Disclaimer:
Hetalia non
mi appartiene e fidatevi. È meglio così.
Note:
una volta
questa nasceva come CinaGiappone. Da notare che i miei propositi vanno a morire
in un tempo assai breve (il vero problema è che non so scrivere di personaggi
asiatici senza tirare in ballo la Corea. Ho un debole assai inquietante per
questo qui) XD
1.La
oneshot si basa sostanzialmente su due eventi storici: la Prima Guerra
dell’oppio e la Prima Guerra sino-giapponese: specialmente la seconda segnò
l’indipendenza della Corea e la cessione del Taiwan al Giappone. Per
riferimenti più dettagliati di termini o fatti storici a cui ho fatto
riferimento, vi rimando alle note in fondo.
2.La
mia fonte storica è wikipedia (ho un manuale di storia sino-giapponese, ma
l’esame è a giugno e sono al neolitico ancora *-*”): qualsiasi errore è colpa
sua ù.ù *indica l’enciclopedia del web*
Ringraziamenti:
approfitto
di questo spazietto per ringraziare chi ha commentato (su EFP e non)
“Imitation” <3
Grazie
a makotochan, hinata_chan, nacchan, Meimei e kurenai88 X3
La guerra è finita
L’allontanamento
del Giappone non era stato un avvenimento così favorevole.
Per
nessuno: né per il mondo – una nazione in più che avrebbe cercato di allargare
i propri possedimenti – né per gli altri asiatici.
C’era
Hong Kong che, silenzioso e posato aveva taciuto opinioni e giudizi di
qualsiasi tipo; c’era Taiwan che piangeva, e dormiva quando la stanchezza e il
dolore la inglobavano, per poi sfogarsi ancora e ancora, contro Yao che per lei
era vittima e colpevole.
E c’era
Yong Soo – il solito Yong Soo logorroico, spensierato e quasi stupido, e ora
così furioso – che rimaneva in silenzio e in un angolo, e se nominavi
Kiku scattava in piedi.
Ignorava
le parole di Taiwan dettate dalla rabbia e dal dispiacere perché amava sua
sorella – e quella sua famiglia ora così fragile e pericolosamente spezzata
– e si preoccupava di alzarsi velocemente per raggiungere suo fratello Yao ogni
volta che la voce flebile passava oltre la porta scorrevole diffondendosi
appena nella stanza adiacente dove il coreano aspettava.
Richiudeva
la porta alle proprie spalle e si sedeva accanto al letto del fratello,
l’espressione preoccupata e ansiosa; Yao lo guardava – era stanco e sembrava
non avere voglia di fare nulla, proprio lui che agli occhi di tutti loro aveva
sempre e solo lavorato anche alle cose più banali – e sorrideva appena appena.
Yong
Soo stringeva i pugni, ma sorrideva leggermente di rimando.
E
Yao chiedeva se era tutto a posto, gli diceva di non preoccuparsi.
«Non
fare quella faccia, aru.» mormorava piano, ma il tono era quello che gli aveva
rivolto fin da quando era bambino; quella leggera nota di rimprovero e severità
che si mescolava piacevolmente all’amore incondizionato.
Poi
alzava la mano Yao, tirando appena la manica del suo hanbok a volte, oppure
carezzandogli lievemente la guancia con affetto come con un bambino spaventato
dai suoi stessi incubi.
«Non
essere arrabbiato, aru. Va tutto bene.» diceva.
E
Yong Soo sorrideva, perché andava bene così.
E
quando usciva dalla stanza – Yao di nuovo placidamente addormentato e
probabilmente preda di sogni che presto si sarebbero fatti agitati – lasciava
scorrere di nuovo la porta alle proprie spalle.
Hong
Kong e Taiwan non lo guardavano mai nello stesso istante, quasi per un tacito
accordo; ma quando era Meimei a guardarlo, capitava spesso che scostasse quasi
repentinamente lo sguardo.
