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Autore: Kimberly Anne    21/11/2009    6 recensioni
Ma fu allora che le vidi: due gambe velate da un collant nero, coperte fin neanche alle ginocchia da una minigonna scozzese plissettata. Un’All Star bianca a collo alto strofinava la punta contro la caviglia della sua compagna nera, e a me venne spontaneo chiedermi se quel gioco di colori fosse voluto o se la ragazza avesse semplicemente perso una scarpa. (Un attimo dopo mi diedi dell’idiota. Se una ragazza perde una scarpa, è molto più probabile che ne compri un paio nuovo.)
Un barlume di speranza si accese nel mio cuore. In quel paese di jeans e scarponcini da trekking, avevo trovato una minigonna.

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Ho scritto questa fic come compito delle vacanze xD
Mi è fruttato un 8 pieno, quindi credo sia almeno leggibile ^^"
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«...sssììì, e poi lei gli ha detto: “Se sono i soldi che vuoi, tieniteli, ma non provare a portarmi via il mio Chihuahua”!»

Mia madre rise sguaiatamente, quasi rischiando di soffocarsi con la gomma da masticare che aveva in bocca, e il volume del cellulare era così alto che potei sentire distintamente la sua amica che la imitava dall’altra parte della cornetta.

Dall’altra parte del mondo, in un certo senso. Almeno per me.

Dal mio punto di vista, in quel momento, qualunque città più o meno civilizzata si trovava dall’altra parte del mondo.

Mentre lo pensavo, fissai con ostilità le cime innevate che si ergevano chissà quante migliaia di metri sopra di me. Che ci facevo lì? Come avevo potuto cedere alle richieste di mia madre (“Non passiamo mai del tempo insieme, avanti... ”), pur sapendo che era la persona più irresponsabile del mondo quando si trattava di badare ai suoi figli?

Ma ormai ero in questo paesino sperduto in mezzo alle montagne, praticamente abbandonato a me stesso mentre mia madre passava le giornate al telefono, al centro benessere dell’albergo o a fare shopping.

In quel momento era impegnata nella terza attività, e ovviamente mi aveva portato dietro così che tenessi le borse al posto suo e lei non rischiasse di rompersi un’unghia (non sia mai, erano fresche di manicure!).

L’improvvisa interruzione del chiacchiericcio di mia madre (che avvenne esattamente in contemporanea con lo scatto del cellulare che si chiudeva, cosa che ho sempre trovato piuttosto inquietante) mi distolse dai miei pensieri.

«Indovina» mi disse, esibendo un perfetto sorriso a trentadue denti e mollandomi in mano la borsa degli acquisti appena fatti «La commessa ha detto che in piazza c’è il mercatino dell’artigianato. Non è stupeeendo? Andiamo a dare un’occhiata, scommetto che ci sono un sacco di oggettini deliziosi!».

Ma quando aveva parlato con la commessa (e, soprattutto, come aveva fatto a capire quello che le aveva detto), se era stata al telefono fino a un secondo prima?

«Certo, “deliziosi”...» sbuffai, ma tanto lei aveva già smesso di prestarmi attenzione e aveva nuovamente aperto il cellulare, digitato il numero a otto cifre che doveva chiamare, sputato a terra la gomma da masticare e tirato fuori il pacchetto per metterne in bocca un’altra (giusto per essere sicura di non poter essere distinta dai ruminanti che ora stavano nei pascoli, due o trecento metri più in alto). Il tutto in meno di dieci secondi. Mia madre era una delle poche persone in grado di spaventarmi, sul serio.

Trascinandomi dietro qualcosa come cinque chili di borse, la seguii di malavoglia fino al mercato, che scoprii essere stato allestito tutt’intorno alla piccola chiesa nella piazza centrale del paese. Bah, chiamarlo “paese” era un complimento. Una sottospecie di insieme di case messe una in fila all’altra, un paio di alberghi e qualche negozio per i turisti, ecco cos’era. Già il fatto che ci fosse anche una chiesa sembrava un extra, quasi qualcosa di decorativo piuttosto che utile.

