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Autore: Ariel Lane    10/10/2009    1 recensioni
«Strinsi la mano in un pugno, e maledissi con tutta la rabbia che mi portavo dentro il maledetto che aveva inventato il “E vissero tutti e felici e contenti.” Perché in quel suo maledetto lieto fine aveva omesso me. » Avvolte credere nella fortuna è un bene, altre un male. C'è chi s'innamora, e chi invece ricade sempre nella stessa rete. Ma il destino fa sempre di testa sua, non guarda in faccia nessuno. Per questo esistono le fiabe, per portare un po' di speranza a chi non ne ha...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

*Just my luck*

 

1

(Alicia)

 

«Maledetta pioggia!»

Londra, 23 luglio 2006. I secondi erano scanditi minuziosamente dalle goccioline di pioggia, che cadevano sull’asfalto , schiantandosi contro i finestrini delle auto londinesi. La coltre di nubi aveva interamente ricoperto il cielo, negando ad ogni raggio di sole di penetrare quella plumbea barriera.

Come al solito la capitale inglese era stretta in una morsa gelida che bloccava lo scorrere della vita; e proprio fra la folla e qualche pozzanghera sfrecciavano i piedi di Alicia, che correva alla disperata ricerca di un luogo caldo ed accogliente.

«Maledetta pioggia!»

Aveva diciotto anni da cinque mesi, ma abbandonate le prime illusioni, Alicia si era resa conto che  avere un anno in più non l’aveva portata a quella libertà tanto agognata.

Viveva a Roma con sua madre, una cinquantenne dai vecchi e “sani” principi con i quali aveva cresciuto una figlia ben lontana dal suo cliché. Suo padre , Harold Simmons, era invece uno dei più influenti discografici del Regno Unito; aveva lasciato l’Italia qualche anno dopo la nascita della figlia, perché non riconosceva più in sua moglie la donna che aveva portato all’altare.

Così, costretta ad errare tra una casa e l’altra, la ragazza viaggiava ogni anno per le vacanze o non  appena ne avesse avuta l’opportunità. Tuttavia, anche quando soggiornava a Londra il padre spesso si assentava per impegni improvvisi di lavoro, e quando lei era più piccola l’aveva spesso affidata alle amorevoli cure della sua vicina di casa: la signora May Johnson . Oh, i dolcetti della signora May, come le mancavano in quel momento!

Ripensava a come sarebbe stato trascorrere  il pomeriggio con Lena, la figlia della donna, e con lei perdersi nei discorsi più insensati, disegnando un futuro che le vedeva unite, e lontano dalle loro attuali vite. Lena era una ragazza tipicamente inglese, dai tratti morbidi e la silhouette  snella sulla quale poter adagiare qualsiasi capo d’abbigliamento. Amava la letteratura ed i film dell’orrore, per non parlare poi della sua più grande passione: Danny Jones, un giovane chitarrista di un qualche gruppo locale, di cui Alicia non ricordava mai il nome.

Tutti questi particolari riaffioravano nella sua mente dopo aver trovato un luogo adatto in cui rifugiarsi: l’androne di un portone, la cui luce funzionava ad intermittenza. Si lasciò cadere esanime e zuppa sugli scalini, con la testa contro il muro. Sfilò l’ i-pod dalla borsa, mentre socchiudeva gli occhi e viaggiava col pensiero, portandosi le cuffie alle orecchie.

« Well, when you go don't ever think I'll make you try to stay. And maybe when you get back I'll be off to find another way».

Se ne stava , in silenzio, aspettando che spiovesse. Si legò i capelli neri con un elastico, scoprendo il collo.

Qualcuno al piano superiore doveva aver chiamato l’ ascensore.

«And after all this time that you still owe, you're still the good-for-nothing I don't know.»

I cancelli si aprirono e ne uscì una vecchietta dai capelli lunghi e argentei; le sorrise, ed Alicia ricambiò.

La vide scendere le scale una alla volta.

-Le serve una mano?-

-Oh, grazie tesoro.-

La ragazza scattò in piedi e l’aiutò,  le aprì il portone e l’ombrello, dopodiché la signora s’incamminò per la sua strada. Alicia la vide avviarsi lemme lemme. Sorrise.

Si voltò verso l’interno per andarsi a sedere un’altra volta, ma una sagoma varcò la soglia barcollando, inciampando sui suoi stessi piedi, cadendo infine contro il pavimento.

«So take your gloves and get out, better get out while you can.  When you go, would you even turn to say "I don't love you like I did yesterday”.»