Quando
Yong Soo stringeva i pugni fino a far sbiancare le nocche e senza una parola
muoveva passi veloci e rumorosi, e usciva facendo spesso cozzare la porta
scorrevole di casa contro lo stipite tanto che non si chiudeva a volte.
E
mentre Hong Kong silenziosamente si alzava per accostarla del tutto, Meimei
puntava insistentemente lo sguardo a terra mordendosi un labbro; sentiva colpi
sordi – Yong Soo di nuovo colpiva qualcosa sfogando la rabbia, e la
frustrazione, e sicuramente sarebbe rientrato con le nocche arrossate o nel
peggiore dei casi sanguinanti.
Chissà
perché il coreano le diceva di piangere per sfogarsi, e poi lui non lo faceva
mai.
C’era
chi diceva che il tempo fosse capace di risanare ogni ferita, ma era probabile
che nella loro casa nessuno ci credesse più davvero. Hong Kong aveva parlato
del tempo una sola volta, con Meimei, mentre aspettavano che Yong Soo finisse
di fare il bagno e Yao era in cucina – senza più ferite, nessuna fisica almeno.
Meimei
aveva infantilmente domandato al fratello se credesse nella possibilità che un
giorno sarebbe tornato tutto a posto; Hong Kong aveva taciuto, riflettendo a
lungo su quella domanda. Infine, quando ormai Meimei non si aspettava nemmeno
più una risposta, aveva alzato lo sguardo puntandolo sul giardino e aveva
detto: «Spesso dopo alcuni litigi si perdonano gli altri. Ma il tempo che
adesso divide Kiku e Yao non è quel tipo di tempo che fa tornare le cose come
erano prima.»
Meimei
aveva annuito mestamente: dopotutto, forse in cuor suo lo pensava anche lei.
Hong
Kong non si era sbagliato.
Il
tempo non aveva fatto altro che continuare ad affondare impietoso la lama
affilata delle sue lancette nelle ferite che erano profonde fin da quando erano
state inferte per la prima volta.
Yao
sembrava quello di sempre: severo per l’eccessiva esuberanza di Yong Soo seppur
lieto che fosse sempre il solito bambino vivace – anche quando bambino non lo
era più – o silenzioso avversario dei giochi da tavolo per Hong Kong; o,
ancora, era sempre il fratello maggiore che cucinava insieme a Meimei nella
grande cucina di casa.
Eppure
Yong Soo lo sapeva – meglio di tutti, ma non era l’unico – che Yao non era più
lo stesso di una volta: non importava quanto si sforzasse.
E
lo aveva detto ai suoi fratelli, che lui sarebbe rimasto sempre lì con l’aniki.
Ma
Hong Kong, nella sua personale risposta all’ingenua domanda della sorella,
aveva capito molto più di quanto aveva effettivamente pronunciato; quando il
tempo si mescolava all’odio, alle vecchie ferite, ai tradimenti e al dolore,
sapeva essere crudele.
E
le cose no, non miglioravano mai; il dolore, spesso si dimenticava soltanto con
un dolore ancora maggiore.
Un
giorno Yao tornò a casa ferito, di nuovo: per le strade di Beijing si
diceva che la guerra era arrivata.
Meimei
aveva odiato quella guerra con ogni fibra del suo essere, fino a star male per
tutto l’odio che silenziosamente accumulava per non sembrare debole accanto ai
suoi fratelli che stringevano i denti.
Aveva
odiato le urla in lontananza che di notte la tenevano sveglia, gli occhi che
fissavano il soffitto chiaro come se da un momento all’altro da uno dei
pannelli di legno dovesse spuntare fuori un mostro.
Spesso
si era seduta accanto ad Hong Kong, mentre fuori pioveva senza sosta – non
amava le metafore scontate della pioggia come lacrime del cielo, ma l’istinto
di correre fuori e bagnarsi dalla testa ai piedi in modo che la pioggia
portasse via tutto e nascondesse le sue debolezze era stato spesso difficile da
tenere a bada.
Fingeva
di meditare, ma dentro di sé pregava: fa che la guerra finisca presto.
