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Autore: Mia    10/06/2005    7 recensioni
Una ff su Eleonora d'Aquitania, basata interamente sui sentimenti della regina Eleonora nei confronti di suo marito Enrico II Plantageneto. Anche se non ho vinto sono felicissima di aver partecipato; sono molto affezionata a questa ff e vorrei sentire il vostro parere in merito.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Leone e l’Aquila

 

Amore ed Odio

 

Lo amavo.

Nonostante non volessi ammetterlo davanti a me stessa, lo amavo ancora.

Me ne ero resa conto quel Natale del 1183, dopo dieci anni di reclusione impostimi da lui.

La realtà mi era crollata addosso del tutto inaspettata, ma io non mi ero fatta cogliere impreparata.

Ero sempre stata brava a nascondere le mie emozioni, i miei sentimenti, ed anche quella volta ero riuscita a mantenere le mie posizioni e l’espressione sul mio volto era rimasta impassibile.

Mi ero detta che mai avrei provato, né avrei dovuto provare, gelosia nei confronti di Alice di Francia; che mai avrei dovuto biasimare lei, che io avevo cresciuto come una figlia, per essere stata sedotta da Enrico che ne aveva fatta la sua amante.

Non ci ero riuscita.

La gelosia era sempre stata, ed era rimasta, la mia padrona, come quando ero giovane.

Ero gelosa degli sguardi dolci che si scambiavano, dei loro baci, che la mia bocca ancora, ahimè, pretendeva.

Ci eravamo sempre amati violentemente, Enrico ed io; eravamo fatti così: ardenti e violenti entrambi, oltre che ambiziosi.

Ora che però non sono più giovane come un tempo, non è il mio corpo a desiderare amore, ma la mia anima, la mia mente.

Desidero essere amata dolcemente da Enrico, poiché io ancora lo amo.

Nonostante la gelosia mi divorasse l’anima, ero riuscita a mantenermi fredda e distante davanti agli atteggiamenti amorosi suoi e di Alice.

Ipocrita!

Sono un’ipocrita; lo sono sempre stata e sempre lo sarò.

Mi sono comportata gentilmente con Alice e mi sono mantenuta falsamente affabile con Enrico.

Ero infatti convinta che l’unico motivo che ancora mi restava per vivere, fosse quello di sostenere i miei figli.

Soprattutto il mio Riccardo!

Il più amato fra i miei cuccioli.

Il motivo per cui Enrico mi aveva permesso di uscire dalla mia prigionia, era stata la morte del nostro primogenito, che avrebbe costretto mio marito a nominare un nuovo erede.

Un’altra lotta.

Da dieci anni a questa parte non avevamo fatto altro che lottare, io e lui.

Io desideravo mettere sul trono dell’Inghilterra Riccardo, mentre Enrico voleva che il suo trono passasse al minore dei nostri figli: Giovanni.

Lo sapevo, e per questo avevo cercato, un’altra volta, di mettere i miei figli contro il padre, affinché tutto il potere passasse a me ed a Riccardo.

Per la seconda volta ero stata sconfitta da Enrico, o almeno credevo.

Infatti, alla fine della mia visita, nessuna decisione era stata presa: Riccardo aveva ancora una speranza.

Quando ci eravamo separati, Enrico mi aveva sorriso domandandomi poi se non sarebbe stato bello se io e lui fossimo vissuti in eterno, fuggendo così a tutti i nostri problemi, compresa la successione al trono.

Gli avevo risposto, ridendo a mia volta, che eravamo entrambi sulla buona strada, ma che forse sarebbe stata pur ora di liberare il mondo dalla nostra presenza, sprofondando finalmente all’inferno: il posto più adatto a due Demoni come noi.

Poi, sollevando una mano, lo avevo salutato e lui aveva fatto altrettanto.

Ora mi trovavo nuovamente nella mia torre, rinchiusa, prigioniera.

Il giorno di Natale ci eravamo parlati per parecchio tempo nella nostra vecchia camera da letto.

Gli avevo detto che ero stanca, che se desiderava l’Aquitania, la mia terra, ed il trono per Giovanni avrebbe potuto darglieli, poiché tutto quello che desideravo io era un poco di pace, non più il potere o le terre, né il trono per Riccardo.

Non mi aveva creduto.

Ne ero certa.

Cedere l’Aquitania era sì un enorme sforzo per me: la mia terra, la terra del mio amato nonno, Guglielmo il Trovatore.

Lì ero nata, cresciuta e lì desideravo morire.

