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Autore: Mikaeru    03/11/2009    5 recensioni
"Vieni, vieni. Ti faccio vedere una cosa bellissima."
Elizaveta aveva l'espressione di chi ha visto ciò che di più tenero c'è al mondo.
(Shinsei Roma/Chibitalia, accenno Austria/Ungheria.)
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ungheria (Elizabeta Héderváry)
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Vieni, vieni."

Elizaveta chiamò il bambino biondo come si chiama un gatto, con un sussurro soffice e sottile, stando attenta a non spaventarlo, parlando a voce bassa, il giusto per essere ben udita dal piccolo che, apparentemente, guardava le nuvole, seduto sull’erba con aria assente. Lei aveva, nel volto femminile e bellissimo, l'espressione di chi ha appena visto quel che di più tenero c'è al mondo: la curva del suo sorriso si estendeva morbida per metà del suo volto e le guance erano colorate di rosa acquarello.

"Vieni, ti faccio vedere una cosa bellissima."

Il Sacro Romano Impero, tiratosi su con uno scatto veloce, si avvicinò a piccoli passi, un po' intimorito, non capendo cosa l'Ungheria potesse volere da lui, e soprattutto cosa potesse fargli vedere. Rimase a distanza di sicurezza, guardandola fisso negli occhi. Elizaveta ridacchiò, nascondendo educatamente le labbra con la mano: era sorprendente come quel bambino riuscisse ad essere serio come un adulto, e al contempo buffo come una creaturina che pretende di dare l'impressione di un grande.

"Ti fidi di me?"

Elizaveta notò che non aveva mai sentito la voce del piccolo impero: si limitava a piccoli cenni del capo, ad aggrottare le sopracciglia, a farsi minuscolo quando commetteva errori. Pensò che avesse una vocina sottile, da pulcino.

Gli porse la mano, piegandosi verso di lui, rimarcando la fiducia che avrebbe dovuto provare verso di lei. “Non ti faccio niente di male, anzi.”

Gli sorrise nel modo più luminoso possibile, una luce che avrebbe provocato le ire e la gelosia mute di Austria – le sopracciglia avrebbero raggiunto profondità mai toccate prima e la casa sarebbe tremata di una melodia feroce e il cervello dell’uomo sarebbe rimbombate di pensieri scemi e gelosi, e quel pensiero non poteva che renderla felicissima, in realtà. Lei sorrise e il piccolo arrossì. Ecco da chi aveva preso quella dolcezza, avrebbe pensato sul campo di battaglia, più grande e adulto e consapevole, pensando al suo amore.

Sacro Romano Impero teneva ancora chiusa la bocca e gli occhi passarono da quelli di Ungheria alle punte delle sue scarpe lucidissime.

“È una cosa bellissima, ti piacerà.”, mormorò dolce la fanciulla, ora piegandosi del tutto sulle ginocchia per avere il viso all’altezza di quello tutto rosso del piccolo, davvero troppo serio per lasciarsi andare come si conveniva ai bambini della sua età. C’era un’altra creatura, in quella casa, che sarebbe scoppiata di gioia a quelle parole, le si sarebbe aggrappata alla gonna pigolando di voler vedere subito quella cosa bellissima, e un po’ si dispiacque che Sacro Romano Impero non fosse così: ma, in fondo, anche quello era un lato carino, in fondo.

La ragazza, senza il minimo accenno che il suo sorriso si sciogliesse, intrecciò le sue dita lunghe e curatissime a quelle del bambino, sfiorandone il viso coi capelli e provocandogli uno starnuto. Lei rise, e ancora lo incalzò: “Non essere diffidente, non ti mangio mica, sai?”

Lui si catturò il labbro inferiore coi dentini, lo mordicchiò un po’, guardò a destra e a sinistra. Non era nella sua natura disubbidire agli ordini, ma se lo avesse voluto prendere in giro? Non si poteva mai sapere, in fondo.

“C’entra Italia, con la cosa bella che voglio farti vedere.”