In dosso aveva un giacchetto nero completamente zuppo. Il ragazzo aveva sbattuto la testa violentemente, inciampando nello scalino del portone. Alicia allora spense l’i-pod e corse in suo soccorso.

-Hai bisogno d’aiuto?-

Gli portò una mano sulla spalla delicatamente, sollevò il busto all’indietro e lo fece sedere.

Aveva i capelli biondi particolarmente arruffati, probabilmente aveva corso sotto la pioggia senza ombrello. Alicia gli tese la mano, chinandosi verso di lui e non poté fare a meno di notare il colore dei suoi occhi: verde smeraldo.

-Oh, grazie!-

Si alzò in piedi e con la mano ancora nella sua si ritrovarono faccia a faccia.

È stupenda, pensò Dougie, è veramente stupenda.

«Cazzo Doug, quante ne avrai già viste?  Una vale l’altra!.»

Per lui ormai erano tutte uguali, tutte stronze; ed ogni volta era la stessa storia. Ma lei, quella sconosciuta lì, ad un palmo di naso da lui, aveva qualcosa di diverso. Il suo profumo.

Avvertiva una dolce fragranza provenire dai suoi capelli neri. Scosse la testa mollando la presa.

«Che sia una fan? Un’altra? Cavolo! La prossima volta, che quella scimmia di Danny mi fa uscire di nuovo senza bodyguard, lo faccio fuori!»

«Cavolo Doug, è solo una ragazza, cosa vuoi che ti faccia?» Ecco che si immaginava il viso del suo amico che non vedeva l’ora di abbordarla. A lui, del resto, andava bene qualunque ragazza.

«Non come te, che sei troppo infantile, troppo timido, troppo!». Tom come al solito lo rimproverava.

-Tutto bene?-

La ragazza interruppe i suoi pensieri, ed ora la sua mano era lì, di nuovo sulla sua spalla.

-Si, sto bene.-scostò la spalla per allontanarla.- Credo di dover andare, ora.-si mosse verso la porta ma lei afferrò la sua felpa.

-Io credo invece che ti debba riposare un attimo, e poi, fuori piove a dirotto.-

Aveva ragione, dove diavolo aveva intenzione di andare con quel tempo? E se lei lo stesse dicendo solo per stare con lui? Non era niente male ma non era il caso di ricominciare, non dopo Louise. Eppure il suo sguardo era sincero, come se davvero lo facesse senza un secondo fine.

Si convinse ed annuì, ed entrambi si sedettero sulle scale, l’uno di fianco all’altra.

-Comunque, piacere, Alicia.-gli tese la mano e lui la esaminò incerto; ma la sua coscienza ebbe la meglio ancora una volta, esortandolo ad stringerla.

-Io sono…-ci pensò su un attimo-…Tom.-

«Ma perché?»

«Perché voglio vedere se lei è o non è una fan!» ribadì il concetto rabbioso. Era difficile ormai fidarsi.

Alicia sorrise, stringendogli la mano; poi, frugò nella sua borsa e dunque disse:

-Ehm, non credo di avere nulla che ti possa servire.-sfoderò un timido sorriso come se gli stesse chiedendo scusa, e Dougie sentì le guance divampare.

 -Non fa nulla.- avrebbe voluto alzarsi ed andarsene, ma qualcosa dentro di lui lo teneva ancorato lì accanto a lei. Ed era così assolto nei suoi pensieri da non accorgersi nemmeno che Alicia lo stava guardando, sebbene cercasse in tutti i modi di non darlo a vedere. Il suo sguardo cambiò ben presto direzione, puntando alla porta constatando che stesse ancora piovendo a catinelle.

-Puoi dirmelo se vuoi.-

-Cosa?-

-Non lo so. Che vorresti chiedermi? Un autografo? Un appuntamento? Quello che ti pare…- si lasciò andare ad un sospiro snervato.

-E perché?-

-Non fare finta di nulla.-

Alicia si sistemò provando a capire cosa stesse dicendo, eppure, non ne aveva la più pallida idea.

-Scusa Tom, non ti seguo.-

-Finiscila di chiamarmi così.-ringhiò.

-Perché sei stato tu stesso a dirmi che ti chiami Tom.-Dougie si voltò scocciato, ma quando incrociò i suoi occhi capì di aver appena fatto una figura del cavolo; quella ragazza davanti a lui non lo conosceva veramente.

