le carte di debito di GeoCredit non erano
riconosciute, non poteva usare i codici di bonifico, il
sistema le rifiutava perfino le richieste più semplici come
l'estratto conto. Era rimasta senza il becco d'un quattrino
in un posto dove per un debito anche piccolo si rischiava
di venire gambizzati per strada.
Si sentì scagliare indietro nel tempo, quando i motori
a spinta di fusione del suo Coyote giacevano smontati per
tutto il pontile del molo 15 di Apollo in attesa che lei
trovasse i soldi per farli rimettere insieme dalle squadre
di manutenzione. Gli sembrava che fossero passati anni da
quei momenti di nera disperazione, invece era trascorso
solo un mese e mezzo. Quarantacinque giorni per ricominciare
da capo, si disse guardando sconsolata lo schermo principale
del piccolo ponte di comando della sua corvetta, ormeggiata
in quella specie di baia dei pirati che era La Tana. Non
poteva permettersi di pagare ancora acqua per rimanere
ormeggiata: la sua recente disavventura l'aveva impossibilitata
a rifornirsi e la sua scorta di preziosa acqua si era
assottigliata al punto di far accendere l'indicazione
rossa “No Go” nella lista dei controlli pre-volo. Non era
grave: c'era solo lei a bordo. Avrebbe razionato l'acqua
per qualche giorno e l'allarme sulla riserva d'acqua sarebbe
tornato a un rassicurante “Go” in verde brillante.
Le autorità di La Tana le impedivano di lasciare gli
ormeggi e andarsene. Nonostante avesse pagato l'approdo
con l'acqua richiesta, proprio al momento di partire erano
saltate fuori delle tasse portuali non pagate. La faccenda
puzzava di truffa e ricatto e probabilmente era davvero
così. Non c'era molta differenza tra uno strozzino, un
mafioso e un poliziotto lì a La Tana: ciascuno dei tre
si comportava esattamente nello stesso modo. Il poliziotto
era quello con la divisa.
Così le avevano fatto capire che aveva tempo fino alla
scadenza dell'affitto dell'approdo per pagare. Quell'affitto,
pagato in acqua, era valido per otto ore ancora. Poi, immaginò
grattandosi la radice dei neri capelli crespi e ribelli,
sarebbe successo qualcosa di spiacevole per lei. Non le avevano
detto cosa, ovviamente. Per sicurezza pressurizzava tutte le
volte che usciva e, pur sentendosi parecchio ridicola,
indossava la sua goffa e spessa tuta bianca portandosi a
tracolla una bombola di aria con erogatore a maschera. Non
sapeva se ciò sarebbe bastato a difendersi dal vuoto qualora
le avessero staccato il cordone ombelicale che faceva da
passerella tra il Coyote e La Tana. Ma la tuta
EVA era improponibile: le avrebbe impedito di muoversi in
condizioni ambientali del tutto simili a quelle di
Apollo. Posso sempre fingere una insufficienza respiratoria,
si disse mettendosi la bombola a tracolla.
Uscì nel condotto flessibile pressurizzato e a gravità
zero. Lo attraversò tutto col cuore in gola, passando
davanti alla solita toppa che sibilava leggermente
lasciandosi sfuggire preziosa atmosfera dal primo giorno
che si era ormeggiata lì. Raggiunse la prima piattaforma
e si lasciò catturare gradualmente dalla gravità
artificiale. Passò attraverso i diaframmi di plastica
sporca e consumata che tanto avevano divertito Morgan
per la loro somiglianza con una vagina e finalmente fu
di nuovo sulla lunga banchina di La Tana. Ignorò
il difettoso ologramma della poliziotta che appariva ogni
volta che lei usciva dal tubo ombelicale e che la
minacciava ogni volta con le stesse parole. Si incamminò
verso l'uscita del pontile, sotto le incomplete strutture
a livelli sovrapposti che si affacciavano nel vuoto
dello spazio.
Era scesa dal Coyote ma non sapeva esattamente per
quale motivo. Non aveva più soldi, solo pochi
spiccioli. Non poteva comprare da mangiare, ma quello non
era un problema: la cambusa della sua nave era
strapiena. Senza denaro non poteva fare molte cose, su
quell'insolito approdo spaziale che aveva imparato ad
apprezzare nonostante tutto. Fino a quando aveva avuto
del contante in tasca. Ora le sembrava molto meno
apprezzabile.
