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Autore: Shichan    25/10/2009    3 recensioni
Yong Soo stringeva i pugni fino a far sbiancare le nocche e senza una parola muoveva passi veloci e rumorosi, e usciva facendo spesso cozzare la porta scorrevole di casa contro lo stipite tanto che non si chiudeva a volte.
E mentre Hong Kong silenziosamente si alzava per accostarla del tutto, Meimei puntava insistentemente lo sguardo a terra mordendosi un labbro; sentiva colpi sordi – Yong Soo di nuovo colpiva qualcosa sfogando la rabbia, e la frustrazione, e sicuramente sarebbe rientrato con le nocche arrossate o nel peggiore dei casi sanguinanti.
Chissà perché il coreano le diceva di piangere per sfogarsi, e poi lui non lo faceva mai.

[Corea del Sud; Cina; Giappone; Taiwan; Hong Kong]
Genere: Triste, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cina/Yao Wang, Giappone/Kiku Honda, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’allontanamento del Giappone non era stato un avvenimento così favorevole

Disclaimer: Hetalia non mi appartiene e fidatevi. È meglio così.

Note: una volta questa nasceva come CinaGiappone. Da notare che i miei propositi vanno a morire in un tempo assai breve (il vero problema è che non so scrivere di personaggi asiatici senza tirare in ballo la Corea. Ho un debole assai inquietante per questo qui) XD

1.La oneshot si basa sostanzialmente su due eventi storici: la Prima Guerra dell’oppio e la Prima Guerra sino-giapponese: specialmente la seconda segnò l’indipendenza della Corea e la cessione del Taiwan al Giappone. Per riferimenti più dettagliati di termini o fatti storici a cui ho fatto riferimento, vi rimando alle note in fondo.

2.La mia fonte storica è wikipedia (ho un manuale di storia sino-giapponese, ma l’esame è a giugno e sono al neolitico ancora *-*”): qualsiasi errore è colpa sua ù.ù *indica l’enciclopedia del web*

Ringraziamenti: approfitto di questo spazietto per ringraziare chi ha commentato (su EFP e non) “Imitation” <3

Grazie a makotochan, hinata_chan, nacchan, Meimei e kurenai88 X3

 

 

La guerra è finita

 

 

L’allontanamento del Giappone non era stato un avvenimento così favorevole.

Per nessuno: né per il mondo – una nazione in più che avrebbe cercato di allargare i propri possedimenti – né per gli altri asiatici.

C’era Hong Kong che, silenzioso e posato aveva taciuto opinioni e giudizi di qualsiasi tipo; c’era Taiwan che piangeva, e dormiva quando la stanchezza e il dolore la inglobavano, per poi sfogarsi ancora e ancora, contro Yao che per lei era vittima e colpevole.

E c’era Yong Soo – il solito Yong Soo logorroico, spensierato e quasi stupido, e ora così furioso – che rimaneva in silenzio e in un angolo, e se nominavi Kiku scattava in piedi.

Ignorava le parole di Taiwan dettate dalla rabbia e dal dispiacere perché amava sua sorella – e quella sua famiglia ora così fragile e pericolosamente spezzata – e si preoccupava di alzarsi velocemente per raggiungere suo fratello Yao ogni volta che la voce flebile passava oltre la porta scorrevole diffondendosi appena nella stanza adiacente dove il coreano aspettava.

Richiudeva la porta alle proprie spalle e si sedeva accanto al letto del fratello, l’espressione preoccupata e ansiosa; Yao lo guardava – era stanco e sembrava non avere voglia di fare nulla, proprio lui che agli occhi di tutti loro aveva sempre e solo lavorato anche alle cose più banali – e sorrideva appena appena.

Yong Soo stringeva i pugni, ma sorrideva leggermente di rimando.

E Yao chiedeva se era tutto a posto, gli diceva di non preoccuparsi.

«Non fare quella faccia, aru.» mormorava piano, ma il tono era quello che gli aveva rivolto fin da quando era bambino; quella leggera nota di rimprovero e severità che si mescolava piacevolmente all’amore incondizionato.