-Ah, s-si.-balbettò incerto. Dubitava che stesse dicendo la verità, ma giusto o sbagliato che fosse continuò la sceneggiata. Voleva vedere sino a che punto sarebbe arrivata.-Scusa, colpa mia.- incrociò le mani poggiandole sulle ginocchia.

-Ok.-Alicia invece guardò nuovamente oltre la porta, e con suo grande rammarico vide che non aveva ancora smesso di piovere.  Dunque prese il cellulare che teneva nella borsetta nera, e continuò,- Chiamo qualcuno e dico di venirmi a prendere, dove siamo?-il ragazzo la guardò incuriosito.

-A Londra.-rispose lui.

-Ci ero arrivata anche io, che via?-

-Non lo so.-scosse la testa

-Bene, se non lo sai tu che sei di qui!-fece una breve pausa,-Perché tu sei di qui, vero?-

-Tu no?-sembrava confuso.

-No.-scosse la testa-Sono italiana, sono in vacanza a Londra e mi sono persa. A quanto pare…-

-Italiana?-Dougie parve confuso.

«Ecco la tua prova genio, ora fatti avanti e prova ad abbordarla!»

-Si. Vengo da Roma.-

-Roma?-le fece eco, ed i suoi occhi s’illuminarono.

-Si, è bellissima Tom, dovresti venire una volta in Italia. Credo che ti piacerebbe.-

- Lo credo anche io.-

« Ti riferisci all’Italia o alle italiane Doug?» Questa volta era d’accordo con la sua coscienza, senza dubbio il paese era bello, ma le ragazze lo erano di più.

-Sinceramente, nessuna città è come Roma.-sospirò, già si immaginava per le strade della sua città, con i suoi amici; sorridevano, scherzavano e progettavano ciò che avrebbero fatto il giorno seguente, ed il giorno successivo a quello seguente, e così via discorrendo: le lunghe passeggiate per i fori, senza parlare di villa borghese, il Colosseo, e tutti i luoghi più belli. Roma le mancava da morire, ma non aveva alcuna fretta di tornare a casa.

-Ti manca la tua città.-glielo si leggeva negli occhi.

-I miei amici.-digitò un numero, si portò l’oggetto all’orecchio e restò in attesa,-Cavolo! Non è raggiungibile!- gettò il cellulare da dove lo aveva preso e sbuffò irritata. Dougie la vedeva ticchettare con il piede velocemente, come di solito faceva Harry. –E adesso? Come torno a casa? Non mi ricordo le fermate della metro!- poi, un lampo di genio, frugò ancora nella sua borsa ed estrasse quella che qualche minuto prima doveva assomigliare ad una mappa, ed ora era completamente bagnata.

-Non credo ti possa tornare utile quella, sai?-soffocò un risolino.

-Già, bene! Sono fregata. Non ricordo quale metro devo prendere!-

«È il tuo momento Doug. Vai e colpisci. E possibilmente non ti affondare!»

-Posso accompagnarti io. Dove abiti?-

-Nothing Hill.-lei sorrise stupita, e Dougie avrebbe voluto vederla sorridere all’infinito.

 

2

(Dougie)

 

Camminavano vicini, a tal punto da sfiorarsi persino le mani delle volte. Alicia parlava continuamente, instancabile e con discorsi sempre nuovi. Gesticolava timidamente e spesso scuoteva il capo per correggere un qualche errore. In lei non sembrava esserci niente di sbagliato, ed erano sulla stessa lunghezza d’onda in qualsiasi cosa.  Capitava però che incappasse in argomenti delicati per Doug, e senza che lui le dicesse o facesse nulla lei cambiava discorso soltanto guardandolo negli occhi.

Dal canto suo Alicia non riusciva a fare a meno di non gettare un’occhiata su di lui, sebbene non fosse carino fissare qualcuno, ma “Tom” aveva un certo fascino, forse la sua timida risata, o il fatto che evitasse qualsiasi sguardo; durante il viaggio in metro le persone li studiavano indiscreti, e si chiedevano come facesse ad essere così tranquilla vicino a lui. Ovviamente Dougie cercava di non dare nell’occhio sebbene fosse davvero difficile, tuttavia qualche ragazza aveva provato ad avvicinarsi,  anche se poi ci aveva sempre ripensato.

D’improvviso Alicia parlò, domandandogli ingenuamente cos’avessero da guardare tutte quelle persone.

-Nulla.-la sua risposta fu secca, e non appena le porte del vagone si spalancarono la prese per mano e la trascinò via con sé.-Non è colpa tua.-

-Fa niente. Solo non vedo il motivo di fissare così chi non si conosce.-arrancò dietro di lui che la stringeva per il polso.

