"Vieni, vieni."
Elizaveta chiamò il bambino biondo come si
chiama un gatto, con un sussurro soffice e sottile, stando attenta a non
spaventarlo, parlando a voce bassa, il giusto per essere ben udita dal piccolo
che, apparentemente, guardava le nuvole, seduto sull’erba con aria assente. Lei
aveva, nel volto femminile e bellissimo, l'espressione di chi ha appena visto
quel che di più tenero c'è al mondo: la curva del suo sorriso si estendeva
morbida per metà del suo volto e le guance erano colorate di rosa acquarello.
"Vieni, ti faccio vedere una
cosa bellissima."
Il Sacro Romano Impero, tiratosi su
con uno scatto veloce, si avvicinò a piccoli passi, un po' intimorito, non
capendo cosa l'Ungheria potesse volere da lui, e soprattutto cosa potesse
fargli vedere. Rimase a distanza di sicurezza, guardandola fisso negli occhi. Elizaveta ridacchiò, nascondendo educatamente le labbra con
la mano: era sorprendente come quel bambino riuscisse ad essere serio come un
adulto, e al contempo buffo come una creaturina che
pretende di dare l'impressione di un grande.
"Ti fidi di me?"
Elizaveta notò che non aveva mai sentito la
voce del piccolo impero: si limitava a piccoli cenni del capo, ad aggrottare le
sopracciglia, a farsi minuscolo quando commetteva errori. Pensò che avesse una
vocina sottile, da pulcino.
Gli porse la mano, piegandosi verso
di lui, rimarcando la fiducia che avrebbe dovuto provare verso di lei. “Non ti
faccio niente di male, anzi.”
Gli sorrise nel modo più luminoso
possibile, una luce che avrebbe provocato le ire e la gelosia mute di Austria –
le sopracciglia avrebbero raggiunto profondità mai toccate prima e la casa
sarebbe tremata di una melodia feroce e il cervello dell’uomo sarebbe
rimbombate di pensieri scemi e gelosi, e quel pensiero non poteva che renderla
felicissima, in realtà. Lei sorrise e il piccolo arrossì. Ecco da chi aveva preso quella dolcezza, avrebbe pensato sul campo
di battaglia, più grande e adulto e consapevole,
pensando al suo amore.
Sacro Romano Impero teneva ancora
chiusa la bocca e gli occhi passarono da quelli di Ungheria alle punte delle
sue scarpe lucidissime.
“È una cosa bellissima, ti piacerà.”,
mormorò dolce la fanciulla, ora piegandosi del tutto sulle ginocchia per avere
il viso all’altezza di quello tutto rosso del piccolo, davvero troppo serio per
lasciarsi andare come si conveniva ai bambini della sua età. C’era un’altra
creatura, in quella casa, che sarebbe scoppiata di gioia a quelle parole, le si
sarebbe aggrappata alla gonna pigolando di voler vedere subito quella cosa
bellissima, e un po’ si dispiacque che Sacro Romano Impero non fosse così: ma,
in fondo, anche quello era un lato carino, in fondo.
La ragazza, senza il minimo accenno
che il suo sorriso si sciogliesse, intrecciò le sue dita lunghe e curatissime a
quelle del bambino, sfiorandone il viso coi capelli e provocandogli uno
starnuto. Lei rise, e ancora lo incalzò: “Non essere diffidente, non ti mangio
mica, sai?”
Lui si catturò il labbro inferiore
coi dentini, lo mordicchiò un po’, guardò a destra e a sinistra. Non era nella
sua natura disubbidire agli ordini, ma se lo avesse voluto prendere in giro?
Non si poteva mai sapere, in fondo.
“C’entra Italia, con la cosa bella
che voglio farti vedere.”
Elizaveta era abituata agli uomini, sapeva
benissimo come prenderli. Difatti, come pronunciò quel nome, gli occhi dell’impero
mutarono completamente, da duri a sciolti, lucidandosi e pregando di poter
vedere la sua amata Italia. Non parlò, ma strinse la mano di Ungheria,
arrossendo preventivamente.