Percorse corridoi e passerelle, strade grandi e affollate
di gente che gironzolava sfaccendata tra gli improvvisati
negozi e le bancarelle fino a quando non raggiunse quella
che le avevano indicato come la sede dell'unica banca di
La Tana, così sicura della sua clientela che non
aveva bisogno di farsi pubblicità né di mettere chiare
indicazioni per essere raggiunta. La sede stessa era a
stento riconoscibile come quella di una banca: uno stretto
ingresso senza insegna, aperto, dava su pochi scalini
ripidi che cadevano dentro un lungo ambiente poco
illuminato e dall'odore preoccupante. Sulla parete di
sinistra, imbrattata da graffiti fatti con vernice a
spruzzo, poche sedie diverse e malconce lasciate lì
disordinatamente. Anche queste erano state fatte bersaglio
dei graffiti e mostravano sulla seduta e sulla spalliera
i tag, la firma degli autori. La medesima parete era
interrotta da alcune finestre poste così in alto da essere
irraggiungibili e che davano sulla strada al livello
del pavimento, protette da una pesante griglia metallica
contro cui si accumulavano sporcizia e rifiuti. Attraverso
quelle finestre strette e lunghe, dai pannelli di
crilex resi gialli dalla prolungata assenza di
manutenzione, poteva vedere le gambe della gente
sforbiciare incessantemente.
Dalla parte opposta invece una spessa e robusta griglia
metallica formava una gabbia di un paio di metri di lato
intorno all'unica porta che si apriva nella lunga parete
imbrattata. La gabbia partiva dal pavimento e arrivava
fino al soffitto, ininterrotta a eccezione di un'apertura
cui si poteva accedere solo dall'interno. Sotto l'apertura
a feritoia era stato spinto un tavolo da ufficio senza
uno dei quattro piedi d'appoggio, sostituito da un
barattolo di plastica che aveva avuto la ventura di essere
alto tanto quanto il pezzo perduto. Il tavolo, sporco e
vecchio, era curiosamente sgombro. Dietro quello una
logora sedia imbottita. Dietro di essa la porta,
aperta. Un rettangolo buio al di là del quale non si
riusciva a distinguere nulla. Non c'era nessuno in vista,
né nulla che lasciasse intuire che quella, pur priva di
un nome e di una insegna, fosse una banca.
Certo, si disse lei, i clienti sono del tutto
particolari. Normale che lo sia anche la banca. Non aveva
mai visto tante facce poco raccomandabili in una volta
e quello che era successo a lei e a Morgan ne era stata
la migliore dimostrazione. Ultimamente aveva passato
molto del loro tempo a fuggire da chi voleva a tutti
i costi appendere la sua pelle a una parete.
Deglutì a forza e si costrinse a parlare.
- C'è nessuno? - ma la voce le si spezzò in gola quasi
subito e le uscì un semplice bisbiglio.
Si fece coraggio e si avvicinò alla gabbia, cercando
di convincersi che i suoi timori erano del tutto
infondati. Si pentì d'aver passato tanto tempo a
leggere la sanguinosa cronaca nera di La Tana
sul terminale di servizio della sua nave. La feritoia
era chiusa, ma dato che la porta era spalancata era
logico supporre che la banca, o qualsiasi cosa fosse
quel luogo in cui era capitata, fosse aperta. Quindi
ripeté di nuovo le medesime parole, questa volta
cercando di mantenere la voce ferma.
- C'è nessuno?
Meglio, si disse ascoltando la propria voce e
fingendo di non aver sentito la sottile crepa
che l'aveva incrinata.
Balzò all'indietro, spaventata a morte. Non riuscì
nemmeno a gridare. Un viso era apparso all'improvviso
all'interno del buio specchio della porta. Era saltato
fuori da dietro lo spigolo dello stipite. Un viso
inquietante, con un sorriso nero che sembrava andare
da un orecchio all'altro. Con uno scatto l'uomo
apparve a figura intera, incorniciato dalla porta,
il ritratto di un folle su fondo nero.
Aveva i capelli unti e scarmigliati come se avesse
dormito fino a un secondo prima sonni agitati. Indossava
un completo elegante, giacca e pantaloni grigi, una
cravatta scura allentata che sembrava stare intorno al
collo per una coincidenza, una camicia bianca abbottonata
male e col colletto stropicciato. Non calzava scarpe. Alto
e magro, l'uomo si muoveva tanto dinoccolato da
sembrare quasi l'effetto speciale di qualche
olofilm. Non le toglieva gli occhi di dosso, lucidi
di chissà che febbre o droga, e lei ebbe l'irragionevole
timore che quell'essere fosse in grado di passare
attraverso la stretta feritoia e raggiungerla. Le
sorrise in un modo così orribile, stendendo le
labbra dipinte di scuro così tanto che lei temette
gli si stesse per dividere la faccia in due. La
pelle rugosa di quel viso senza età pareva pronta
a qualsiasi acrobazia.