Poi alzava la mano Yao, tirando appena la manica del suo hanbok a volte, oppure carezzandogli lievemente la guancia con affetto come con un bambino spaventato dai suoi stessi incubi.

«Non essere arrabbiato, aru. Va tutto bene.» diceva.

E Yong Soo sorrideva, perché andava bene così.

E quando usciva dalla stanza – Yao di nuovo placidamente addormentato e probabilmente preda di sogni che presto si sarebbero fatti agitati – lasciava scorrere di nuovo la porta alle proprie spalle.

Hong Kong e Taiwan non lo guardavano mai nello stesso istante, quasi per un tacito accordo; ma quando era Meimei a guardarlo, capitava spesso che scostasse quasi repentinamente lo sguardo.

Quando Yong Soo stringeva i pugni fino a far sbiancare le nocche e senza una parola muoveva passi veloci e rumorosi, e usciva facendo spesso cozzare la porta scorrevole di casa contro lo stipite tanto che non si chiudeva a volte.

E mentre Hong Kong silenziosamente si alzava per accostarla del tutto, Meimei puntava insistentemente lo sguardo a terra mordendosi un labbro; sentiva colpi sordi – Yong Soo di nuovo colpiva qualcosa sfogando la rabbia, e la frustrazione, e sicuramente sarebbe rientrato con le nocche arrossate o nel peggiore dei casi sanguinanti.

Chissà perché il coreano le diceva di piangere per sfogarsi, e poi lui non lo faceva mai.

 

 

C’era chi diceva che il tempo fosse capace di risanare ogni ferita, ma era probabile che nella loro casa nessuno ci credesse più davvero. Hong Kong aveva parlato del tempo una sola volta, con Meimei, mentre aspettavano che Yong Soo finisse di fare il bagno e Yao era in cucina – senza più ferite, nessuna fisica almeno.

Meimei aveva infantilmente domandato al fratello se credesse nella possibilità che un giorno sarebbe tornato tutto a posto; Hong Kong aveva taciuto, riflettendo a lungo su quella domanda. Infine, quando ormai Meimei non si aspettava nemmeno più una risposta, aveva alzato lo sguardo puntandolo sul giardino e aveva detto: «Spesso dopo alcuni litigi si perdonano gli altri. Ma il tempo che adesso divide Kiku e Yao non è quel tipo di tempo che fa tornare le cose come erano prima.»

Meimei aveva annuito mestamente: dopotutto, forse in cuor suo lo pensava anche lei.

 

 

Hong Kong non si era sbagliato.

Il tempo non aveva fatto altro che continuare ad affondare impietoso la lama affilata delle sue lancette nelle ferite che erano profonde fin da quando erano state inferte per la prima volta.

Yao sembrava quello di sempre: severo per l’eccessiva esuberanza di Yong Soo seppur lieto che fosse sempre il solito bambino vivace – anche quando bambino non lo era più – o silenzioso avversario dei giochi da tavolo per Hong Kong; o, ancora, era sempre il fratello maggiore che cucinava insieme a Meimei nella grande cucina di casa.

Eppure Yong Soo lo sapeva – meglio di tutti, ma non era l’unico – che Yao non era più lo stesso di una volta: non importava quanto si sforzasse.

E lo aveva detto ai suoi fratelli, che lui sarebbe rimasto sempre lì con l’aniki.

Ma Hong Kong, nella sua personale risposta all’ingenua domanda della sorella, aveva capito molto più di quanto aveva effettivamente pronunciato; quando il tempo si mescolava all’odio, alle vecchie ferite, ai tradimenti e al dolore, sapeva essere crudele.

E le cose no, non miglioravano mai; il dolore, spesso si dimenticava soltanto con un dolore ancora maggiore.

Un giorno Yao tornò a casa ferito, di nuovo: per le strade di Beijing si diceva che la guerra era arrivata.

 

 

Meimei aveva odiato quella guerra con ogni fibra del suo essere, fino a star male per tutto l’odio che silenziosamente accumulava per non sembrare debole accanto ai suoi fratelli che stringevano i denti.