-Ti assicuro che sarebbe meglio se guardassero soltanto.-lei zittì. Come risposta era più che sufficiente.

Camminarono velocemente, e finché non fu sicuro che lei fosse fuori dalla portata di qualsiasi londinese indiscreto non mollò la presa.

Stare al suo fianco era come essere tornato indietro nel tempo; quando ancora andava in giro con i suoi amici senza che delle ragazze inferocite gli saltassero addosso non appena lo vedessero. Alicia emanava familiarità, tranquillità, come se bastasse la sua presenza per dimenticare ogni problema. All’improvviso  tornò ad essere Douglas, il ragazzino di Corringham, quello che andava matto per Tom Delonge e che suonava negli Ataiz. Lo sfigato del liceo.

Non erano bei ricordi quelli ma evocavano pace ed una normalità ormai perduta, dopo aver fatto quel provino al Covent Garden. Aveva sognato a lungo la celebrità, ed ora eccolo lì che ringraziava segretamente una perfetta sconosciuta per la quale anche lui sapeva di essere un perfetto sconosciuto.

 

 

3

(Alicia)

 

Perché stesse parlando ininterrottamente nemmeno lei lo sapeva con certezza. Forse era una scusante per non far piombare un improvviso ed imbarazzante silenzio, forse era semplicemente per poter parlare con qualcuno che non conoscesse. E che non la conoscesse.

Sapere di essere solo Alicia, e non Alicia Simmons era un sollievo, una sensazione nuova.

Di tanto in tanto i loro sguardi si incrociavano, per poi allontanarsi timidamente, consci di pensare entrambi la stessa cosa. Sorridere era divenuto di colpo più semplice, eppure, c’era ancora un campanello d’allarme nella sua mente.

«È così che ti sei uccisa, fidandoti. Ti sei fidata di un ragazzo che ha spaccato il tuo cuore spargendone poi i pezzi; mentre tu morivi dov’era lui? Mentre tu ti frantumavi dov’era lui? Mentre tu ti struggevi dov’era lui? Cosa faceva?»

«Era con l’altra.» c’era sofferenza nelle risposte di Alicia, un dolore incalcolabile che l’aveva distrutta lentamente, creando il vuoto totale.

«Vuoi morire ancora? Vuoi ancora che giochino con il tuo cuore? Lo vuoi davvero?»

«No.»

«E allora vacci in punta di piedi, come fanno le ballerine.»

Ma camminare sulle punte non l’aveva tirata su, aveva soltanto peggiorato le cose.

-Io sono arrivata Tom.-si fermò davanti al portone, sfilando le chiavi dalla borsa. Lui squadrò il palazzo da cima a fondo, poi chiese:

-Questa è casa tua?-

-Si.- indicò la finestra della sua camera da letto,-Vedi quella finestra al terzo piano? Lì c’è la mia stanza.-

-La stanza del terzo piano.-lo disse quasi senza rendersene conto.

Strano, buffo. Una coincidenza oppure era tutto reale? Non poteva essere. Non era possibile.

-Si, al terzo piano, e lì accanto c’è la mia vicina, Lena; è l’unica persona con la quale ho fatto amicizia qui.-

Al suono di quel nome strabuzzò gli occhi.

-Come hai detto che si chiama?-

-Lena, perché la conosci?-

Scosse la testa.

-No, no. Solo, si chiama come una mia vecchia amica.-tagliò corto, e stette a guardare Alicia mentre si voltava ed apriva il portone. -Davvero non conosci nessuno?-

-All’infuori della mia vicina, della sua famiglia e di mio padre no, non conosco nessun altro.- si voltò lasciando le chiavi inserite nella serratura.

-Cavolo.-fece portando il busto in avanti.

-Che c’è?-

-Solo una gocciolina nell’occhio.- ed una goccia dopo l’altra la pioggia cominciò a scendere lenta.

È ora di tornare a casa!

«La mia solita sfortuna!» Dougie affondò la punta del piede nel pavimento, quasi volesse distruggerlo.

-Credo sia meglio che tu vada.-mise le mani in tasca e calciò un sassolino.

-Già, credo sia meglio così.-sospirò Alicia.

-Allora, ci si vede.-se ne andò correndo con il cappuccio della felpa.

-Si certo, grazie di tutto Tom!- a metà strada si fermò. Quasi l’aveva dimenticato, si voltò e disse arrossendo:

-Di niente Alicia.-sorrise dopodiché sparì fra la pioggia e l’oscurità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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