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Autore: imtheonekeepingyoualive    05/12/2009    5 recensioni
- Tutti voi avete una storia da raccontare, una storia interessante e vera. – Continuò. – Anche io ne ho una. –
*Riproposta*
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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la vita in un circo1
Non scrivo a scopo di lucro, non conosco le persone qui citate, non intendo dare loro caratteri veritieri e blablabla :D

The Circus


“Venghino, Siori!

 Entrate nel nostro circo!
Abbiamo il mangiafuoco, la donna barbuta e la donna cannone, i trapezisti e i domatori di leoni, i clown e le ballerine equestri…
Venghino, Siori, venghino…”


La voce del proprietario andava scemando, segno che era riuscito ad attirare l’ attenzione della gente.
Guardò verso il cielo e notò che era cupo, come se fosse carico di acqua e pronto a lasciarla cadere.
Riprese la pala che teneva in mano e si riavvicinò ai cavalli, intenti a mangiare dalle loro sacche.
Continuò a spalare a terra, dopo la pausa che si era preso pochi secondi prima.
La carriola posizionata pochi passi più in là era quasi piena, rischiando di strabordare. Mise l’ ultima vangata all’ interno ed appoggiò l’ attrezzo al legno dell’ alloggio dei cavalli, per poi afferrare le due maniglie gialle di plastica e alzò il mezzo verso l’ alto, staccandolo da terra.
Camminò in avanti, per raggiungere la montagnola formata proprio da lui durante la mattinata passata a sgobbare e a togliere il letame da terra.
Era un lavoro ingrato, faticoso e per nulla remunerativo, ma gli andava bene.
Gli andava bene un circo itinerante, il tempo massimo passato in ogni posto, era di una settimana.
Poi si rimettevano in viaggio, verso una nuova meta e un nuovo paesaggio.
Si terse la fronte madida di sudore, sospirando stanco. Erano notti che non riusciva a dormire decentemente, erano notti che i ricordi gli tornavano ad urlare nel cervello, senza fargli chiudere occhio, facendo sì che ogni giorno fosse sempre più stanco, pallido e tirato del precedente.
Decise di tornare dagli animali, perché non poteva permettersi di fare il lavativo, se non voleva ritrovarsi a tarda sera ad essere ancora all’ esterno a pulirli.
Si ripetè che gli andava bene così, che se l’ era scelto lui quel lavoro, che era meglio così per tutti.
Si disse che era meglio faticare tanto, per non avere la mente piena di lui. Finchè si teneva impegnato, il suo viso non gli balenava davanti agli occhi, facendogli sfuggire di mano quello che stringeva; finchè i rumori che lo circondavano erano così vicini, la sua risata non tornava a solleticargli le orecchie facendolo rabbrividire…
L’ ultima volta che aveva ricordato com’ era, aveva rischiato di tagliarsi col coltello da cucina che stava usando per affettare i pomodori.
Fortunatamente l’ unico liquido rosso sul tagliere era il succo della verdura e non il suo sangue, ma aveva temuto di aumentare la sua collezione di cicatrici.
Una mano si alzò prontamente per andare a sfiorare quello sfregio presente sulla guancia sinistra, come un monito perpetuo che gli portava alla mente quel tragico giorno lungo quella maledetta strada.
Quella lunga linea sul viso non era l’ unica cicatrice che aveva. Un’ altra riposava sotto il tessuto leggero della maglietta rossa che indossava, all’ altezza dello stomaco.
Ma quella più grave e profonda non era visibile, nemmeno dopo aver tolto tutti i vestiti. Quella che gli faceva ancora male era nel suo cuore, quella che ancora non si era rimarginata e che, forse, mai l’ avrebbe fatto.
Quasi si spaventò quando l’ uomo nerboruto uscì dal tendone e lo raggiunse, col suo solito sguardo arcigno.
Evitò di rivolgergli la parola e abbassò lo sguardo a terra, prendendo a smuovere la sabbia ai suoi piedi, a disagio. Odiava quel modo così antipatico che aveva quell’ uomo, ogni volta che si ritrovava a dividere lo spazio con lui, si ritrovava a pensare che girargli le spalle e iniziare a correre non sarebbe stato poi così male.
Probabilmente se l’ avesse davvero fatto, si sarebbe ritrovato spiaccicato da qualche parte appena fosse ritornato.
Non che ci tenesse particolarmente a provare.
Aspettò che l’ altro prendesse i cavalli e li portasse con se all’ interno, per poi lasciarsi andare ad un sospiro sollevato.
Mollò la presa sulla vanga che cadde a terra con un rumore sordo.
Adesso non aveva nemmeno il lavoro da fare, maledizione.