Hong
Kong, seppur giovane aveva osservato quello scontro sanguinoso distruggere
lentamente tutto quanto: i familiari campi coltivati che costeggiava nelle
lunghe passeggiate mattutine, le case del villaggio che erano sempre state dei
punti di riferimento. Il fuoco aveva distrutto persino degli alberi, e il mare
non era più accessibile ormai (1); con gli occhi di chi in vita sua aveva
desiderato la vita più modesta e tranquilla che il mondo potesse offrirgli, con
come unico capriccio poter dar vita a spettacoli di fuoco e colori nel cielo,
Hong Kong aveva guardato la sua famiglia sfaldarsi su se stessa e lentamente
non rialzarsi più.
Con
Meimei che sopportava con forza in silenzio e diveniva ai suoi occhi sempre più
piccola, schiacciata dal peso di qualcosa che non avrebbe dovuto gravare sulle
sue spalle.
Yong
Soo che testardamente sperava, aspettava, come se non avesse mai saputo fare
altro – lui che non stava fermo un solo istante da che Hong Kong aveva memoria.
«Aspetto
l’aniki, tanto tra poco sarà di ritorno.» diceva – anche quando sapeva che Yao
quella notte non sarebbe affatto tornato. Hong Kong lo ascoltava, mentre
restava immobile e senza parlare nel proprio letto, Yong Soo che impaziente
rimaneva in attesa.
Qualche
volta gli sembrava di sentire dei singhiozzi; rispettosamente, si voltava
dall’altra parte premendo quanto serviva le mani sulle orecchie e chiudendo gli
occhi si imponeva di dormire.
Poi,
un giorno Yao era tornato a casa: ferito, ostentava una sicurezza e una
stabilità che non aveva.
Gli
abiti sporchi di sangue e il respiro veloce, era caduto sulle ginocchia poco
oltre la soglia: Yong Soo gli era stato subito accanto e appena un passo dietro
di lui Meimei e Hong Kong lo avevano seguito.
Yao
aveva tossito – sputando sangue sul legno, mentre Yong Soo lo stringeva appena
per dargli forza forse – alzando lo sguardo su di loro.
«La
guerra… è finita, aru.» aveva pronunciato; ma non c’erano né vittoria, né
soddisfazione in quelle parole.
Per
quanto lo avessero ritenuto impossibile, peggiore della guerra e del tradimento
c’era ancora qualcosa.
Kiku
era rientrato in quella casa una volta, dopo la guerra – e sarebbe stata
l’ultima.
Pronunciando
parole che Hong Kong e Taiwan non comprendevano, l’unico suono familiare era
stato quello di “Shimonoseki” (2), al quale Yao pur non chinando la testa
nemmeno in quel momento, aveva assunto l’aria di chi preferirebbe la morte a
quella possibilità imposta e mascherata da offerta di pace.
Yao
si era voltato verso di loro e si era chinato verso Taiwan: «Meimei, Kiku
vorrebbe passare un po’ di tempo con te, aru. E io devo sistemare tutte le cose
che la guerra ha distrutto, aru.» le disse.
E
Meimei era troppo piccola per capire la verità – o forse la sapeva già, ma
semplicemente ancora pensava di essere in dovere di apparire forte agli occhi
dei fratelli per non creargli problemi.
Hong
Kong guardava Kiku, e il giapponese distoglieva lo sguardo da Yao e Meimei –
era pietà, quella? – portandolo su Yong Soo.
E
Hong Kong non aveva mai visto Yong Soo così arrabbiato.
Nella
lingua in cui avevano parlato Yao e Kiku (3), sebbene molto più stentata e con
l’accento ancora orientale, Yong Soo aveva pronunciato un: «Non puoi decidere
per me.» carico di rabbia verso il fratello che se n’era andato – e che non
aveva mai perdonato davvero.
Kiku
non aveva avuto eccessive reazioni, forse solo lo scostare lo sguardo
lateralmente era stato appena più significativo delle parole che erano seguite,
o dei gesti che avevano messo la parola fine a quell’incontro.