Aveva odiato le urla in lontananza che di notte la tenevano sveglia, gli occhi che fissavano il soffitto chiaro come se da un momento all’altro da uno dei pannelli di legno dovesse spuntare fuori un mostro.

Spesso si era seduta accanto ad Hong Kong, mentre fuori pioveva senza sosta – non amava le metafore scontate della pioggia come lacrime del cielo, ma l’istinto di correre fuori e bagnarsi dalla testa ai piedi in modo che la pioggia portasse via tutto e nascondesse le sue debolezze era stato spesso difficile da tenere a bada.

Fingeva di meditare, ma dentro di sé pregava: fa che la guerra finisca presto.

Hong Kong, seppur giovane aveva osservato quello scontro sanguinoso distruggere lentamente tutto quanto: i familiari campi coltivati che costeggiava nelle lunghe passeggiate mattutine, le case del villaggio che erano sempre state dei punti di riferimento. Il fuoco aveva distrutto persino degli alberi, e il mare non era più accessibile ormai (1); con gli occhi di chi in vita sua aveva desiderato la vita più modesta e tranquilla che il mondo potesse offrirgli, con come unico capriccio poter dar vita a spettacoli di fuoco e colori nel cielo, Hong Kong aveva guardato la sua famiglia sfaldarsi su se stessa e lentamente non rialzarsi più.

Con Meimei che sopportava con forza in silenzio e diveniva ai suoi occhi sempre più piccola, schiacciata dal peso di qualcosa che non avrebbe dovuto gravare sulle sue spalle.

Yong Soo che testardamente sperava, aspettava, come se non avesse mai saputo fare altro – lui che non stava fermo un solo istante da che Hong Kong aveva memoria.

«Aspetto l’aniki, tanto tra poco sarà di ritorno.» diceva – anche quando sapeva che Yao quella notte non sarebbe affatto tornato. Hong Kong lo ascoltava, mentre restava immobile e senza parlare nel proprio letto, Yong Soo che impaziente rimaneva in attesa.

Qualche volta gli sembrava di sentire dei singhiozzi; rispettosamente, si voltava dall’altra parte premendo quanto serviva le mani sulle orecchie e chiudendo gli occhi si imponeva di dormire.

Poi, un giorno Yao era tornato a casa: ferito, ostentava una sicurezza e una stabilità che non aveva.

Gli abiti sporchi di sangue e il respiro veloce, era caduto sulle ginocchia poco oltre la soglia: Yong Soo gli era stato subito accanto e appena un passo dietro di lui Meimei e Hong Kong lo avevano seguito.

Yao aveva tossito – sputando sangue sul legno, mentre Yong Soo lo stringeva appena per dargli forza forse – alzando lo sguardo su di loro.

«La guerra… è finita, aru.» aveva pronunciato; ma non c’erano né vittoria, né soddisfazione in quelle parole.

 

 

Per quanto lo avessero ritenuto impossibile, peggiore della guerra e del tradimento c’era ancora qualcosa.

Kiku era rientrato in quella casa una volta, dopo la guerra – e sarebbe stata l’ultima.

Pronunciando parole che Hong Kong e Taiwan non comprendevano, l’unico suono familiare era stato quello di “Shimonoseki” (2), al quale Yao pur non chinando la testa nemmeno in quel momento, aveva assunto l’aria di chi preferirebbe la morte a quella possibilità imposta e mascherata da offerta di pace.

Yao si era voltato verso di loro e si era chinato verso Taiwan: «Meimei, Kiku vorrebbe passare un po’ di tempo con te, aru. E io devo sistemare tutte le cose che la guerra ha distrutto, aru.» le disse.

E Meimei era troppo piccola per capire la verità – o forse la sapeva già, ma semplicemente ancora pensava di essere in dovere di apparire forte agli occhi dei fratelli per non creargli problemi.

Hong Kong guardava Kiku, e il giapponese distoglieva lo sguardo da Yao e Meimei – era pietà, quella? – portandolo su Yong Soo.

E Hong Kong non aveva mai visto Yong Soo così arrabbiato.