Quasi mi avesse letto nel pensiero, Enrico aveva asserito di sapere ciò che in realtà desideravo, aggiungendo poi che sarebbe stato disposto a darmela.

Lo avevo guardato senza comprendere.

Mi spiegò allora che tutto ciò di cui aveva bisogno era una mia firma con la quale avrei ceduto l’Aquitania a Giovanni ed, in cambio di quel favore, Enrico mi avrebbe restituito la mia libertà.

Gli occhi mi si erano illuminati ed il cuore aveva aumentato i suoi battiti nel mio petto: la libertà!

Quasi non ricordavo più il significato di quella parola!

Accettai, per contraddirmi l’attimo dopo.

Tutto questo comportava dei rischi e dei compromessi a cui non volevo scendere.

Fu allora che Enrico mi disse che non aveva bisogno dell’Aquitania e che avrei potuto tenerla, così come la mia prigionia.

Era sempre stato la contraddizione fatta persona, ed a distanza di anni non era cambiato.

Con aria di sfida gli avevo chiesto che cosa volesse, allora.

Mi aveva risposto di volere un altro figlio.

Quelle parole erano state per me come una pugnalata al petto: voleva l’annullamento.

Già una volta aveva tentato di rinchiudermi in un convento, ma ero stata in grado di oppormi: ci sarei riuscita anche questa volta.

Mi ripresi subito da questa affermazione, ma la rabbia che bruciava dentro di me era indescrivibile.

Perché? Credevo che quella fosse l’unica cosa che aveva in abbondanza! Ci si potrebbe popolare una città intera con tutti i bastardi che aveva messo al mondo!

E con chi sarei stata sostituita? Con Alice?

Glielo chiesi, non dopo avergli rinfacciato i suoi adulteri, che mi bruciavano l’anima da anni.

Non attesi la sua risposta, poiché già la conoscevo.

Gli dissi di fare ciò che voleva, ma lo avvertii che io avrei fatto di tutto per ostacolarlo, anche questa volta, come avevo sempre fatto.

Decisi di cominciare da subito.

Gli dissi che ormai cominciava ad essere vecchio e che una questione delicata come un annullamento richiedeva tempo.

Gli anni cominciavano a pesargli addosso ed ognuno di essi diventava prezioso.

Se io gliene avessi fatto perdere uno?

Se poi il figlio suo e di Alice fosse morto come il nostro? Era possibile.

Gli illustrai questa possibilità e mi fermai per osservare la sua reazione.

Il ricordo del piccolo Guglielmo, nostro primogenito, morto alla tenera età di tre anni, lo turbava e lo sapevo bene, poiché anche io ero sensibile ad esso.

Continuai.

E se la seconda volta fosse nata una femmina? Anche questo era possibile.

Chi mi avrebbe allora detto che Enrico non fosse troppo vecchio per mettere al mondo un altro figlio?

Anche queste prospettive, che non aveva considerato per timore o per distrazione, cominciarono a farsi largo nella sua mente e l’effetto da esse prodotto comparve nitidamente sul suo volto attraverso un’espressione di paura.

Andai avanti, sfruttando il mio vantaggio.

E poi, se anche tutto fosse andato bene e suo figlio fosse nato, credeva davvero che Riccardo gli avrebbe permesso di vivere abbastanza a lungo da regnare?

Lo vidi sbiancare: avevo colto nel segno.

Con voce tremante mi disse che non l’avrei fatto.

Credeva che non ne avessi il coraggio?

No, non lo avevo, ma dissi lo stesso, con tono vago, che avrei potuto farlo.

Il silenzio scese su noi, poi, improvvisamente, Enrico si mosse dicendo che non lo credeva: mi avrebbe rinchiuso nella mia torre assieme ai miei figli ed avrebbe gettato via la chiave.

Fu il mio turno di non credergli: sarebbe sì stato in grado, come già aveva fatto, di chiudere me in una prigione, ma non i suoi figli.

Sapevo che per lui, come per ogni genitore, non sarebbe stato facile condannare il sangue del proprio sangue a non vedere più la luce.

Lo vidi allontanarsi e gli domandai dove stesse andando.

Mi rispose che si stava recando a Roma, dal papa.

La gelosia.

Di nuovo la perfida ed orribile gelosia che si impadroniva di me.

Non riuscii a domarla, tanto che essa prese il sopravvento sulla mia impeccabile razionalità.

Contro la mia volontà, mi uscirono dalla bocca parole avventate: se non le avessi pronunciate, a quest’ora sarei libera!

Gli gridai dietro che se avesse lasciato l’Inghilterra l’avrebbe perduta per sempre.