«Sono
accordi di guerra, lo sconfitto deve rispettarli quanto il vincitore.»
pronunciò all’indirizzo di Yong Soo: «Quanto tempo ti occorre?» gli domandò.
«Vattene
al diavolo.» gli sibilò contro il coreano, mentre Meimei si faceva vicina a
Kiku.
Il
giapponese chinò impercettibilmente il capo in segno di saluto: «Spero che un
giorno ti sia sufficiente.» disse solamente.
Nient’altro,
dopo che la porta si fu chiusa alle sue spalle.
Ogni
tanto ad Hong Kong capitava di rimanere per ore a guardare fuori dalla
finestra: non apprezzava più la pioggia quanto un tempo, quando ancora non gli
riportava alla mente ricordi di guerre e separazioni.
Inoltre
aveva avuto modo di osservare che in quella casa grande e ormai vuota, il
rumore della pioggia sembrava riecheggiare fastidiosamente.
Una
volta non riusciva a sentirlo nemmeno poggiando l’orecchio contro la finestra.
Era passato già un anno, da quando erano rimasti solo in due lì: un anno da quando Meimei gli aveva sorriso rivolgendogli un cenno di saluto, da quando Kiku era venuto lì per l’ultima volta e da quando Yong Soo aveva urlato per la prima ed unica volta contro Yao.
Perché
glielo permetti, aniki?!, aveva chiesto – sembrava arrabbiato, ma Hong Kong aveva sentito solo
dolore e forse frustrazione – e Yao aveva ripetuto solo quello che già prima
aveva pronunciato rientrando malconcio.
La
guerra è finita.
Da
allora erano rimasti lì, insieme: Yong Soo aveva provato a tornare, anche solo
per una visita, ma il massimo che aveva ottenuto era stato di parlare con loro
per tempi davvero brevi e quasi insufficienti.
Meimei,
sapeva che stava bene ma non era mai tornata.
Si
riscosse dai suoi pensieri, sentendo un lamento leggero provenire dalla stanza
del fratello, dirigendosi lì e lasciando scorrere lentamente la porta: aveva
preso quell’abitudine per permettere a Yao di ricomporsi ogni volta che ne
aveva bisogno, specie agli inizi con i bendaggi e i medicinali.
«Hai
bisogno di qualcosa, gege (4)?» mormorò il più giovane, lo sguardo su Yao – non
lo aveva mai chiamato aniki, da quando Yong Soo se ne era andato via.
Vide
il maggiore annuire appena: «Del thé, aru.» replicò piano, il tono stanco.
Hong
Kong assentì con il capo: «Non ti serve altro, gege? Vuoi mangiare qualcosa?»
tentò, notando poco dopo Yao fare segno di no con la testa e sorridere appena,
lievemente.
«Non
ho fame, aru. Beviamo un po’ di thé caldo insieme, aru.» confermò.
Hong
Kong annuì, alzandosi in piedi e tornando alla porta, lasciandola scorrere per
uscire e per richiudersela nuovamente alle spalle.
Rimase
fermo lì, tuttavia, ascoltando il silenzio opprimente in tutta la casa – lo
sapeva, che era sempre così da quando erano solo in due, con Yao ancora
indebolito e lui che non era mai stato particolarmente loquace.
Era
il suo rito personale, il modo tutto suo di restare accanto al loro fratello
maggiore che li aveva sempre affiancati: in silenzio, senza commentare ma senza
nemmeno tapparsi le orecchie come faceva quando si trattava di Yong Soo.
Ascoltando
quei rumori che un uomo non voleva far sentire a nessuno, quelli che scuotevano
Yao di notte e che avevano fatto urlare di rabbia Yong Soo quel giorno.
Poi,
quando di nuovo tornava il silenzio, Hong Kong si attardava a fare le cose che
avrebbe già dovuto sbrigare, come la preparazione del thé.