Elizaveta era abituata agli uomini, sapeva benissimo come prenderli. Difatti, come pronunciò quel nome, gli occhi dell’impero mutarono completamente, da duri a sciolti, lucidandosi e pregando di poter vedere la sua amata Italia. Non parlò, ma strinse la mano di Ungheria, arrossendo preventivamente.

Erano un paio di giorni che non la vedeva, la sua adoratissima Italia. Era sempre indaffarata, sempre in giro ad usare quello scopettone troppo grande per lei: e quando non lavorava, si rilassava ascoltando le melodie di Roderich, e non se la sentiva assolutamente di disturbare quei suoi momenti privati. Si limitava ad osservarla da lontano, nascosto dietro una colonna, forse sperando che lei volgesse lo sguardo indietro e lo vedesse, e lui si sarebbe accontentato del suo sorriso dolce, ma purtroppo le sue speranze non erano mai state accontentate. Eppure, ora Ungheria lo stava conducendo per i corridoi di quella villa enorme dove ancora accadeva che si perdesse – erano tutti bianchi e tutti uguali, quei muri con mille ritratti appesi, volti che conosceva e altri visi che gli erano totalmente sconosciuti – e c’era un qualcosa di bellissimo che riguardava la sua piccola Italia. Il cuore gli batteva forte e le guance bruciavano e le farfalle gli svolazzavano nello stomaco, si sentiva leggero e pesante allo stesso tempo, come ogni volta che chiudeva gli occhi e quel viso piccolo e quel sorriso minuscolo e imbranato gli apparivano, squarciando il buio delle palpebre abbassate, e lui passava ore e ore con gli occhietti chiusi.

D’un tratto – avevano camminato un minuto? Un’ora? Tutta una giornata? – Elizaveta si fermò. Il sorriso non si era schiodato dal suo viso neppure per un istante, forse solo a pensare come sarebbe stato contento il piccolo impero, a quanto sarebbe stata carina la sua espressione stupefatta e piena d’amore per quel minuscolo e debole staterello così dolce.

“Ecco la cosa bella.”, sussurrò inginocchiata al fianco di Sacro Romano Impero, indicandogli con gli occhi la sua sorpresa.

Il bambino compì qualche passo, poi si fermò, come se fosse una visione troppo importante, troppo sacra per poter essere osservata da troppo vicino.

Italia addormentata su un divanetto, lo scopettone abbandonato per terra – Ungheria immaginò che fosse caduto con un tonfo, mentre Italia si appoggiava tutta lenta di sonno ai cuscini color bianco sporco –, le mani giunte sotto la testa. Il respiro calmo calmo, le labbra dischiuse e i capelli disordinati che gli sfioravano le sopracciglia, gli occhietti chiusi e aperti su chissà quale mondo dei sogni.

Ungheria se ne andò senza rumore alcuno, ancora sorridendo, e si giustificò con un’Austria sorpreso che è una cosa sua, non posso guardare, è privato.

Shinsei Roma, deglutendo e coi pugnetti chiusi, decise di avvicinarsi, che non voleva perdersi alcun particolare. Si avvicinò, allora, a passi lentissimi e il più possibile muti.

Italia, Italia, la mia bella Italia, non poté evitare di mormorare.

Carezzò i capelli al suo piccolo tesoro e continuò a guardare, chiedendosi come potesse essere più bella di qualsiasi cosa esistesse al mondo, più del cielo e delle nuvole, più del Sole e della primavera, più della luce e dell’acqua, più delle favole e dei racconti, più della gioia e della vita stessa. Evitava quasi di respirare, sicuro che avrebbe infastidito il suo sonno. La sua manina tremava quando gli sfiorava la testa, sentendosi miracolato nel poter toccare il suo amore e tutte le parole che voleva pronunciare gli morivano in gola – avrebbe voluto parlare, sussurrare poesie e canti, anche se dormiva sarebbero entrati in lui e lì sarebbero rimasti, forse gli avrebbero provocato tanti bei sogni e l’avrebbero reso felice.

E cosa c’era di più importante al mondo?

  
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