Ma la cosa che meno riuscivo a spiegarmi di quel posto era il comportamento della gente. Sia i turisti che i paesani, tutti, sembravano perennemente felici di essere dov’erano, sempre pronti a salire qualche montagna, muniti dei loro begli scarponcini da trekking e tenute sportive di vario genere. Ma le vacanze non erano fatte per rilassarsi, un tempo? E se era ancora così, perché questa gente sembrava non accorgersene?

«Tesoro, dimmi, ma non sono adoraaabili queste tazzine?» mi chiese mia madre l’oca giuliva, che non smetteva di saltellare da una bancarella all’altra, incurante della folla di passanti che finiva per travolgere nella sua iperattività (perché, strano ma vero, in questo buco di paese – pardon: sottospecie di insieme di... ok, ok, avete capito – riusciva addirittura a radunarsi una piccola folla, se li si metteva tutti quanti pigiati nell’area del mercato).

«Sì, sì, “adoraaabili”». Chissà, magari sbatterle a terra e mandarle in frantumi avrebbe giovato al mio umore, come dicono certi psicologi.

«E quello, quello non sarà pane fatto in casa, vero?» Ehm... credo che si possa trovare in qualsiasi panetteria... «Mi sembra di aver sentito che il pane di montagna è stuuupendo!» Ovvio, è noto a tutti che il pane dei montanari sia il migliore... quando vuoi costruirti una casa bella solida. «Vado a prenderne un po’, tu aspetta pure qui, che sei carico di borse». Oh, che gesto gentile, mamma. Peccato che apprezzerei di più che mi dessi una mano, anziché compatirmi e concedermi una piccola grazia.

E ancor più peccato fu che, schizzando verso la bancarella del pane, mamma urtò un passante innocente ma massiccio, il quale a sua volta urtò me, che finii per perdere l’equilibrio per colpa delle borse e cadere a terra come un salame.

 

Ma fu allora che le vidi: due gambe velate da un collant nero, coperte fin neanche alle ginocchia da una minigonna scozzese plissettata. Un’All Star bianca a collo alto strofinava la punta contro la caviglia della sua compagna nera, e a me venne spontaneo chiedermi se quel gioco di colori fosse voluto o se la ragazza avesse semplicemente perso una scarpa. (Un attimo dopo mi diedi dell’idiota. Se una ragazza perde una scarpa, è molto più probabile che ne compri un paio nuovo.)

Un barlume di speranza si accese nel mio cuore. In quel paese di jeans e scarponcini da trekking, avevo trovato una minigonna.

Forse la mia estate non sarebbe andata sprecata, dopo tutto.

«Scusa, ragazzo, tutto bene?» mi chiese il tipo con cui mi ero appena scontrato, ma io lo liquidai annuendo velocemente, senza nemmeno guardarlo. Ancora per terra a quattro zampe, ero troppo impegnato a determinare la distanza tra me e Minigonna per prestare attenzione a chicchessia. Non potevo perderla di vista mentre pensavo a cosa fare, e quel marasma di gente che le passava davanti era decisamente un ostacolo.

Un attimo dopo, constatai con orrore che aveva terminato di guardare la bancarella che aveva di fronte e aveva ripreso a muoversi. Nella mia testa, fu il panico.

Che fare, che fare? Non ne avevo idea, ma c’era una sola cosa chiara: di farmela sfuggire in quel modo non se ne parlava proprio.

Così, guidato più dall’istinto che dalla ragione, la seguii.

O meglio, non seguii lei. Non essendo riuscito a identificarla una volta alzatomi in piedi, tutto quello che feci fu affrettarmi nella direzione in cui l’avevo vista dirigersi, senza la più pallida idea di dove stessi andando. Il mio sguardo correva ovunque, su ogni singolo passante, ma di Minigonna nemmeno l’ombra.

Dannazione, l’avevo perduta.

