Premetto
di aver cominciato nemmeno una settimana dopo
aver guardato l’ultima puntata della 5° stagione, che
mi ha praticamente
distrutta!
L’ho continuata a scrivere durante tutta l’estate,
ma ancora non è finita
quindi durante il corso della pubblicazione sarà spesso
sottoposta a delle
modifiche, da fan Huddy spero che vi piaccia e che vorrete lasciarmi
dei
commenti!:) Huddy 4ever sempre e comunque;)
Enjoy the reading!
Eppure glielo avevano detto, avrebbe potuto dimenticare tutto, ma
l’obiettivo
sarebbe certamente stato raggiunto, Amber sarebbe scomparsa, per
sempre, morta
e sepolta definitivamente. Non riusciva più a sopportare
altro. Aver speso
talmente tanto tempo in quella clinica, cercando di comprendere come
risolvere
un possibile problema psicologico e concludere con il continuare ad
immaginare
le cose, le persone, delle scene mai avvenute, dei momenti mai
trascorsi,
faceva male. La sua mente si era fin troppo presa gioco di lui.
Adesso il vuoto era disegnato fra i suoi ricordi, l’unica
cosa che non avrebbe
mai potuto dimenticare era la sua scienza, le sue conoscenze.
L’elettroshock
prevedeva questo, la cancellazione totale dell’esperienza
personale lasciando
intatto tutto il resto. Certo non ricordava il proprio nome, il proprio
indirizzo, la data del giorno in cui aveva slacciato il primo reggiseno
ad una
ragazza, ma sarebbe stato ancora in grado di diagnosticare un lupus.
Adesso di quel volto che lo guardava con pietà non ne
riconosceva il minimo
dettaglio, nessun ricordo. Ecco quale fu la pena da scontare per far
riavviare
il suo brillante ingegno, “per ricominciare a
vivere” si era detto quella
mattina.
Era ciò si era ripetuto quella mattina di un+ giorno grigio
di piena estate,
sembrava l’atmosfera perfetta per ricominciare da zero,
magari rinascere una
persona migliore, tutto ciò che aveva voluto ricordare era
stato rigato su un
foglio piegato, che aveva chiesto a Wilson di tenere in tasca con la
promessa
che non l’avrebbe aperto nemmeno se ci fosse morto in quel
dannato ospedale. Le
scosse che irradiarono il suo cervello bruciarono definitivamente
quella grande
scatola di memorie inutili per un uomo la cui cosa più
importante al mondo era
razionalizzare, prendere le circostanze emozionali con i guanti di
gomma,
analizzarle profondamente e concludere con l’abbandono,
perché lì la logica non
sarebbe stata d’aiuto.
Adesso
sedevano vicini, in quella macchina color blu
notte, quell’uomo dall’espressione preoccupata
doveva essere stato un suo
amico, magari qualcuno con cui andava la sera ad ubriacarsi o a parlare
delle
belle donne; chissà che tipo era stato, se era stato un
romantico amante o un
uomo che cercava compagnia a pagamento, chissà se era stato
un dipendente
esemplare o un genio che il capo teneva solo per nobilitare il proprio
ospedale; già il capo, chissà che tipo era il suo
capo, un omone in giacca e
cravatta o una sexy dottoressa in minigonna. E il suo team? Lui era un
prestigioso
diagnosta questo glielo aveva spiegato quel Wilson quando si era
svegliato
l’indomani su un lettino dell’infermeria del
Mayfield. Wilson? Se era suo amico
perché gli aveva dato il cognome? Aveva così
tante domande, ma preferì tacere,
preferiva restare in silenzio, chissà magari anche prima era
stato un uomo di
poche parole.
Arrivarono
a Princenton quando erano già le undici di
sera, quell’oncologo aveva guidato per tutto il pomeriggio
senza mai
lamentarsi, senza pronunciare una parola, eppure aveva avuto la
sensazione che
certe volte stesse per dire qualcosa ma che poi non riuscisse a dare
forma alle
parole quando apriva appena la bocca e sospirava rassegnato, forse non
c’era
nulla da dire a quello sconosciuto di cui il suo migliore amico gli
aveva chiesto
di prendersi cura.