Rientrava
nella stanza altrettanto silenziosamente, come se non avesse sentito nulla:
«Scusami il ritardo, gege. Il thé era finito.» dava come spiegazione.
Yao
annuiva senza mai fare domande e insieme bevevano.
Quando
poi quell’uomo biondo lo aveva portato via di casa definitivamente (5), Hong
Kong si era chiesto quanto Yao odiasse quell’espressione.
Indipendentemente
da chi la pronunciasse o a chi fosse rivolta, si era chiesto se Yao a distanza
di anni non avrebbe comunque continuato a desiderare di non sentirla
pronunciare mai più.
Quelle
parole che erano solo bugie, illusioni; quelle che ti davano la speranza di non
perdere più nulla e poi quel nulla te lo strappavano via con violenza, e
sangue, e lacrime.
Quelle
che, col senno di poi, significavano solo che non c’era più qualcosa per cui
combattere; quelle che potevano essere pronunciate in due soli modi: con odio e
disperazione, oppure con arroganza e soddisfazione.
Quelle
parole che dette da suo fratello avevano significato un “mi dispiace” rivolto a
tutti loro, e il desiderio di dare tutto, anche se stesso ma non la loro
famiglia.
«War is over, China.»
La
guerra è finita; hai perso.
Note
Sperando
di ricordarmele tutte, che sarebbe carino XD
1.“E
il mare non era più accessibile ormai”: durante la guerra sino-giapponese, ad
un certo punto le flotte del Giappone distruggendo la maggior parte delle navi
cinesi assunsero il controllo dell’entrata a Beijing dal mare. Per questo Hong
Kong sostiene che non sia più accessibile (né, di conseguenza, una zona sicura
dove circolare).
2.“Shimonoseki”:
il suono che, nell’insieme della lingua straniera, a Hong Kong sembra familiare
è il nome del trattato del 17 aprile 1895 con cui la Cina fu costretta – tra le
altre cose menzionate – a cedere il Taiwan al Giappone e a concedere
l’indipendenza alla Corea.
3.“Nella
lingua in cui avevano parlato Yao e Kiku”: in Hetalia si suppone che ai meeting
generali (e non), i vari paesi comunichino fra loro in inglese. Basandomi su
questo, ho considerato che Yao/Cina essendo nel commercio internazionale da
parecchio vista la veneranda età la conoscesse per forza di cose. Allo stesso
modo Kiku, che in quanto Giappone fortemente influenzato dall’Occidente in
quegli anni è plausibile la conoscesse.
Yong
Soo ho immaginato la potesse sapere vista l’indipendenza che ne conseguì e
considerando che la Corea al momento dell’indipendenza aveva anche un
linguaggio suo sviluppato dal modello cinese. Chiaramente però, non avendo mai
avuto rapporti con l’esterno in quanto nazione a sé ho ritenuto plausibile che
il suo inglese fosse più rozzo.
Infine,
essendo Hong Kong e Taiwan i più piccolini e meno indipendenti di tutti, ho
preferito per coerenza renderli incapaci di capire l’inglese.
4.“Gege”:
fratellone in cinese.
5.“Quando
poi quell’uomo biondo lo aveva portato via di casa definitivamente”: l’uomo
biondo è Arthur, per la cronaca XD
La
scelta di quel “definitivamente” è dovuta alla natura della Prima Guerra dell’oppio:
da fonti wikipediane risulta che durante questa guerra, intorno al 1841 i
villaggi di pescatori di Hong Kong furono insediati dalla Gran Bretagna.
Le
aree che rimasero libere, tuttavia, furono del tutto cedute solo il 1 luglio
del 1898.
Attuando
il tutto su Hetalia, ho ipotizzato che Hong Kong fosse stato avvicinato da
Arthur una volta in passato, suscitandone l’interesse e che fosse poi stato
portato via del tutto nel 1898, ossia tre anni dopo che Kiku ha portato via
Taiwan e forzato l’indipendenza di Yong Soo.
Spero
sia tutto chiaro >w<