**

La Donna Cannone era diventata la sua migliore amica.
Si chiamava Charlotte e fu la prima a parlargli quando arrivò nella compagnia come tuttofare.
Gli raccontò che era sempre stata emarginata per via del suo peso, che nessuno capiva come stesse, che aveva iniziato ad isolarsi e a non voler avere rapporti con nessuno, proprio come stava facendo lui in quel momento.
All’ inizio, si rese conto, era stato scontante e anche un pochino cafone, ma col passare dei giorni, Charlotte divenne una presenza importante nelle sue giornate e nella sua vita.
Era un po’ come una mamma che non lo giudicava, ma si limitava a stargli vicino. Non si era mai azzardata a chiedergli nulla, aspettava che fosse lui a confidarsi, che decidesse cosa condividere con lei e cosa invece tenere per sé.
Non gli aveva chiesto del perché aveva così tante cicatrici, del perché la notte si svegliasse urlando e madido di sudore, senza più riuscire a chiudere occhio.
Certamente lo sapeva, tutti lì al circo lo sapevano, ma erano abituati a tenere la bocca chiusa.
Quindi aveva continuato a fare finta di nulla, a sorridere con Charlotte e a dividere fette di torta con lei, mentre ascoltava di quando era più giovane ed il suo unico amore le aveva chiesto di fuggire assieme.
O di quando gli aveva raccontato di Carlos, il mangiafuoco, che aveva partecipato ad una guerra nel suo paese e aveva perso la vista da un occhio.
Janine, la ballerina equestre con i capelli biondi, e Monique, quella con i capelli rossi, erano scappate dall’ orfanotrofio dove avevano vissuto fino agli 11 anni, quando avevano trovato il cancello aperto e la via libera davanti ai loro piedi.
Aveva scoperto che il proprietario, Louis, veniva da una brutta storia con una donna. Da quanto Charlotte gli aveva raccontato, si era sposato giovanissimo con una ragazza del suo paese, Louis diceva sempre che era splendida, e che avevano vissuto assieme per pochi anni.
Quando il padre della sposa li aveva trovati, dopo che erano fuggiti assieme, l’ aveva portata via mentre aspettava il loro primo figlio.
Aveva scoperto poi che era morta nel dare alla luce il piccolo, e non sapeva dove fosse il bambino.
Sperava in un miracolo, avrebbe confidato in una sera di pioggia, quando tutti erano riuniti nella grande rulotte mentre le birre finivano e le parole uscivano più fluentemente dalle labbra.
Disse che sognava che, durante uno dei loro spettacoli, un bimbo somigliante a lei (perché era sicuro che avesse ereditato la sua bellezza) varcasse la soglia del pesante tendone e si sedesse su una panchina di legno consumato, per assistere ai meravigliosi giochi. Dopo l’ avrebbe preso e portato con se, il suo piccolo bambino.
Fin’ ora non era mai successo, ma continuava lo stesso a passare in rassegna tutti i piccoli spettatori con i capelli biondi e gli occhioni nocciola.
Charlotte diceva spesso che Louis non avrebbe vissuto a lungo senza quella speranza in cuor suo, anzi si sarebbe spento di notte, magari sognando proprio di loro, sua moglie e il loro bambino, nel silenzio del buio e nella solitudine del suo letto.

