Videogiochi > Final Fantasy VII
Segui la storia  |       
Autore: BaschVR    05/10/2009    1 recensioni
La città, quella mattina, appariva vuota, silente, libera. Aveva nevicato per tutta la notte, e il bianco aveva ricoperto ogni cosa. Il pallido sole invernale era sorto, eppure Midgar era rimasta dormiente. Tutto appariva ovattato in quell’onirica visione, quasi irreale. L’unico rumore che Tseng sentiva era il tonfo dei suoi passi sulla neve. Era un rumore leggero, quasi impercettibile, eppure era l’unico che probabilmente la città stesse udendo. Un rumore ritmico e costante.
Dedicata a tutti coloro che amano questo pairing e, naturalmente, alla nostra inimitabile Zia Polly.
2^ classificata allo Tserith Contest indetto da Valy_Chan
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Altro Personaggio, Reno, Tseng
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo IV

 
Aerith Gainsborough chiuse la porta della chiesa alle sue spalle. Sfiorò per un momento il legno, avvertendone la superficie ruvida, poi lasciò la maniglia in ottone e volse lo sguardo verso l’appena sveglia Midgar dei bassifondi. Il sole non era ancora alto nel cielo; l’aria era fresca, come quella della notte appena trascorsa. Inspirò profondamente, cominciando a camminare senza però avere una meta precisa: non aveva programmi per quella giornata che si preannunciava già soleggiata ed afosa come le altre, non finché Tseng non sarebbe nuovamente venuto a visitarla, nella sua chiesa.
Sapeva che sarebbero passate parecchie ore. Il ragazzo se n’era andato appena pochi minuti prima e, se aveva un lavoro da fare per conto dei Turk, non sarebbe tornato prima di mezzogiorno, per essere sicuro che tutto fosse andato liscio. Di conseguenza Aerith, dato che in quella stagione non poteva più far  nulla per accudire i fiori, aveva deciso di uscire per un po’, e di respirare l’aria fresca del primo mattino.
Non  c’era ancora molta gente, in giro: incontrò prevalentemente uomini, contadini che si dirigevano ai margini di Midgar con grandi cesti di vimini per il raccolto. Le matrone con in braccio i figli sarebbero venute più tardi, quando il sole avrebbe raggiunto lo zenit, affollando le vie contigue al mercato. 
Camminò per qualche minuto, affondando i piedi nel terriccio che ricopriva le strade e i vicoli; ad ogni passo produceva un lieve tonfo, sollevando una piccola nube di terra che si perdeva nell’azzurro limpido del cielo all’orizzonte.
Giunse infine al vecchio parco giochi del Settore 5, solitamente teatro delle gesta di numerosi bambini ma a quell’ora così quieto, deserto, quasi innaturale. Il vento faceva cigolare le altalene arrugginite, ora piano, ora forte; Aerith vi si avvicinò, ne bloccò una con il palmo della mano e vi si sedette sopra, appoggiando la testa su una delle due catene. Al tatto, il metallo che serviva a mantenere in equilibrio l’altalena era gelido, come indifferente all’afa del mese di Luglio.
La ragazza pensò a lungo, mentre era con il capo poggiato sulla fredda catena; era così assorta nelle sue riflessioni che non si accorse di quando un paio di bambini entrarono oltrepassando i cancelli in ferro del parco giochi, né di come il sole, in poco tempo, si fece alto nel cielo, illuminando perpendicolarmente tutta la città che viveva sopra il piatto. Si limitava a pensare, con lo sguardo perso nel vuoto: pensava alla precedente notte, quella notte in cui qualcosa di nuovo era cominciato, qualcosa di vivo, e guizzante, che si era inserito nel suo rapporto con Tseng. Lo sentiva vicino, vicino a lei come non lo era mai stato; era da quella sera di ormai parecchie settimane prima che il loro rapporto progrediva, a volte lentamente, altre volte a grandi passi, come ad esempio nella notte scorsa. Ogni giorno sentiva sempre qualcosa di nuovo, che cresceva, dentro di lei, e che quella notte, per la prima volta, aveva sentito come parte di sé, come qualcosa da proteggere e che richiedesse costantemente cure e attenzioni. Era amore? Probabilmente si. Non ne era però così sicura, era una sensazione che non aveva mai provato prima.