Erano un paio di giorni che non la
vedeva, la sua adoratissima Italia. Era sempre
indaffarata, sempre in giro ad usare quello scopettone troppo grande per lei: e
quando non lavorava, si rilassava ascoltando le melodie di Roderich,
e non se la sentiva assolutamente di disturbare quei suoi momenti privati. Si limitava
ad osservarla da lontano, nascosto dietro una colonna, forse sperando che lei
volgesse lo sguardo indietro e lo vedesse, e lui si sarebbe accontentato del
suo sorriso dolce, ma purtroppo le sue speranze non erano mai state
accontentate. Eppure, ora Ungheria lo stava conducendo per i corridoi di quella
villa enorme dove ancora accadeva che si perdesse – erano tutti bianchi e tutti
uguali, quei muri con mille ritratti appesi, volti che conosceva e altri visi
che gli erano totalmente sconosciuti – e c’era un qualcosa di bellissimo che
riguardava la sua piccola Italia. Il cuore gli batteva forte e le guance
bruciavano e le farfalle gli svolazzavano nello stomaco, si sentiva leggero e
pesante allo stesso tempo, come ogni volta che chiudeva gli occhi e quel viso
piccolo e quel sorriso minuscolo e imbranato gli apparivano, squarciando il
buio delle palpebre abbassate, e lui passava ore e ore con gli occhietti
chiusi.
D’un tratto – avevano camminato un
minuto? Un’ora? Tutta una giornata? – Elizaveta si
fermò. Il sorriso non si era schiodato dal suo viso neppure per un istante,
forse solo a pensare come sarebbe stato contento il piccolo impero, a quanto
sarebbe stata carina la sua espressione stupefatta e piena d’amore per quel
minuscolo e debole staterello così dolce.
“Ecco la cosa bella.”, sussurrò
inginocchiata al fianco di Sacro Romano Impero, indicandogli con gli occhi la
sua sorpresa.
Il bambino compì qualche passo, poi
si fermò, come se fosse una visione troppo importante, troppo sacra per poter
essere osservata da troppo vicino.
Italia addormentata su un divanetto,
lo scopettone abbandonato per terra – Ungheria immaginò che fosse caduto con un
tonfo, mentre Italia si appoggiava tutta lenta di sonno ai cuscini color bianco
sporco –, le mani giunte sotto la testa. Il respiro calmo calmo,
le labbra dischiuse e i capelli disordinati che gli sfioravano le sopracciglia,
gli occhietti chiusi e aperti su chissà quale mondo dei sogni.
Ungheria se ne andò senza rumore
alcuno, ancora sorridendo, e si giustificò con un’Austria sorpreso che è una cosa sua, non posso guardare, è
privato.
Shinsei Roma, deglutendo e coi pugnetti chiusi, decise di avvicinarsi, che non voleva
perdersi alcun particolare. Si avvicinò, allora, a passi lentissimi e il più
possibile muti.
Italia, Italia, la mia bella Italia, non poté evitare di mormorare.
Carezzò i capelli al suo piccolo
tesoro e continuò a guardare, chiedendosi come potesse essere più bella di
qualsiasi cosa esistesse al mondo, più del cielo e delle nuvole, più del Sole e
della primavera, più della luce e dell’acqua, più delle favole e dei racconti,
più della gioia e della vita stessa. Evitava quasi di respirare, sicuro che
avrebbe infastidito il suo sonno. La sua manina tremava quando gli sfiorava la
testa, sentendosi miracolato nel poter toccare il suo amore e tutte le parole
che voleva pronunciare gli morivano in gola – avrebbe voluto parlare,
sussurrare poesie e canti, anche se dormiva sarebbero entrati in lui e lì
sarebbero rimasti, forse gli avrebbero provocato tanti bei sogni e l’avrebbero
reso felice.
E cosa c’era di più importante al
mondo?