- Saaalve! - disse esagerando il tono allegro e
cordiale fino a farlo sembrare minaccioso. La sua
voce era stridula, una parodia della voce umana.
- In cosa posso servirla signorina?
Si chinò in avanti appoggiandosi al tavolo zoppo
con entrambe le mani. Lei indietreggiò ancora:
quella caricatura di uomo emanava un puzzo di
sudore insopportabile.
Estrasse la sua carta di credito che la GeoCredit
le aveva dato a speciali condizioni visto che versava
regolarmente discrete somme sul suo conto corrente:
i proventi delle sirene telasiane. C'era moltissima
gente che andava a vedere e a sentire cantare quelle
creature aliene e lei aveva una piccola percentuale
sugli incassi.
- Questa è una carta di credito valida... - iniziò
lei. Non era più certa di quello che stava per fare.
- Sssììì? - rispose quello trascinando quella
sillaba in salita lungo tutta un'ottava con
la sua voce acuta.
- ...della GeoCredit di Apollo e funziona
perfettamente – mentì lei cercando di darsi
importanza. Non l'aveva mai usata.
- Sssììì? - disse quello senza mutare la sua
espressione da folle, le labbra nere stirate in
un ghigno triangolare che sembrava un tentativo
di mostrare tutti i denti insieme più che un sorriso.
- Ma non riesco a caricare nessuna scheda al portatore,
né a prelevarne di nuove.
- Nooo? - inclinò la testa di scatto di lato ma
non aggiunse altro. Un pazzo, pensò. Sono finita
a parlare con un pazzo fulminato. Senza sapere
perché insistette e formulò la sua richiesta.
- Potrebbe anticiparmi del contante usando questa
carta di credito come garanzia?
- Nooo! - scattò all'indietro raddrizzandosi di
colpo e cominciò a ridere in modo sguaiato e folle,
agitando le braccia come se accogliesse gli applausi
di un pubblico inesistente. Quando cominciò a
dimenarsi troppo lei si decise ad andarsene. Non
avrebbe ottenuto nulla da quel tizio: doveva essersi
bevuto il cervello già da tempo.
Si voltò verso l'uscita, decisa a salire quei ripidi
gradini e a uscire da quel posto buio per tornare
nella relativa normalità di La Tana. Trasalì
una seconda volta e si bloccò lì dove si
trovava. Qualcosa si frapponeva tra lei e la porta e
per un soffio non era andata a sbatterci contro
in pieno.
Un secondo per mettere a fuoco, per realizzare di
cosa si trattava. La prima cosa che la colpì fu
l'altezza. La ragazzina la sovrastava e, a giudicare
dal fisico esile, doveva essere una spaziale. Poi
si sentì trapassare da due occhi di un azzurro
innaturale, chiari e freddi come il ghiaccio. Non
c'era abbastanza luce per capire se si trattava di
un doppio impianto o no. Ne aveva visti di carini
di quel colore, ma in quel viso leggermente
olivastro, giovane e un po' affilato diventavano
inquietanti.
- Michaela Patris?
Quella voce gentile e morbida stonava un bel po'
col resto: la ragazzina aveva una borchia ossea,
una punta conica di almeno un centimetro che le
sporgeva dalla fronte sopra il sopracciglio sinistro,
più vicina all'attaccatura dei dread viola che
le scendevano lunghi e curati dal cranio. Sopra
una leggera maglietta nera indossava una giacca
di finta pelle anch'essa nera e sopra di essa
una casacca militare verde oliva con le maniche
tagliate. Sotto l'ombelico scoperto cominciavano
un paio di pantaloncini neri aderenti, in grado
di celare appena l'elastico delle mutande,
visibile in rilievo. Calze a rete gialle rotte
in più punti e stivali anfibi tinti maldestramente
di rosso e con la punta rinforzata da metallo
nudo e graffiato ne completavano la figura. Un'altra
pazza, pensò. Ma stavolta non c'era nessuna
gabbia in mezzo.