Una strada poco affollata, quattro scalini segnati dal tempo, un
piccolo
portone, altri cinque passi, il rumore di una chiave che si faceva
spazio tra
una serratura arrugginita e una porta scricchiolante lasciarono la
scena ad un
salotto ordinato, un pianoforte su cui lui sembrò ricordare
l’ordine del
premere delle sue dita stanche intonanti una serenata che magari...
-Ho composto delle melodie al piano?- una domanda che non
riuscì realmente a
pensare prima di tramutarla in suono.
-Eri molto bravo- una risposta poco esauriente ma una risposta.
E
poi di nuovo uno sguardo curioso guardava il proprio
appartamento, nessuna foto, nessuna decorazione, non doveva essere una
persona
molto affettuosa, solo tanti libri, una miriade di libri, sette sul
piccolo
comò a destra del divano e una ventina sul tavolo di fronte,
due librerie
riempivano totalmente quella stanza incapace di regalargli emozioni.
D’improvviso
sentì il bisogno di riposare le proprie
gambe, no soltanto la gamba destra, una fitta gli inibì i
sensi, credette di
svenire per un istante quando le ginocchia gli cedettero e si dovette
appoggiare con espressione esausta sulla parete accanto alla porta
d’ingresso,
riuscì a compiere soli pochi passi prima di gettarsi
affaticato sul divano,
cominciò a massaggiare il muscolo della coscia e
cercò nella propria mente una
risposta che chiaramente non avrebbe potuto trovare, così si
limitò a guardare
con aria interrogativa la sagoma dell’oncologo che lo
osservava rattristito
alle sue spalle.
-È la ragione per cui ti trovavi al Mayfield, la dipendenza
dall’antidolorifico
ti ha creato quelle allucinazioni-
“Soffrirò
a vita”, pensò,
ma non fu capace di ripeterlo a
voce alta.
-House, il tuo appartamento è stato pulito e messo in ordine
una settimana fa,
in fondo al corridoio c’è la camera da letto, ti
ordino le valigie e...–
indugiò -dormirò qui stanotte, in caso dovessi
avere bisogno e domani se ti
sentirai pronto possiamo andare al Plainsboro, penso che questo sia il
modo
migliore per cominciare ad adattarti- House si limitò ad
abbassare lo sguardo e
ad annuire, Wilson si allontanò trascinando faticosamente le
due pesanti
valigie.
La
mattina era spenta, una di quelle che sembravano
aver trascinato la luce del sole faticosamente, così per
svegliare House,
Wilson bussò rumorosamente alla porta socchiusa, House si
alzò e senza dire
nulla si vestì, scelse un paio di scarpe da tennis dallo
sgabuzzino che ne era
colmo, anche troppo specie per uno zoppo e mettendosi il cappotto
aspettò
silenziosamente l’amico che beveva il proprio
caffè in cucina.
Saliti
in auto Wilson si decise a parlare, era
sorpreso come un uomo che aveva dimenticato semplicemente tutta la
propria vita
non fosse curioso.
-Devi avere in testa molte domande, chiedimi qualsiasi cosa...-
-Dimmi tutto ciò che mi è necessario ricordare
per adesso-
-Sei nato l’undici giugno del 1959, figlio unico, tuo padre
era un militare,
tua madre una casalinga, lui é morto cinque anni
fa…-
Il
resto dei dieci minuti di viaggio proseguirono
accompagnati dalla voce dell’oncologo, gli parlò
della ragione per cui si
laureò all’università del Michigan
piuttosto che alla Hopkins, accennò di
Stacy, gli disse qualcosa sulla loro particolare amicizia e del suo
pessimo
carattere, e House ascoltava in silenzio sperando di poter ricordare
qualcosa.