Nella lingua in cui avevano parlato Yao e Kiku (3), sebbene molto più stentata e con l’accento ancora orientale, Yong Soo aveva pronunciato un: «Non puoi decidere per me.» carico di rabbia verso il fratello che se n’era andato – e che non aveva mai perdonato davvero.

Kiku non aveva avuto eccessive reazioni, forse solo lo scostare lo sguardo lateralmente era stato appena più significativo delle parole che erano seguite, o dei gesti che avevano messo la parola fine a quell’incontro.

«Sono accordi di guerra, lo sconfitto deve rispettarli quanto il vincitore.» pronunciò all’indirizzo di Yong Soo: «Quanto tempo ti occorre?» gli domandò.

«Vattene al diavolo.» gli sibilò contro il coreano, mentre Meimei si faceva vicina a Kiku.

Il giapponese chinò impercettibilmente il capo in segno di saluto: «Spero che un giorno ti sia sufficiente.» disse solamente.

Nient’altro, dopo che la porta si fu chiusa alle sue spalle.

 

 

Ogni tanto ad Hong Kong capitava di rimanere per ore a guardare fuori dalla finestra: non apprezzava più la pioggia quanto un tempo, quando ancora non gli riportava alla mente ricordi di guerre e separazioni.

Inoltre aveva avuto modo di osservare che in quella casa grande e ormai vuota, il rumore della pioggia sembrava riecheggiare fastidiosamente.

Una volta non riusciva a sentirlo nemmeno poggiando l’orecchio contro la finestra.

Era passato già un anno, da quando erano rimasti solo in due lì: un anno da quando Meimei gli aveva sorriso rivolgendogli un cenno di saluto, da quando Kiku era venuto lì per l’ultima volta e da quando Yong Soo aveva urlato per la prima ed unica volta contro Yao.

Perché glielo permetti, aniki?!, aveva chiesto – sembrava arrabbiato, ma Hong Kong aveva sentito solo dolore e forse frustrazione – e Yao aveva ripetuto solo quello che già prima aveva pronunciato rientrando malconcio.

La guerra è finita.

Da allora erano rimasti lì, insieme: Yong Soo aveva provato a tornare, anche solo per una visita, ma il massimo che aveva ottenuto era stato di parlare con loro per tempi davvero brevi e quasi insufficienti.

Meimei, sapeva che stava bene ma non era mai tornata.

Si riscosse dai suoi pensieri, sentendo un lamento leggero provenire dalla stanza del fratello, dirigendosi lì e lasciando scorrere lentamente la porta: aveva preso quell’abitudine per permettere a Yao di ricomporsi ogni volta che ne aveva bisogno, specie agli inizi con i bendaggi e i medicinali.

«Hai bisogno di qualcosa, gege (4)?» mormorò il più giovane, lo sguardo su Yao – non lo aveva mai chiamato aniki, da quando Yong Soo se ne era andato via.

Vide il maggiore annuire appena: «Del thé, aru.» replicò piano, il tono stanco.

Hong Kong assentì con il capo: «Non ti serve altro, gege? Vuoi mangiare qualcosa?» tentò, notando poco dopo Yao fare segno di no con la testa e sorridere appena, lievemente.

«Non ho fame, aru. Beviamo un po’ di thé caldo insieme, aru.» confermò.

Hong Kong annuì, alzandosi in piedi e tornando alla porta, lasciandola scorrere per uscire e per richiudersela nuovamente alle spalle.

Rimase fermo lì, tuttavia, ascoltando il silenzio opprimente in tutta la casa – lo sapeva, che era sempre così da quando erano solo in due, con Yao ancora indebolito e lui che non era mai stato particolarmente loquace.

Era il suo rito personale, il modo tutto suo di restare accanto al loro fratello maggiore che li aveva sempre affiancati: in silenzio, senza commentare ma senza nemmeno tapparsi le orecchie come faceva quando si trattava di Yong Soo.

Ascoltando quei rumori che un uomo non voleva far sentire a nessuno, quelli che scuotevano Yao di notte e che avevano fatto urlare di rabbia Yong Soo quel giorno.