Si fermò.

Era troppo tardi per ritirare quanto avevo detto.

Mi domandò cosa intendessi dire ed io risposi che avevo intenzione di appropriarmene con l’aiuto di Riccardo, Giovanni e Goffredo.

Scoppiò a ridere: noi quattro alleati? Non avrebbe funzionato neppure questa volta.

Così la pensava?

Era libero di credere ciò che voleva, ma sarebbe stato così.

Anche questa volta non riuscii a trattenermi e ribadii quanto avevo detto prima: se si fosse allontanato dall’Inghilterra non l’avrebbe più riavuta indietro.

Si richiuse la porta alle spalle e sfoderò un sorriso di trionfo.

Mi morsi un labbro, ma mantenei la mia espressione dignitosa.

Mi rinfacciò il mio errore.

Se non avessi detto nulla, lui sarebbe partito, lasciando il castello nelle mani mie e in quelle dei nostri figli, che avremmo potuto così approfittarne.

Non risposi a tale provocazione, ma mi lasciai cadere su di una sedia.

Non era possibile!

Lo amavo davvero ancora?!

Lo amavo davvero, tanto da rinunciare al potere che avrei potuto acquisire per me e per Riccardo, pur di non perderlo?

Non mi riconoscevo in quell’azione, eppure ero stata proprio io a compierla.

Lo udii sogghignare e gliene chiesi il motivo.

Mi rispose che ero molto cambiata: un tempo avrei fatto qualsiasi cosa per il potere…

Gli dissi allora che tutti cambiano: anche lui era mutato.

Era vero.

Mi ricordavo benissimo la prima volta che lo avevo veduto.

Ero allora la regina di Francia e mio marito era Luigi VII, detto il Giovane.

Eh sì: se gli avessi dato un maschio a quest’ora sarei ancora sua moglie e non avrei mai conosciuto colui che è insieme il mio più grande amore e la mia più grande rovina.

Era il novembre dell’anno 1151: avevo ventinove anni.

Era una giornata piovosa quando, come i fulmini che squarciavano il cielo, Enrico era entrato nella mia vita.

Le porte del castello di Parigi erano state spalancate e lo avevo visto entrare completamente bagnato.

I suoi meravigliosi capelli di un rosso dorato gli si erano appiccicati alla fronte.

I suoi vestiti, molto semplici allora come oggi, erano fradici così come ogni parte del suo corpo.

Teneva però la testa alta ed il suo sguardo era fiero ed affascinante come il suo sorriso.

Sia io che Luigi ci stupimmo vedendo il famigerato duca di Normandia, Enrico il Plantageneto, che tanto aveva fatto penare il nostro esercito per via della sua abilità nell’organizzare geniali tattiche militari e nel manovrare la spada, ridotto in quello stato.

Egli però non aveva badato allo sconcerto dei presenti: avanzando verso il suo re si era inchinato a lui.

Finalmente, dopo anni di dissidi fra Goffredo il Bello, padre di Enrico, e mio marito tutto si era risolto.

Quando si rimise in piedi, mi guardò e mi rivolse un sorriso seducente e malizioso.

Non arrossii né piegai gli occhi: non mi addiceva, ma desiderai solo che quelle mani, che ora stringevano quelle di Luigi in segno di amicizia, si posassero sul mio corpo.

Desideravo che tutto il suo corpo mi appartenesse, volevo che mi facesse sua.

Luigi era un pessimo amante ed io non ero abbastanza virtuosa da passare troppo tempo senza che un uomo mi amasse.

Mi piaceva quel giovane che tanto mi ricordava il suo bellissimo padre, Goffredo.

Ero la donna più bella di tutta la Francia ed ero perciò convinta di piacergli.

Non c’era stato uomo che non avesse lodato, almeno una volta, la mia bellezza e questo giovane duca non avrebbe fatto eccezione.

Rammento molto bene la prima volta che ci amammo: mi fece sua più volte in una sola notte.

Si faceva largo nel mio ventre con una violenza che mi piaceva: Luigi non mi aveva mai amato così.

Il suo corpo ricordava quello di un leone, di una fiera, che nulla aveva a che fare con quello magro, quasi scheletrico, del mio primo marito.

La sua voce mi riscosse dai miei pensieri.

Mi chiedeva se davvero fosse tanto cambiato.

Anche io lo ero e molto, mi disse.

Un tempo ero la donna più bella di Francia ed ora…

Come ci eravamo ridotti?

Cosa ci era accaduto?