Le
porte scorrevole del Plainsboro fecero spazio ai
due amici, che adesso apparivano due perfetti sconosciuti. House si
incuriosì
entrando, un luogo affollato e metà di quei personaggi
mostrarono segni di
riconoscerlo.
Una
tra queste fu colpita da un turbinio di emozioni
inaspettate, rimase impietrita per qualche istante nel rivederlo. Erano
passati
tre lunghi anni durante i quali si era accontentata di una approssimata
descrizione del suo stato da Wilson, perché approfondire poi
l’argomento House
era come approfondire la lama che le aveva lacerato il cuore in tutti
quegli
anni. E adesso se lo ritrovava di nuovo davanti, con quella sua solita
aria
insensibile, ma che lei sapeva nascondeva qualcosa di più
che un semplice uomo
abbandonato all’infelicità. Fu in
quell’istante che Cuddy ricordò la promessa
fatta a Wilson e la difficoltà di mantenerla le
sembrò maggiore.
–Dottor House sono lieta di riaverla qui, sono il decano di
medicina, la
dottoressa Lisa Cuddy- si strinsero le mani come due perfetti
sconosciuti. La
donna si scambiò un veloce sguardo con Wilson. Sembrava
preoccupato o forse
semplicemente stanco, sorvolò in quell’istante di
fronte l’arrivato.
House porse due occhi curiosi verso quel luogo di cui Wilson gli aveva
raccontato
di aver lavorato per anni, e allo stesso modo il suo sguardo fu curioso
di
fronte all’aspetto della dottoressa, il camice bianco era
lungo e nascondeva
gran parte dei contorni del corpo di Cuddy, ma i suoi occhi si persero
comunque
a guardarla, era bella, bellissima.
-Piacere- poi riprese ad ascoltarla, mentre lei gli porgeva un
fascicolo dalla
copertina blu; in quel momento si accorse di tre cuoricini microscopici
grigi
lucenti incastonati in un anello d’oro bianco, che vestiva
l’anulare della mano
sinistra della donna.
-Credo sia necessario che sia ancora il dottor Foreman a gestire il
reparto di
diagnostica, finché lei non riotterrà la licenza
medica. Questa è un vostro
nuovo caso, la sua presenza durante la differenziale è
temporaneamente
ufficiosa- Lui annuì semplicemente mentre Wilson gli
poggiò una mano sulla
spalla invitandolo a proseguire.
Quando
House e Wilson passarono davanti le vetrate
dell’ufficio più grande del diagnosta, Wilson gli
indicò la stanza, attirando
la mente distratta del medico che si guardava intorno come un bambino
smarrito.
Quando
entrambi entrarono, Foreman seduto, che
sorseggiava un tazza di caffè, si alzò, si
avvicinò con passo deciso ai due
medici e strinse la mano a House
–Bentornato- Taub, seduto alla sua sinistra fece lo stesso e,
imbarazzato lo
accolse con un grande sorriso stampato sul volto –Come sta?-
-Bene, grazie- li osservò attentamente, l’uomo dal
grosso naso aveva ancora il
segno della fede al dito, doveva aver divorziato da poco più
di sei mesi, le
borse sotto gli occhi suggerivano che doveva aver passato molte notti
in
bianco, forse in preda ai sensi di colpa si era intanato in uno di quei
motels
a due stelle persi in qualche autostrada nel mezzo del nulla. Foreman
sembrava
un perfetto bastardo menefreghista, l’aria
d’arrogante e l’espressione infelice
suggerirono al suo attento occhio una qualche esperienza complicata che
magari
lo aveva segnato profondamente; aveva un bracciale semplice di oro
bianco al
polso, non era certamente un tipo vanitoso, quindi doveva essere un
oggetto di
affetto personale.
Quando Wilson notò l’attenta analisi di House,
lasciò lo studio con aria
soddisfatta, e appena si richiuse la porta dietro, il cercapersone
suonò.
