La
radio era accesa, e trasmetteva in continuazione su un vecchio canale di musica
country, che ormai solo vecchiette e camionisti
ubriachi potevano ascoltare, senza stancarsi dopo poco.
Era
una delle solite notte fredde in Nevada, ed un auto decapottabile rossa correva
veloce su quelle strade.
Il
sole era calato da un ora più o meno, e tutto quanto il deserto che circondava
quella piccola strada, lunga e asfaltata, era immerso nel silenzio.
Due
fari giallici, schiarivano violentemente la strada e
schifavano la notte sfidandola.
Le
ruote emettevano un rumore sordo, e prendevano in pieni dei sassolini che si
incastravano fra i tagli del pneumatico.
I
parafanghi era sporchi ed incrostati e la portiera dalla parte del passeggero
era un po’ ammaccata, ma solo un occhio esperto e capace l’avrebbe notato
all’istante.
Quella
era la sua via di fuga. La sua quattro ruote che lo avrebbe portato verso la
libertà, o più semplicemente verso la morte.
Al
volante un uomo. Mezzo pelato e con radi e pochi capelli da entrambi i lati
della testa. Un capellino da contabile un po’ ingiallito e un paio di
pantaloncini corti bianchi, si intonavano perfettamente con un’assurda camicia
di un colore accesso, quasi rosso, o forse lo era.
Raoul
Duke percorreva le strade del Nevada, precisamente di Las Vegas sulla sua
decapottabile rossa, che dire sua era dire una follia, presa in prestito, come
direbbe lui, ma sicuramente alla polizia risultava più come non restituita
all’autonoleggio dal quale l’aveva presa giorni prima.
Raoul
Duke non sapeva che altro fare. Quel giorno era stato folle e allo stesso tempo
insostenibile, pure per il suo cervello bruciato da continue droghe.
Non
stava in piedi, ogni passo sembrava un tormento, eppure nella mano destra,
teneva stretta fra le dita una piccola bustina che era sicuro, entro pochi
minuti a rimuginare sul giusto e sbagliato, avrebbe preso inevitabilmente.
Quella
ormai era la sua compagna, che per quanto banale possa sembrare, lo era.
L’unica cosa che gli dava soddisfazione o pazzia proprio quando ne aveva
bisogno. C’era sempre, e non l’avrebbe mai tradito.
Avere
una donna? era fuori discussione. Le donne facevano soffrire, tradivano e non
erano mai coerenti, la sua vera compagna invece lo era. Sempre uguale,
polverina bianca fina, o a volte acidi o quant’altro, ma per quanti ne
prendesse e di differenti tipi, erano tutti uguali, non nella forma, nel sapore
o nell’odore, ma certamente per come lo facevano sentire. Tutti allo stesso
modo, ed era questo che Raoul Duke amava. Era questo che lo faceva impazzire e
lo invogliava a provare sempre di meglio.
Alcuni
lo potrebbero considerare un pazzo squilibrato, ma per lui era tutto normale.
Era la sua routine, la sua vita, e a lui andava bene così.
In
quei giorni Las Vegas era stata la sua minima preoccupazione. Era solamente un
posto come un altro, per chiudersi in una stanza d’hotel o quello che sia, e
bearsi della sua compagna. Lui e lei, lei e lui, e il matrimonio che
celebravano era ogni volta che Raoul Duke posava i suoi occhi su di lei, e come
promesse, certo erano le tipiche:
“Vuoi tu
prendermi nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia, finchè morte non ci separi?”
Certo,
lui lo voleva, fin da quella volta ad Atlantic City dove qualcuno aveva preso
il posto della sua compagna, e ancora rimpiangeva quel momento.
Si
era maledetto, disperato, e questa ora era la sua punizione, e il prezzo gli
sembrava ancor troppo poco.
Non
era amore certo. Raoul Duke il suo cuore l’aveva donato solo alla sua compagna,
mai a nessun’altro, ma lei, diavolo lei l’aveva fatto uscire pazzo.
Forse
era da lì che tutto era iniziato, o forse lo era già da prima.
Dal
suo primo servizio, dal suo primo lavoro o dalla prima sbronza.
Raoul
Duke c’era sempre stato.
Las
Vegas, era un posto come un altro. Si era fatto fino a non riuscire più a
camminare, si era liberato dei suoi pensieri, ed aveva annegato tutti i ricordi
in grammi di coca.
Tutto
era perfetto.
Aveva
creato problemi e di questo si compiaceva. Per lui tutto era tranquillo e
sereno, ma per gli altri non lo era mai. E di questo ne andava fiero.
Las
Vegas era una città come un’altra che lo aveva invidiato.
L’orologio
segnava le 02.36 di notte, e da un centinaio di metri, Raoul Duke aveva
superato un cartello con su scritto: “You’re now living Vegas”
Dalla
decapottabile ad un certo punto un urlo si liberò:
“Fuck Vegas”
Raoul
Duke, c’era sempre stato.