Sapevo a cosa si riferiva: me lo chiedevo anche io.

La sua domanda sorse del tutto inaspettata: se mi ricordavo quando ci eravamo conosciuti?

Sì, io mi ricordavo ogni dettaglio: perfino il ricamo sulla sua cintura, e lui cosa rammentava?

Sorrisi: come avrei potuto dimenticarlo? Ricordavo tutto, perfino come era vestito. Glielo dissi.

Mi prese per mano ed io accettai questa sua offerta.

La frase che ne seguì mi colmò il cuore di allegria e di tenerezza.

Mi disse che ero la cosa più bella che avesse mai visto.

Quanto ne seguì, altrettanto, mi riempì l’anima di tristezza e di dolore.

Era accecato dal sole e non riusciva a vedermi.

Questa sottile battuta mi fece male.

Riteneva pertanto di essere stato confuso, abbagliato ed illuso dalla mia bellezza, ma che il mio volto interiore fosse molto diverso…?

Decisi di ironizzare anche io, dicendogli che stava piovendo, anche se ero certa che non se ne fosse dimenticato.

Mi venne da ridere e soggiunsi che non importava.

Queste astuzie, questi inganni, queste sottili ironie, questi sottili giochi erano la nostra specialità.

Ci eravamo sempre affrontati o così oppure distesi su di un letto.

Dicendo questo, ci sedemmo su di un tappeto di pelli, vicino al camino.

L’uno accanto all’altra, come quando eravamo giovani.

Appoggiai d’istinto la testa sopra la sua spalla.

Quella stessa forte spalla alla quale tante volte mi ero appoggiata, per cercare rifugio.

Volsi il mio volto verso il suo e lo guardai.

Fu forse quella l’unica volta che lasciai trasparire, attraverso lo sguardo, le mie emozioni.

Ero sempre stata così brava ad occultarle, ma Enrico ancora una volta era riuscito a costringermi a rivelarmi.

I nostri visi si avvicinavano sempre più l’uno all’altro.

Infine le nostre labbra si unirono e mi parve di ringiovanire.

Per un attimo, un brevissimo istante, mi sentii nuovamente amata.

E quel bacio era così dolce…

Mai le nostre labbra si erano unite così dolcemente, quasi innocentemente.

Mai i nostri baci erano stati innocenti e mai una volta le nostre labbra si erano posate le une sulle altre senza essere ardenti di passioni già consumate.

Del resto ero stata io a volere questo ed ora, solo ora, me ne pentivo.

Non era l’amore carnale quello che dava maggiori soddisfazioni o maggiori emozioni, ma l’amore puro, semplice e dolce, come quello dei bambini.

Fu brevissimo, ma molto più intenso degli altri baci che ci eravamo scambiati durante i nostri impeti di lussuria.

Ritornai ad appoggiare la mia testa sopra la sua spalla e lo udii sospirare.

Feci altrettanto e poi pronunciai, con voce calma e bassa quelle parole che mi alleggerivano il cuore: niente annullamento.

Approvò, con lo stesso tono di voce.

Un sorriso mi increspò labbra e dalla bocca mi uscì una frase inattesa: come avrei potuto vivere senza di lui.

Un attimo di silenzio seguì queste mie parole, poi Enrico, senza mutare intonazione, mi domandò “cosa diavolo volessi dire.”

La risposta era semplice: proprio quello che avevo detto. Cosa avrei fatto se non avessi più potuto torturarlo e rendergli la vita impossibile?

Questo fu ciò che gli dissi, ma la realtà era un’altra.

Quelle parole non avevano bisogno di essere parafrasate: io lo amavo e non avrei potuto vivere senza di lui.

Tutto sembrava essere tornato a dei livelli stabili, quando ripiombò nuovamente nel caos.

Nonostante il nostro matrimonio ormai fallito, eh sì, bisogna ammetterlo, fosse stato “salvato”, ora si riproponeva daccapo il problema della successione al trono d’Inghilterra.

Ognuno di noi era fermo nelle sue posizioni: lui voleva Giovanni sul trono; io Riccardo.

Il tempo dei romanticismi era finito: io avrei dovuto riprendere a svolgere il mio ruolo di regina, nonché spina nel fianco di Enrico.

La nostra lotta psicologica riprese, ma questa volta avevo un vantaggio su mio marito.

Questo vantaggio mi sarebbe anche servito per vedere se egli mi amava ancora, almeno un poco.

Decisi di rispolverare quelle vecchie dicerie che erano girate sul conto mio e di suo padre Goffredo il Bello.