I
medici rimasero qualche istante in silenzio, loro,
escluso Wilson e Cuddy, erano gli unici ad essere a conoscenza di
ciò accaduto
al diagnosta.
-Io sono il dottor Foreman, specializzato in neurologia, sono a capo
del
reparto di diagnostica-
-Io sono Taub, sono un chirurgo plastico, lavoravamo entrambi per lei-
contento
di aver chiarito che Foreman era stato un suo pari e che presto lo
sarebbe
ridiventato.
-Come
sta?- Cuddy era seduta dietro la propria
scrivania, un’espressione impensierita sul volto.
-È confuso, disorientato, ma le sue conoscenze, lo sai, sono
rimaste intatte…
deve riprendersi, e noi dobbiamo solo aiutarlo a ricordare…-
Cuddy annuì.
-Ma…- Wilson fu quasi incerto se continuare.
-Ma non deve sapere nulla di noi, sarò semplicemente il suo
capo, farò come hai
detto… sempre- sollevò lo sguardo, sembrava
stranamente serena.
Wilson si sbalordì, gli aveva tolto le parole di bocca.
-È giusto… io… l’ho
già ferito abbastanza- Cuddy cercò di apparire il
più
naturale possibile.
-Sei sicura?-
-Sì, Wilson. Io sono sposata… perché
dovrebbe ricordarsi di me?- sospirò,
guardò concentrata i foglietti poggiati sulla scrivania
-scusami, ho del lavoro
da finire- non riusciva a spiegarsi nemmeno lei come era stata capace
di essere
così fredda, distaccata. Come se aver rivisto House non
l’avesse in qualche
modo angosciata. Quello sguardo privo di emozioni nei suoi riguardi
l’avevano
uccisa. Lei non era niente. Non significava niente per lui, e sapere
che
nemmeno tra i suoi ricordi riusciva a trovare spazio, la feriva, la
faceva star
male al solo pensiero, non si aspettava che dopo tanto tempo lui
sarebbe stato
capace di avere ancora un simile effetto su di lei eppure era
così. E poi aver
mentito persino a Wilson, con una certezza che non avrebbe mai potuto
lasciar
spazio ad alcun dubbio. Ma a cosa sarebbe servito dirgli la
verità? Sapeva di
cosa avevano bisogno entrambi già da anni, e sembrava
esserci riuscita fino a
quel momento, dovevano dimenticare.
Erano
passati due mesi ormai da quando House aveva
ripreso a lavorare, e sembrava si stesse adattando bene anche alla vita
in
generale, era diventato autonomo ormai del tutto, aveva dei buoni
rapporti, nei
limiti classici di House chiaramente, con le persone che gli stavano
intorno e
a lavoro, ovviamente, si dimostrava il solito genio, nonostante il
disorientamento naturale che cercava di non far trasparire.
-Tumore al cervello, l’ipotalamo è…-
aveva esordito House, non riusciva a
spiegarsi come fosse possibile avere tali conoscenze mediche ma non
riuscire
nemmeno a ricordare il nome della donna che l’aveva tenuto in
grembo per nove
mesi.
Taub lo interruppe soddisfatto -I sintomi coincidono!- metteva ogni
volta un
pizzico di arroganza quando per l’ennesima volta dava ragione
a House a
dispetto del capo. Da quando House era andato via aveva dovuto prendere
ordini
da Foreman, il che lo irritava particolarmente, non gli era mica
inferiore. E
inoltre il tempo di riuscita nelle diagnosi, da quando anche Thirteen
non c’era
stata più, era ritardato di troppo, perlomeno
però non erano accompagnate da
insulti, umiliazioni e amare verità su loro stessi.
Foreman,
invece, da quando il suo ex capo aveva
rimesso piede al PPTH si sentiva in piena competizione, Cuddy lo aveva
promosso
ma sapeva che presto sarebbe tornato alla propria originale posizione,
infatti
da quando House era tornato tutte le diagnosi dirette al paziente erano
elaborate da lui e il neurologo non poteva che concordare
–Sì, vado a parlare
con Cuddy-
Foreman
bussò cordialmente prima che Cuddy gli facesse
cenno di entrare –Il mio paziente ha bisogno di una biopsia
al cervello- il
medico diede la cartella nelle mani del decano.