Poi, quando di nuovo tornava il silenzio, Hong Kong si attardava a fare le cose che avrebbe già dovuto sbrigare, come la preparazione del thé.

Rientrava nella stanza altrettanto silenziosamente, come se non avesse sentito nulla: «Scusami il ritardo, gege. Il thé era finito.» dava come spiegazione.

Yao annuiva senza mai fare domande e insieme bevevano.

 

 

Quando poi quell’uomo biondo lo aveva portato via di casa definitivamente (5), Hong Kong si era chiesto quanto Yao odiasse quell’espressione.

Indipendentemente da chi la pronunciasse o a chi fosse rivolta, si era chiesto se Yao a distanza di anni non avrebbe comunque continuato a desiderare di non sentirla pronunciare mai più.

Quelle parole che erano solo bugie, illusioni; quelle che ti davano la speranza di non perdere più nulla e poi quel nulla te lo strappavano via con violenza, e sangue, e lacrime.

Quelle che, col senno di poi, significavano solo che non c’era più qualcosa per cui combattere; quelle che potevano essere pronunciate in due soli modi: con odio e disperazione, oppure con arroganza e soddisfazione.

Quelle parole che dette da suo fratello avevano significato un “mi dispiace” rivolto a tutti loro, e il desiderio di dare tutto, anche se stesso ma non la loro famiglia.

«War is over, China.»

La guerra è finita; hai perso.

 

 

 

Note

Sperando di ricordarmele tutte, che sarebbe carino XD

 

1.“E il mare non era più accessibile ormai”: durante la guerra sino-giapponese, ad un certo punto le flotte del Giappone distruggendo la maggior parte delle navi cinesi assunsero il controllo dell’entrata a Beijing dal mare. Per questo Hong Kong sostiene che non sia più accessibile (né, di conseguenza, una zona sicura dove circolare).

 

2.“Shimonoseki”: il suono che, nell’insieme della lingua straniera, a Hong Kong sembra familiare è il nome del trattato del 17 aprile 1895 con cui la Cina fu costretta – tra le altre cose menzionate – a cedere il Taiwan al Giappone e a concedere l’indipendenza alla Corea.

 

3.“Nella lingua in cui avevano parlato Yao e Kiku”: in Hetalia si suppone che ai meeting generali (e non), i vari paesi comunichino fra loro in inglese. Basandomi su questo, ho considerato che Yao/Cina essendo nel commercio internazionale da parecchio vista la veneranda età la conoscesse per forza di cose. Allo stesso modo Kiku, che in quanto Giappone fortemente influenzato dall’Occidente in quegli anni è plausibile la conoscesse.

Yong Soo ho immaginato la potesse sapere vista l’indipendenza che ne conseguì e considerando che la Corea al momento dell’indipendenza aveva anche un linguaggio suo sviluppato dal modello cinese. Chiaramente però, non avendo mai avuto rapporti con l’esterno in quanto nazione a sé ho ritenuto plausibile che il suo inglese fosse più rozzo.

Infine, essendo Hong Kong e Taiwan i più piccolini e meno indipendenti di tutti, ho preferito per coerenza renderli incapaci di capire l’inglese.

 

4.“Gege”: fratellone in cinese.

 

5.“Quando poi quell’uomo biondo lo aveva portato via di casa definitivamente”: l’uomo biondo è Arthur, per la cronaca XD

La scelta di quel “definitivamente” è dovuta alla natura della Prima Guerra dell’oppio: da fonti wikipediane risulta che durante questa guerra, intorno al 1841 i villaggi di pescatori di Hong Kong furono insediati dalla Gran Bretagna.

Le aree che rimasero libere, tuttavia, furono del tutto cedute solo il 1 luglio del 1898.

Attuando il tutto su Hetalia, ho ipotizzato che Hong Kong fosse stato avvicinato da Arthur una volta in passato, suscitandone l’interesse e che fosse poi stato portato via del tutto nel 1898, ossia tre anni dopo che Kiku ha portato via Taiwan e forzato l’indipendenza di Yong Soo.

Spero sia tutto chiaro >w< 

   
 
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