**

Poco a poco era riuscito ad ambientarsi, anche se i rapporti erano un po’ freddi da parte di qualcuno.
Non poteva lamentarsi, convenne, e non intendeva farlo, perché aveva passato momenti peggiori.
E quando, quella stessa sera, la solita rulotte venne riempita da tutti loro, desiderosi di passare una serata fiacca in compagnia, decise che forse era il suo turno di raccontare il perché aveva deciso di andare con loro.
Aveva capito che tutti erano fuggiti da situazioni insostenibili, da vite tristi e disperate e da persone cattive.
Quindi poteva dire a tutti, tutti i suoi compagni, del perché aveva deciso che quella vita dura ma al contempo bizzarra e colorata, era meglio di quello che si era lasciato alle spalle.
Si riempì il bicchiere dello scadente vino rosso che Roberto aveva portato e si sedette pensieroso accanto a Charlotte.
La donna sembrò notare il suo stato d’ animo, perché le sue occhiate erano insistenti ma discrete.
- Sapete? – Proruppe, all’ improvviso, facendo zittire tutti all’ istante.
Tenne gli occhi incollati alla sfumatura purpurea del liquido tra le sue dita e lasciò che la mente si aprisse, come una diga spezzata da un fiume troppo pieno.
- Tutti voi avete una storia da raccontare, una storia interessante e vera. – Continuò. – Anche io ne ho una. –
Percepì lo spostamento dell’ uomo nerboruto e capì che era andato a sedersi poco lontano.
Gli occhi di tutti erano incollati su di sé e ciò lo metteva a disagio, poco abituato a tanta attenzione.
Si fece coraggio ed iniziò a narrare.
- Una volta stavo con una persona. – Disse, con tono di voce grave e triste. – Eravamo felici, sembrava che la vita fosse fatta per essere vissuta e niente avrebbe mai potuto cambiarla. –
Prese un sorso di vino, giusto per non finire in lacrime dopo appena due parole.
- Si chiamava Frank, ed era bellissimo. –
Si appoggiò allo schienale della sedia, senza mai alzare lo sguardo.
- Mi ricordo ancora i suoi capelli, lunghi e arruffati. Ogni volta che ci infilavo le dita in mezzo, mi impigliavo in un sacco di nodi. Finivo sempre col farlo urlare e fargli venire le lacrime agli occhi. Eppure era più forte di me, sembravano fatti apposta per essere toccati. – Ridacchiò, con piccole gocce salate che andavano a fermarsi propri negli angoli degli occhi. – Aveva grandi occhi scuri ed era alto come un Puffo. La sua pelle era un intrico di disegni e parole in inchiostro nero. - Si grattò la testa, respingendo la voglia di lasciare andare le lacrime.
- Sembrava un bambino birichino, aveva un viso d’ angelo, ma era decisamente il contrario. Mi ha fatto passare guai con tutti, si divertiva a farmi superare i limiti di velocità dove non era consentito, a farmi fare cose a cui non avrei mai pensato… Come quando mi ha convinto a vivere assieme. Sembravamo la famiglia di Happy Days, ma più moderni. –
Si coprì il viso con una mano, prendendo tempo.
Sentì il tocco caldo della mano di Charlotte sulla sua spalla, confortandolo.
- Poi, una notte come questa, quando la pioggia è così fitta che non riesci nemmeno a riconoscere tua madre a due passi di distanza, tutto è finito. – Sussurrò, a fatica.
Gli altri erano rapiti dalle sue parole, si limitavano ad ascoltarlo, a trattenere il respiro e a guardarlo tristi.
- Stavo guidando verso casa, ed erano le due di notte. Stavamo tornando da una festa a casa di un nostro amico, a cui ero voluto andare io. Mi ricordo che Frankie stava parlando ininterrottamente di una cosa che ora non rammento, solo il suono squillante della sua voce è nella mia mente. Io ero particolarmente taciturno perché, sapete, ne basta uno solo logorroico nella coppia. Andavo piano, o forse andavo forte e non me ne rendevo conto, so solo che poco dopo ci ritrovammo fuori strada, per colpa di una curva che non ricordavo. –
Era davvero difficile non piangere, mancava ancora poco così prima di ritrovarsi singhiozzante col viso nascosto nelle mani.
- I momenti seguenti sono un frammentato groviglio di ricordi a tinte fluorescenti, come se fossi sotto effetto di droghe pesanti e vedessi il mondo fatto di luci al neon. Quando mi risvegliai ero in ospedale, pieno di bende e fasciature, con una flebo che mi usciva dal braccio e dolori ovunque.  All’ inizio nessuno mi disse come stava Frank, né se se la fosse cavata, dove fosse, con chi fosse… Nulla. Aspettarono che mi riprendessi, facendomi preoccupare e diventare matto in quei quattro giorni di silenzio assoluto. –
La stretta della mano di Charlotte aumentò, facendogli alzare lo sguardo. Vide Louis sbirciarlo con lo sguardo velato e le sorelle singhiozzare senza farsi sentire.
- Al quinto giorno, quando oramai ero allo stremo, mi dissero come stava Frank. –
Prese tempo, perché dirlo era fottutamente difficile.
- Mi dissero che era morto sul colpo, che non aveva sofferto e che io ero stato fortunato ad essermi salvato ad un incidente così brutto. –
Non riuscì a frenare un riso amaro, cinico.
- Fortunato, mi dissero. Se solo avessero provato quello che ho provato io, non si sarebbero azzardati a dire una cosa del genere. Troppe volte ho pensato che io sarei dovuto morire e lui sarebbe dovuto rimanere in vita, che Dio ha sbagliato tutto scegliendo lui e non me. Io sono l’ assassino che si è salvato, sono quello che ha perso l’ amore della sua vita e ha fatto tutto con le proprie mani. Sono quello che ha tentato di togliersi la vita e non ha avuto il coraggio nemmeno di portare a termine quello che si era prefisso. – Si ritrovò a dire, con voce alta. – Sono quello degno solo di raccogliere la merda da terra e forse nemmeno quello. –
- Gerard, smettila. – Lo fermò la donna accanto.
Subito smise di urlare e rimase zitto a tremare con le lacrime che bruciavano.
- Tu non hai colpa, Gerard, devi capire questo. –
- Io guidavo, io l’ho ucciso. Io meritavo quella fine, non Frank. – Ritorse, con voce impastata.
- Frank non vorrebbe sentirti dire queste cose, lo sai? Lui vorrebbe sentirti dire che non sprecherai la tua vita così inutilmente, che questo dono che Dio ha scelto di farti, non deciderai di farlo marcire inutilmente. Devi vivere anche per lui, altrimenti sarà solo uno sfregio alla sua memoria, come le tue cicatrici rovinano la tua pelle. –
- Ma senza lui a cosa serve stare qui? –
- A vivere, Gerard. Chi ti ha detto che la vita è bella e tutta rose e fiori, mentiva. La vita non è bella, né è tempestata di gemme fiorite. Anzi, la maggior parte delle volte è bastarda e cattiva, ma proprio per questo impariamo ad essere forti e ad affrontarla. Tu vuoi lasciare che ti soffochi? –
- Forse… -
- Allora sei un perdente, ragazzo. – S’ intromise l’ uomo nerboruto.
Gerard lo fissò leggermente stupito di sentire la sua voce. Non era mai capitato, da quando era lì.
- Io… - Cercò di dire, ma senza risultati.
Semplicemente non sapeva cosa dire di preciso.
- Dai un calcio nel culo a quella stronza e falle vedere chi sei, altrimenti la prima cosa che devi fare è prendere una corda da lì fuori e appenderla ad un albero. E poi giocare all’ impiccato. –
- James, evita questi discorsi. – Disse Charlotte.
- Allora vuoi che rimanga uno senza spina dorsale per sempre? Liberissima di pensarlo, ma io preferirei mille volte sparire, piuttosto che farmi trascinare dalla vita come se fossi una barchetta di carta in un torrente. –
- Hai mai pensato ad una vita intera senza l’ amore? – Chiese Gerard.
- Ogni singolo istante di ogni stramaledetta giornata. –
- E ti piace? –
- No. Come può piacerti? Ma la vivo, solo perché io lotto. Con le unghie e coi denti. –
Gerard si portò il bicchiere alla bocca e tracannò il suo contenuto tutto d’ un sorso, pensando a quanti giorni ancora sarebbero dovuti passare prima della fine.
Tanti.
Troppi.