Demoralizzato, mi feci strada tra la folla per uscire dall’area del mercato a cercare un po’ d’aria. Le borse pesavano un sacco e mi sentivo come se tutte e dieci le dita mi si stessero per staccare, così le mollai a terra e mi sedetti sul bordo del marciapiede, chiedendomi cosa ci fosse che non andava nella mia vita. Perché doveva esserci qualcosa, chessò, un ingranaggio che era stato montato nel senso sbagliato, che mi faceva fallire sempre e comunque.

Mi stavo lentamente crogiolando nella mia autocommiserazione, lo sguardo cupo e fisso sulla strada (chiunque mi avesse visto in quel momento avrebbe pensato che avessi qualche serio motivo per avercela a morte con l’asfalto), quando una figura esile dall’altra parte della strada colse la mia attenzione.

Ci misi meno di un secondo a riconoscere quelle All Star spaiate, ma me ne ci vollero almeno dieci per superare lo stordimento che quell’immagine mi aveva provocato.

Credevo di averla perduta, e invece era soltanto entrata in un negozio. Forse, alla fin fine, quel giorno erano stati messi a posto un paio di ingranaggi, perché stavo avendo una fortuna sfacciata.

Peccato che in quegli attimi di esitazione stessi rischiando di buttare al vento tutta quella fortuna: Minigonna (che ora vedevo in tutto il suo splendore, i capelli lunghi e biondi leggermente scompigliati dal vento) si stava infatti dirigendo verso un viottolo laterale, dove avrei avuto ben poche probabilità di ritrovarla, se non mi fossi mosso subito.

«Tesooooroo...» mi raggiunse la voce cantilenante di mia madre, qualche metro indietro «Ti avevo detto di aspettarmi lì, ma dov’eri finito?».

Il cuore prese a battermi forte nel petto, nel momento in cui presi una delle decisioni più assurde della mia vita.

Era questione di prendere o lasciare. E un’estate a fare da balia a mia madre,  rimpiangendo amaramente questo momento, non era una prospettiva invitante.

Mi alzai in piedi e senza voltarmi corsi verso l’altro lato della strada, lasciando mamma e le sue borse al loro destino. Ovviamente non mi avrebbe seguito: non se lo sognava neanche di correre coi tacchi da dodici. Sentii solo i suoi strilli di protesta, mentre mi infilavo nel vicolo che Minigonna aveva imboccato un attimo prima, ma mi importava talmente poco che a malapena afferrai un paio di parole.

Purtroppo per me (insomma, la fortuna voleva decidersi a girare in un solo senso o era ubriaca?), si trattava di un viottolo davvero corto, e quando ci arrivai feci appena in tempo a scorgere un’All Star bianca che voltava l’angolo. Raggiunsi la svolta e lì mi fermai, appoggiandomi contro al muro e sbirciando la strada per non perdere di vista Minigonna. Il cuore batteva tanto forte da pulsarmi nelle orecchie e la sensazione che mi dava l’aver finalmente disubbidito a mia madre era stupenda, ma non mi ci volle molto per rendermi conto che non avevo assolutamente idea di ciò che avrei fatto adesso.

Insomma, che potevo fare, andare da lei di punto in bianco, presentarmi e chiederle se le andava di passare con me le vacanze in questo paesino sperduto? Oh, sì, grande idea: così l’avrei vista scappare a gambe levate dopo un nanosecondo.

Stabilii quindi di rimandare la decisione ancora per un po’, e scelsi di seguirla fino a che non si fosse presentata l’occasione giusta per fare conoscenza. Oh, mi dissi ancora, questa era davvero un’idea stupenda. Magari avrebbe fatto cadere una monetina e io, con molta galanteria, gliel’avrei raccolta, cogliendo anche l’occasione per fare amicizia con lei. Sì, come no.

La via che avevamo imboccato era praticamente deserta: probabilmente la maggior parte delle persone sia era radunata in piazza per il grande evento del mercato.

Ma ciò che mi chiedevo era: allora dove stava andando Minigonna, tutta da sola?