Il rumore di una risata, particolarmente fragorosa, arrivò alle sue orecchie; si riscosse dal torpore nel quale era caduta e vide un gruppo di bambini che ridevano, giocando a pochi metri da lei. Sorrise, non riuscendo più a trovare il filo conduttore che fino ad allora l’aveva guidata per i suoi pensieri, e si alzò dall’altalena, con un altro cigolio. Oltrepassò il cancello del parco giochi e si incamminò nuovamente per la via principale, verso il mercato, a quell’ora parecchio affollato. Molta più gente, adesso, passeggiava per le vie, come lei; ai contadini e i braccianti agricoli si erano sostituite donne di tutte le età, che sbrigavano commissioni o altro e che erano seguite da bambini, più o meno trasandati e dall’aria annoiata. Tenne gli occhi bene aperti, adesso, per evitare di pestare i piedi a qualche donna o di urtare qualche bambino distratto.
In quel  bailamme di gente, parole, opinioni, di migliaia di passi che si susseguivano ininterrottamente, un uomo, poco più che un ragazzo, attirò la sua attenzione. Era molto giovane, ma non quanto lei; potevano avere due, al massimo tre anni di differenza.
La prima cosa che notò, guardando i suoi occhi limpidi e glaucopidi, fu che aveva lo sguardo di un bambino, innocente ma con una sorta di guizzo dispettoso che s’intravedeva velatamente nei suoi occhi. Aveva capelli rossi che sfumavano nel cremisi, disordinati davanti e raccolti in una coda che scendeva fin in mezzo alle scapole.
Lo osservò attentamente: era a pochi metri di distanza da lei, e sembrava interessato a qualcosa che un venditore ambulante aveva esposto su un tavolo; osservava con attenzione, diceva qualcosa, e poi tornava a guardare la mercanzia, ridendo sotto i baffi. L’uomo aldilà del bancone lo osservava come se fosse del tutto fuori di testa.
Inizialmente, non seppe dire perché quel bambino troppo cresciuto avesse attratto così tanto la sua attenzione; tutto ciò che sapeva di quel tipo, in fondo, e che non sembrava essere dei bassifondi, data la sua allegria e la sua apparente giovalità.
Lo osservò più da vicino; ora che ci pensava, in effetti, gli sembrava di aver già visto quel giovane, di riconoscere i suoi lineamenti, di aver già sentito la sua voce da qualche parte, prima di quel giorno. Vide il suo abbigliamento: giacca, cravatta, un distintivo ed una fondina attaccata alla cintura. Roteò gli occhi: avrebbe dovuto immaginarselo.
Quell’uomo era un Turk.
Tuttavia, non le sembrava che fosse mai venuto a farle da guardia nella chiesa, e in altri modi non avrebbe potuto conoscerlo. Non incontrava mica Turk tutti i giorni. Si avvicinò ancora alla bancarella. Adesso riusciva a sentire anche le parole e il tono di voce allegro del ragazzo.
“Mmm… mi dica, a cosa serve questo?” chiese il Turk, adocchiando un contenitore dalla forma bizzarra.
“Ci puoi conservare la carne di Chocobo in sottaceto” sbuffò il venditore, sperando che quel giovane se ne tornasse da qualunque luogo fosse venuto.
“E basta?” esclamò deluso l’altro. “Non potrei utilizzarlo, ad esempio, per conservare sottaceto il fegato delle mie vittime? Sa, io sono un assassino, agisco di notte, incuto terrore!”
“Puoi utilizzarlo anche come tagliacarte, se ci riesci!” sbottò l’uomo sospirando.
“E questo cos’è?”
“Uno schiaccianoci”
“E come funziona?” chiese il ragazzo dai capelli cremisi, affascinato.
“Prendi le noci, le metti qui sotto e poi le schiacci!” rispose il negoziante, esasperato.
“Interessante, ma perché vorrei voler schiacciare delle noci?”