-Sospettate cancro?-
-Sì, i risultati li sottoporrò a Wilson-
-Ok- Cuddy richiuse la cartella riconsegnandogliela.
-Foreman aspetta...- Foreman si voltò tenendo la porta
socchiusa –Chi c’è
arrivato?-
-Io- rispose il medico sicuro, prima di scomparire dietro la porta a
vetri.
Cuddy
la sera riceveva regolarmente la chiamata di
Wilson, lui le parlava di House, di come si stesse adattando, di come
si
sorprendeva e gli raccontava fiero di aver raggiunto diagnosi geniali,
e Cuddy
ascoltava soddisfatta, di certo non aveva perso il suo medico migliore.
Per
questo la bugia di Foreman era difficile da digerire, se qualcuno
meritava la
gestione del reparto di diagnostica quello era House e lei non si
sarebbe
lasciata prendere in giro senza vendicarsi.
Infondo non sarebbe stato difficile cambiare le cose per una donna con
la sua
influenza, aveva soltanto bisogno di fare un telefonata per ottenere
ciò che voleva.
L’indomani
mattina Cuddy e Wilson si trovavano davanti
l’ascensore, pronti ad approfittare della gelosia di Taub.
-Taub- Wilson abbassò il capo in segno di saluto... -ho
analizzato i campioni
in laboratorio, si tratta di cancro-
-Arrivo in ufficio e ti porto la cartella del paziente, è
tutto tuo- la sua
espressione rimase seria, un’altra notte insonne, le occhiaie
e il bicchiere di
caffè quasi vuoto non potevano che suggerirlo.
-Sì, Foreman sta facendo un ottimo lavoro... penso che
finché House non si
riprenda, lascerò lui a dirigere il reparto- Cuddy si
rivolse a Wilson, come se
si fosse intromessa nella discussione, escludendo del tutto il chirurgo.
-Ma non stai pensando di promuoverlo definitivamente vero?- Wilson le
si
rivolse sorpreso.
-Wilson la diagnosi è stata di Foreman, House non si
è affatto ripreso! L’idea
di lasciare Foreman a capo del reparto è una
possibilità- sembravano sul punto
di litigare, bravi attori, se lo riconobbero.
Entrarono
tutti e tre nell’ascensore, Taub li guardò
pensieroso, cominciò a picchiare nervosamente il piede
contro il pavimento,
finché non si decise a parlare –L’idea
è stata di House- il piccolo omino
vendicatore aveva agito.
Wilson sorrise soddisfatto, Cuddy divenne furiosa.
Quando raggiunsero il piano di diagnostica la donna con passo lungo e
deciso
entrò nell’ufficio più grande dove
House e Foreman attendevano Taub per
discutere di un nuovo paziente e senza salutare si rivolse ai due
medici
–Dottor House ha riottenuto la licenza, Foreman riprendi la
tua precedente
posizione di sudetto- evidenziò l’ultimo parola
soddisfatta, sentendosi dopo
sorpresa quando quella professionalità, che mai
l’aveva abbandonata, adesso la
lasciava sorridere arrogantemente mentre innervosita abbandonava lo
studio
senza alcuna formalità, che invece le era consona.
Per
Foreman, che rimase di stucco, fu difficile
ingoiare il boccone, e Taub che ancora una volta era rimasto
affascinato dal
fare del suo capo, rivolse uno sguardo appagato al neurologo.
House,
invece, rimase impassibile alla situazione,
Foreman per quanto tentasse di dargli torto alla fine si lasciava
convincere,
in ballo c’erano delle vite umane e non poteva fare di testa
propria solo
perché amava il potere, perciò a House era andata
anche bene così.