- Non so chi sia – le rispose aggirandola ostentando
decisione. Si aspettava che quella si muovesse per
sbarrarle il passo, che l'aggredisse. Ma non accadde
nulla. Lei, pronta a scattare confidando nella sua
maggiore robustezza e forza fisica, si diresse
verso le scale, verso l'uscita.
- Chissà perché ti immaginavo più magra, Miki.
Strinse i denti. Se voleva farla incazzare era
sulla strada giusta. Quella tuta imbottita non
giovava affatto alla sua figura, tutt'altro che
snella. Lo sapeva bene e odiava infilarcisi dentro. Si
era osservata brevemente prima di lasciare il
Coyote: vestita così sembrava avesse i
fianchi larghi come una portaerei e un culo
grande come una piattaforma d'attracco.
Fu tentata di mandarla bruscamente al diavolo,
ma si trattenne. Salendo i gradini si spaventò
al pensiero che poteva esserci in agguato un
complice o magari tutta una banda. Avrebbero osato
aggredirla in mezzo alla gente? Temeva di sì. Ma
uscì senza incidenti, con la sconosciuta che la
tallonava da vicino. Le gettò uno sguardo
rapidamente. Camminava con le mani in tasca e
i segni scuri intorno agli occhi non erano le
ombre dovute alla scarsa illuminazione del tetro
locale appena abbandonato. La ragazzina si
divertiva a truccarsi di scuro: occhi e labbra
erano carichi di cosmetici cupi. Il rossetto,
applicato con negligenza, aveva bisogno di una
ripassata. Si consolò constatando che sotto
la luce un po' più intensa di quel livello di
La Tana il viso della ragazza, armato
di quegli occhi azzurri taglienti, sembrava
ancor più giovane e molto meno aggressivo.
- Dove andiamo di bello?
Miki si fermò e si voltò verso la ragazza,
alzando lo sguardo per raggiungere gli occhi. Spinse
dietro la schiena la bombola dell'aria che
le stava dando veramente noia. La mascherina
trasparente cadeva in continuazione e
quindi l'aveva legata intorno alla valvola
della bombola usando il piccolo tubo flessibile
che le univa. Con quel gesto brusco cercò di
arginare l'ira: era possibile che quella
spilungona fosse una provocatrice e non
intendeva cadere nel suo tranello.
- Dove vado io a te non interessa – e le fece un
inequivocabile gesto con la mano, per invitarla
a procedere per la sua strada. Lontano da lei,
ovviamente. Non aspettò la risposta: le diede
le spalle e scelta una direzione a caso, si
incamminò a passo spedito.
- Non credo che ti convenga andare troppo a
spasso, Miki – la sentì dire con supponenza
alle sue spalle – hai sei ore e cinquantadue
minuti per trovare milleduecento crediti. Soldi
che non hai.
Miki si piantò su due piedi lì dove si trovava
e si voltò verso la ragazza. Si sentiva avvampare
in viso, ma non era collera. Era paura. Forse
che quella sciacquetta dai capelli viola e la
faccia da schiaffi era stata mandata dai
mafiosi che le stavano chiedendo il pizzo
giù al porto? Poteva essere. Era chiaro che
si sarebbero fatti vivi di persona, prima o
poi. Sentì le ginocchia diventare molli:
forse la ragazzina era armata. Aveva ancora
le mani nelle tasche della casacca militare,
grandi abbastanza da occultare una piccola
pistola automatica. Aveva visto spesso
negli olofilm come fosse possibile tagliare
la fodera di una tasca per renderla
comunicante con un'altra sottostante. La
prima sembrava vuota, ma infilandoci dentro
una mano si poteva accedere al contenuto
dell'altra. Nel caso degli olofilm una
piccola pistola automatica, appunto. La
tipa, che la stava guardando sorridendo
all'effetto avuto dalle sue parole su di
lei, indossava due giacche una sopra
l'altra. Miki concluse che doveva essere
armata davvero.
Che fare? Resistere? Fuggire? Stare al gioco
fino alla fine della recita? Non sarebbe
stato sensato ucciderla, non avrebbero avuto
i soldi. Ma il pensiero che si trattasse
solo di intimidazione non la rincuorò
affatto. Ci stavano riuscendo bene.
- E tu che ne sai? - un istante dopo aver
pronunciato quelle parole Miki si rese conto
che esse consegnavano la vittoria tra le
mani della sconosciuta. La guardò mentre la
raggiungeva, camminando con le mani in tasca:
la gente che transitava intorno a loro non la
degnava di uno sguardo mentre invece si
soffermavano sulla sua tuta bianca immacolata
e probabilmente anche sulla bombola d'aria
con la mascherina che penzolava.