“Non devo mica saperlo io, se hai voglia di noci puoi schiacciarne quante ne vuoi!” rispose l’altro, spazientito.
Il giovane lo fissò, sbigottito. “Ma io non ho mai detto di avere voglia di noci!”
“Allora schiaccia le pietre!” urlò quello gettandogli lo schiaccianoci tra le mani. “Vedi? Te lo regalo, facci quello che ti piace, basta che te ne vai!”
“Eh, ma che modi!” esclamò il ragazzo, allontanandosi e scoccando un’occhiataccia all’uomo.
Aerith aveva assistito divertita al siparietto, con un timido sorriso che le increspava le labbra. Quando il ragazzo la notò, diresse su di lei il suo sguardo da ragazzino indomabile e si avvicinò.
Quando i due sguardi si incontrarono, Aerith, d’un tratto, si ricordò dove aveva incontrato quel ragazzino: i ricordi che la legavano a quel volto sorridente erano intrisi di sangue, e mettevano le loro radici in una giornata d’Inverno di parecchi anni fa, quando aveva perso sua madre nell’oscurità di quel vicolo, tra le sue lacrime ed i vapori delle caldaie, tra quell’assassino senza volto che odiava e quel ragazzo, allora più giovane, che aveva cercato di fermarlo.
“Salve!” esclamò il ragazzo non appena fu a qualche metro da lei.
Aerith non rispose al saluto. Le era venuto un cerchio alla testa, come se avesse l’influenza, si sentiva debole, non riusciva a ragionare con lucidità…
“Si sente bene?” chiese il ragazzo, guardandola preoccupato. “Non ha mica una bella cera!”
Non  rispose. Le girava la testa…
“Venga, si sieda un momento!” esclamò quello, prendendola per un braccio e cercando di accompagnarla verso una panchina lì vicino.
“N-no, grazie” sussurrò lei, con una voce tremante che non riconobbe come sua. “Mi lasci andare…” cercò di sottrarsi alla presa del ragazzo.
“Ma non sembra stare molto bene! Se solo mi lasciasse chiamare un…”
“Ho detto di no!” rispose lei, forse un po’ più forte di quanto avrebbe voluto. Un paio di curiosi si voltarono verso di loro, prima di ritornare alle loro occupazioni abituali.
Il ragazzo sembrava mortificato. “Mi scusi… volevo solo aiutare…” bofonchiò, a testa bassa. Quando rialzò il capo, incontrò nuovamente il volto della donna, ed i suoi luminosi occhi verdi, in quel momento così spaventati e pieni di incertezza… li aveva già visti?
“Ci conosciamo?” chiese, con un po’ d’incertezza nella voce, scrutandola inclinando la testa, come fanno i bambini quando osservano qualcosa di strano con attenzione.
Aerith abbassò gli occhi, biascicando qualcosa sul fatto che non si conoscessero e che doveva andare subito. “Mi dispiace di averla fatta preoccupare” aggiunse, prima di voltarsi e scappare via.
Il ragazzo la osservò allontanarsi. Ne era sicuro, conosceva già quello sguardo spaventato nei suoi occhi.
Poi un nome risuonò nella sua mente, ma era un’idea così assurda e così improbabile che la accantonò subito. Eppure… quel nome, così improbabile ma al tempo stesso così ovvio, gli risuonò di nuovo in mente, così spontaneo che non si accorse nemmeno di averlo lasciato sfuggire tra le labbra…
“Aerith Gainsborough”.
La ragazza si voltò, con il terrore misto a rabbia negli occhi. Sembrava sul punto di piangere.
“Tu sei Aerith Gainsborough!” ripeté il ragazzo, con stupore.
Lentamente, lei annuì, stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche.
“Mi chiamo Reno. Sai… sai chi sono io?” chiese il Turk, serio.
Aerith annuì di nuovo, mentre una prima lacrima solcava il suo volto.
“Sediamoci qui” disse lui, indicando la panchina che le aveva già precedentemente consigliato.
Questa volta, Aerith non oppose nessuna resistenza. Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e attese che Reno parlasse, i pugni ancora serrati.