Si era detto che ci eravamo conosciuti carnalmente.

Non era vero, eppure mi piaceva mettere addosso ad Enrico questo dubbio, al fine di farlo ingelosire e per riuscire ad averla vinta.

Quando Enrico tentò nuovamente di intavolare una conversazione sulla successione al trono che avesse come protagonista e vincitore assoluto Giovanni, io decisi di sfruttare il mio unico punto di forza.

Quando parlai di nuovo della mia presunta relazione con suo padre lo osservai molto attentamente.

Si era irrigidito.

Primo punto a mio vantaggio.

Asserì con voce tremante che erano menzogne.

Continuai, maliziosa, a tormentarlo col dubbio.

Stavo guadagnando terreno: dovevo approfittarne.

Lo tempestai di quelle frasi che, sapevo, lo irritavano.

Quando dicevo che fare l’amore con suo padre mi divertiva ed eccitava di più che farlo con lui andava su tutte le furie.

La sua rabbia, lo sapevo bene, era devastante, ma l’avevo affrontata più volte ed ero sempre sopravvissuta: questa volta non sarebbe stato diverso.

Andai avanti per un po’, fino a che, sconfitto si allontanò dalla stanza, con me che ancora gli gridavo dietro che suo padre era molto meglio di lui a letto.

Volevo che soffrisse, che il suo cuore sanguinasse come il mio faceva da oltre dieci anni.

Mi ripresi e mi resi conto di ciò che avevo fatto.

Era chiaro: non sarebbe mai stata possibile una riconciliazione totale fra noi.

Era stato troppo ciò che avevo fatto.

Mi ricordo che era il 1173 ed io avevo organizzato nei minimi dettagli la ribellione che i miei figli avrebbero condotto contro Enrico.

Avevo calcolato tutto e tutto aveva funzionato ma, alla fine, Enrico mi aveva catturato.

Vivevo rinchiusa in una torre da allora.

Non si fidava più di me, né dei suoi stessi figli.

Era chiaro: mai più il nostro rapporto sarebbe tornato quello di un tempo, ma speravo che qualche cosa cambiasse dopo questo Natale.

Quella notte del 25 dicembre 1183, cercai ancora una volta di scatenare i miei figli contro di lui, in modo da poter riprendere il potere e la mia libertà.

Fallii di nuovo.

Non ero riuscita, per l’ennesima volta, a sconfiggerlo.

Era proprio vero: gli angioni sono duri come il ferro, per piegarli è necessario utilizzare il fuoco.

Questa altra mia azione mi costò l’immediato esilio nella mia torre.

Salii sulla barca accettando l’aiuto di Enrico.

Mai scorderò le parole che ci scambiammo ed il sorriso che illuminò i nostri volti prima che ci congedassimo.

Siamo vecchi.

Entrambi siamo invecchiati, nonostante credessimo, in gioventù, di essere immortali ed invincibili.

Ora sono tornata nella mia prigione.

Cosa altro posso fare se non pensare ai bei tempi felici del nostro matrimonio?

Sento che presto il mio amore per il potere potrà essere saziato.

Avverto anche che Riccardo diventerà re: entrambi, lui e Giovanni, sono molto intelligenti, ma Giovanni non sa maneggiare le armi bene come Riccardo, né possiede lo stesso senso pratico.

Se l’Inghilterra fosse finita nelle sue mani, non sarebbe mai rimasta unita.

Tutti i territori che Enrico gli aveva affidato fino ad ora, si erano sgretolati e adesso il mio ultimogenito si trovava senza alcun possedimento; portava soltanto un soprannome che potesse rammentare le sue mediocri prestazioni politiche: Lackland 1.

Riccardo invece, col suo coraggio da leone, avrebbe portato l’Inghilterra a livelli mai raggiunti prima.

Io sarei stata al suo fianco, ma avrei avuto sempre il rimpianto di non aver risolto il mio dissidio con Enrico.

Io ho affrontato dure prove nella mia vita: ho fatto cose che nessuna donna ha mai osato fare.

Mi sono ribellata alle regole, ho lottato, ho vinto, ho perso, ho provato immense gioie così come immensi dolori.

Ho trovato il coraggio di sopportare l’umiliazione e la prigionia, ma non quello di confessare i miei veri sentimenti a mio marito.

Troppo poco ardimento o troppo orgoglio, chi può dirlo?

Fatto sta che morirò senza aver trovato il coraggio di dire ad Enrico le parole più semplici e sublimi del mondo: ti amo.

 

1 Lackland = Senza Terra

  
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