- Abbastanza da poterti aiutare.
La squadrò bene in viso. Ecco qualcosa che
non si aspettava. Pensò immediatamente a una
truffa un poco più elaborata: impossibile dire
se fosse sincera oppure no.
- Ma fammi il piacere... - Miki fece per allontanarsi.
- Dico sul serio – le rispose quell'altra,
quasi lamentandosi.
- Sì, come no.
- Davvero! - esclamò raggiungendola con due
falcate. Gli anfibi slacciati facevano rumore
sul pavimento eterogeneo di quel tratto di
strada. Sentendosi per la prima volta in
vantaggio, Miki osò partire al contrattacco. Di
nuovo si fermò e affrontò la giovane cercando
di sembrare più risoluta che poteva.
- Senti, non so chi tu sia, perché ce l'hai
con me, come mi hai spiata... ma se sai così
tante cose su di me, sai anche che non ho un
soldo. Quindi è perfettamente inutile che mi
stai addosso. Non posso darti nulla. Nulla di
nulla!
- Hey, ma sei sempre così acida o è qualcosa
che hai mangiato? Ho detto che ti aiuto, ti
fa così schifo?
- A un prezzo?
- Diciamo che è uno scambio – disse quella
togliendo le mani di tasca per la prima
volta. Miki notò immediatamente le unghie
verniciate di nero, lunghe e molto affusolate.
- Ah, ecco... - la interruppe.
- Io faccio un favore a te, tu ne fai uno a me.
- Qualcosa di illegale, suppongo.
- La legalità è un'opinione – ribatté la
giovane sorridendo – ma ti assicuro che
stavolta non pretendo nulla di particolare,
davvero.
- Stavolta?
La giovane si morse le labbra volgendo
intorno i suoi occhi chiarissimi. Aveva
sbagliato una mossa, era evidente.
- Non è la prima volta che mi vengo a trovare
in questa situazione... normalmente non fermo
la gente per strada offrendo il mio aiuto –
disse gesticolando con le mani.
- No, eh? - la incalzò Miki.
- Diciamo che siamo tutte e due nella
merda, per motivi diversi ma... come
dire... simili?
- Vai avanti...
La ragazza bilanciò meglio il proprio peso
sulle gambe allargando i piedi chiusi negli
anfibi rossi senza stringhe, come se si
stesse mettendo comoda per fare un discorso
lungo.
- Ecco, tu sei nei guai: sei senza
soldi. Anche io sono senza soldi. Tu
devi soltanto pagare e sei a posto. Io...
ehm... io no. Tu hai un'astronave e a me
farebbe molto comodo, ora.
- Ah, ecco. Beh, sì... tutto perfetto. A
parte il fatto che messe insieme non abbiamo
altro che spiccioli in tasca, giusto? -
obiettò Miki – Il Coyote non è in
vendita, carina – aggiunse seccamente,
voltandosi per andarsene.
- Aspetta, non hai capito! - la rincorse quella.
- Ah, no? Io direi di sì – Miki aumentò
l'andatura sperando che quella importuna
ragazzina si stancasse di correrle dietro. Ora
che sapeva di non essere più in pericolo
immediato e che quella era una sbandata come
tanti altri lì a La Tana, non c'era
più motivo di starla a sentire.
- No invece! E fermati, cazzo! Vuoi fermarti
un momento? Ti sto parlando!
- Io no!
- Uffa! Sei stizzosa come... come una contadina
di Mu2 in astinenza! Se non ti diverti non è
colpa mia, che cazzo!
Miki fece ancora un passo, incerta se ignorare
la ragazzina oppure no. Ma doveva esserci del
testosterone maschile da qualche parte nel suo
sangue. Sentì che non poteva lasciarsi parlare
così da una mocciosa che non aveva ancora finito
di succhiare il latte dalle tette della mamma. Si
fermò e l'affrontò per l'ennesima volta. Con le
mani sui fianchi la squadrò per un lungo istante
e poi sbottò.
- O.K., stronzetta: prima cresci un po' e poi
vieni a parlarmi di uomini. E adesso vattene fuori
dai coglioni!
- Ma certo! E quando verranno a toglierti la
pelle perché non paghi io starò lì a guardare! -
berciò l'altra con un ghigno cattivo mentre
incrociava le braccia. Miki sbuffò rumorosamente,
ma non ribatté.