“C-come stai?” chiese Reno, incerto su che cosa dirle, con lo sguardo chino.
“Non mi lamento” rispose lei, con un tono di gelo nella voce.
“Si… mi fa piacere… davvero…”
Entrambi rimasero in silenzio, chi per rabbia e chi per imbarazzo. Passò qualche minuto nel quale nessuno dei due parlò, poi Reno si fece coraggio.
“Tua madre era una gran donna” disse, attirando su di sé lo sguardo sia furente che attonito di Aerith. “Quando è successo… ho letto il dossier che abbiamo alla ShinRa su di lei. Era una brava persona, sempre pronta ad aiutare il prossimo, e…”
“Tu  non sai niente di mia madre!” lo interruppe la ragazza, furente.
“Vero” ammise Reno. “Non so niente di davvero importante su di lei. Non conosco i sentimenti che provava, né le sue emozioni, né le sue speranze, ma so che era una brava donna, che ti ha preso con sé e che ti amava più di ogni altra cosa al mondo! Non credi?”
Aerith abbassò nuovamente lo sguardo, e, quando rispose, il suo tono di voce era calmo e controllato, velato dalla tristezza e dalla malinconia. “Si. Lei… lei era davvero eccezionale…”
Reno cercò per un momento le parole più adatte per introdurre un discorso delicato come quello. Alla fine sospirò e si preparò ad affrontare una tra le conversazioni più impegnative della sua vita.
“Sai cosa stavamo facendo, io e il mio partner per le missioni di quel tempo?” disse, guardando in basso per non incrociare il suo sguardo. “Davamo la caccia ad un malvivente che spacciava materie illegali nei piani alti di Midgar, con gente potente… era un pericolo per la comunità, ed allora ci avevano dato l’ordine di fermarlo. Di ucciderlo, anzi.” Si interruppe un momento, guardando Aerith che era rimasta impassibile.
“Lo trovammo ed iniziò un inseguimento, che si concluse in quel vicolo dove vi trovavate anche voi… avremmo soltanto dovuto ucciderlo, e sarebbe finita lì. Ma il nostro nemico non era così stupido come pensavamo… prese tua madre in ostaggio, e quando il mio partner, per cercare di fermarlo, sparò a vista…” non concluse la frase, sapendo benissimo quante volte Aerith, dentro di sé, aveva rivissuto quella scena.
E così, si disse la ragazza, quella era stata la dinamica dei fatti che il destino aveva messo in moto quando lo spacciatore di materie aveva cominciato il suo sporco lavoro. Era già stato tutto previsto quando quel delinquente aveva venduto per la prima volta una materia e la sua anima? Non era stato possibile far nulla perché il partner dell’uomo che adesso le stava accanto centrasse l’obiettivo o non sparasse affatto? Che sarebbe successo se un solo evento di quella catena fosse stato diverso? Sua madre sarebbe stata ancora viva, insieme a lei, e avrebbe abitato in quella casa che, senza la sua presenza, era così vuota da far quasi male?
“Ti senti bene?” chiese per la seconda volta il Turk, comprensivo.
“Si...” rispose Aerith, senza pensarci troppo, perché era la verità. Poi una domanda le attraversò la mente. “Che ne è stato del tuo partner?” chiese, osservandolo.
Reno sospirò. “Venne allontanato dai Turk in quello stesso giorno, poche ore più tardi. Per aver messo in pericolo la vita di un’Antica, sai” e la squadrò da capo a piedi. “Di lui non so più nulla da quel giorno. Alcuni miei amici dicono di averlo visto di sfuggita qui, nei bassifondi…” si guardò un attimo intorno, nella speranza di intravederlo tra la folla. “Io, comunque, non ne ho più saputo nulla”.
Calò nuovamente il silenzio tra i due, coperto dal brusio della folla che passava di lì. Entrambi erano immersi nei propri pensieri.
“Grazie” sussurrò poi Aerith, guardando fisso davanti a sé.
“Per cosa?” chiese il Turk, guardandola inclinando il capo.
“Per avermi detto la verità” rispose Aerith, spostando lo sguardo verso di lui.