**

Quei fiori erano i suoi preferiti.
O forse no, era solo una sua convinzione e aveva sbagliato bouquet. Ma, alla fine, cosa importava, lui era lì sotto addormentato per sempre e di sicuro non poteva dirgli che i fiori non gli piacevano.
Non sapeva perché era voluto andare lì, non ne aveva mai ricavato alcun beneficio, anzi, solo un desiderio impellente di seguirlo, ovunque fosse.
Fissò la foto sorridente di Frank con quella felpa blu e la barbetta di due giorni incolta sul mento, che gli aveva fatto durante il loro viaggio a New York e che amava così tanto sbirciare sul computer.
- Frank, ho deciso che lotterò con le unghie e coi denti, come un amico mi ha detto di fare. Anche se sarà difficile e so che piangerò ancora lacrime amare. Anche se so che torneranno momenti in cui penserò che forse raggiungerti non è così male come idea e la depressione avrà il sopravvento su di me. – Disse, rivolto alla bella figura ritratta nel grande ovale posto accanto al nome in lettere dorate.
- Però la voglio far vedere a quella vecchia stronza, le voglio far vedere che se voglio non può vincere. E che un giorno ci reincontreremo, anche se non sarà domani. –
Mise le mani in tasca e prese un respiro profondo.
- A presto Frank, tienimi un posto accanto a te. E guardami da lassù. –
Si allontanò di un passo, sempre fissando la lastra di marmo rosa.
- Ti amerò per sempre. –
Si allontanò verso la cancellata di ferro nero, con passo più leggero e lo sguardo rivolto verso il cielo.
Era sicuro, dall’ alto lo stava sbirciano ridendo della sua camicia hawaiana, come aveva sempre fatto.




   
 
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