Certo, non che fossero affari miei, dopo tutto. Chi ero io? Un semplice passante. Dove andasse Minigonna e cosa facesse erano affari suoi, o forse giusto dei suoi genitori, i suoi amici, il suo ragazzo...

Il cuore mi si fermò in gola. Oddio. Probabilmente aveva un ragazzo. Ma che dico, probabilmente, sicuramente aveva un ragazzo. Era talmente bella, aggraziata, e avrei potuto giurare che fosse anche intelligente. Non capivo come avessi fatto a non pensarci prima, e ripresi a deprimermi, distogliendo lo sguardo da Minigonna per fissarlo sui miei piedi.

Ma che avevo pensato? Che fosse tutto come nei film? Vedi una persona, per caso ti senti attratto irresistibilmente da lei, per caso la incontri di nuovo e, puff, per sempre felici e contenti? Ma cosa avevo in testa, criceti drogati?

Avrei fatto meglio a lasciar perdere e tornare indietro, chiedere scusa a mia madre e cercare di sopravvivere alla vacanza. Sì, di sicuro.

Tlink, trrrrrl...

Vidi una monetina da venti centesimi entrare rotolando nel mio campo visivo e andare a sbattere contro la mia scarpa. Con un sospiro dimesso mi accovacciai e la raccolsi, per poi rigirarla tra indice e medio, ancora pensoso.

Poi mi accorsi dei due stupendi occhi azzurri che mi stavano fissando. Alzai lo sguardo.

«Ah, ecco... quella sarebbe mia» disse Minigonna, con un sorriso imbarazzato.

Incredulo, lentamente mi rimisi in piedi. Era impossibile. Assolutamente impossibile.

Le porsi la moneta, ma quando fece per prenderla io non la lasciai. Era talmente assurdo... che cosa avevo fatto per meritare tanta fortuna sfacciata? Probabilmente stavo solo sognando, e mi sarei risvegliato poco dopo nel mio letto, con in bocca il sapore amaro della delusione.

Minigonna mi rivolse uno sguardo stupito. Dovevo sembrare davvero molto strano in quel momento. Forse peggio di un drogato.

«Io... » dopo un ultimo attimo di incertezza mista a stupore, non potei fare a meno di sorridere «Credo di aver appena abbandonato mia madre in mezzo a un marciapiede assieme a una decina di borse piene di acquisti, per venirti dietro»

Stranamente, Minigonna non urlò, né scappò via, né tantomeno mollò la presa sui venti centesimi. Probabilmente pensava a una qualche specie di scherzo, perché in fondo io sembravo un tipo piuttosto normale, a dispetto dello squilibrato che avevo appena scoperto di essere.

Il suo sguardo si faceva sempre più incredulo ogni secondo che passava e probabilmente si aspettava che continuassi, ma io non dissi altro. Avevo solo un’espressione piuttosto stupida sulla faccia.

Poi, dopo almeno un minuto di silenzio passato a fissarci, lei scoppiò a ridere. Letteralmente. Era una risata così dolce e cristallina che lì per lì desiderai che non si fermasse più, ma dopo qualche secondo si riprese. «Credo... credo che questa sia la cosa più carina che mi sia mai stata detta» sorrise, un po’ affannata. «Quindi, se vuoi, possiamo giocarcela a testa o croce».

“Giocarci cosa?” avrei voluto chiedere, ma mi trattenni per un soffio.

«Con questa?» chiesi invece, accennando alla moneta che ancora entrambi stringevamo.

«Con questa»

«Ok. Allora testa»

«Non sarebbe di regola far scegliere alle signore?»

«Signore? Non vedo signore, qui»

Rise ancora. «Va bene. Per stavolta allora è croce».

Mi lasciò l’onore di lanciare la moneta.

E se fu testa oppure croce... dovreste già averlo capito.

 

Memo: ricordarmi di ringraziare il tecnico riparatore degli ingranaggi del Destino.

 

   
 
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