Reno abbozzò un sorriso paterno. Le sue mani si strinsero sullo schiaccianoci che quel negoziante, poco prima, gli aveva dato, e, improvvisamente, ebbe un’idea.
“Tieni!” disse, porgendoglielo con un sorriso.
“Uno schiaccianoci?” chiese Aerith, inarcando un sopracciglio.
“Si!” esclamò Reno, come se il suo fosse stato il gesto più ovvio al mondo.
“Scusami, ma non riesco a capire!” esclamò Aerith, poco convinta.
“Beh, non ci riesci perché non c’è nulla da capire!” rispose Reno, facendole l’occhiolino.
La ragazza lo guardò, per un momento, come se fosse un fenomeno da baraccone. Poi, lentamente, le sue labbra si incresparono in un lieve sorriso, che si allargò sempre di più.
“Vedi, ci sono riuscito!” urlò Reno, ridendo.
Aerith dovette ammettere che Reno, con quel gesto apparentemente senza senso, era riuscito a spazzare tutta la malinconia e la rabbia che aveva provato vedendoselo davanti. D’altra parte, Reno non aveva nessuna colpa, se non quella di risvegliare in lei ricordi dolorosi. Ma anche in questo caso, non era davvero lui il responsabile, ma lei stessa.
“Sono contento di averti fatto ridere” disse Reno, in tono mite.
Ed a quel punto successe l’irreparabile. Il destino aveva attuato la sua trappola, tessendo una tela che li comprendeva entrambi: e l’aveva elaborata per giungere, finalmente, all’agognata verità. Non ci fu nulla che poté impedire a Reno di continuare quella frase e di decretare la fine di un’illusione durata fin troppo tempo. Mentre il sole cominciava il suo declino verso le ore pomeridiane, Reno aprì nuovamente la bocca, e pronunciò la prima frase di un discorso che non avrebbe mai terminato.
“Sai” disse. “Sono sicuro che anche Tseng avrebbe…”
A quel nome, istintivamente, Aerith si voltò verso di lui, guardandolo con attenzione.
“Tseng?”
“Si” rispose Reno, guardandola sospettoso. “Era il nome del mio partner di quel giorno”.
Fu come se avessero disattivato l’audio improvvisamente. Aerith non fece più caso alla folla, al sole che riscaldava quella giornata, al freddo della panchina metallica su cui s’erano seduti. Non ebbe più consapevolezza di cosa stesse accadendo attorno a lei, ma non le importava. Nella sua mente, ancora la stessa scena di quella mattina d’Inverno di 4 anni prima: ma stavolta, l’assassino aveva un volto, una voce, delle mani con cui commettere un delitto, quelle stesse mani che la notte prima l’avevano accarezzata.
Stavolta, anziché di sedersi, ebbe il bisogno di alzarsi. Il sangue gli ribolliva nelle vene, provava l’impulso di farla pagare a Tseng, che aveva distrutto la sua famiglia, aveva ucciso sua madre… e che le aveva mentito. Anni di bugie, un continuo mentire per chissà quale motivo. Gli aveva detto di lavorare nei Turk, quando in realtà era stato licenziato. Perché, perché lo aveva fatto? E perché non gli aveva detto la verità sulla morte della madre, perché non aveva mai trovato il coraggio di fare la cosa giusta?
Si sentì una stupida, per aver creduto che il loro fosse un rapporto vero. Era evidente che là dove aveva creduto ci fosse l’amore c’era invece il nulla, e mentre elaborava questi pensieri, un’idea, semplice come il peccato, si faceva strada nella sua mente.
Vendetta.
Per un attimo, fu davvero tentata dal sottile brivido che quel particolare sentimento portava con sé. Subito dopo, si sentì solamente un’idiota. Lasciò perdere i suoi propositi.
Si alzò in piedi, e mentre Reno gli urlava: “Ehi! Ma dove vai?”, lei scappò via. Lacrime silenziose solcarono le sue guance.
Era tutto finito, ancor prima che qualcosa di reale fosse davvero iniziato.
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Final Fantasy VII / Vai alla pagina dell'autore: BaschVR