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Autore: crimsontriforce    07/12/2009    3 recensioni
È Zanarkand di notte, è Zanarkand d'inverno, è Zanarkand chiudendo gli occhi per vedere il nulla dentro.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Auron
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Dieci anni fa, la stessa strada'
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Oltre le finestre gialle









Un punto rosso in una stanza gialla, fra le luci gialle di una città blu.

Con il suo centro tondo e le sue lingue di terra, per Braska Zanarkand era stata una macchia d'inchiostro colata sulla mappa a confondere le storie del Nord; all'Auron in viaggio era sembrata piuttosto una mano artigliata. Ora non era più sicuro nemmeno della sua forma: la favoleggiata Zanarkand in cui era stato scaricato cresceva indistinta come una memoria. Aveva provato a seguirne i contorni, mesi addietro, prima che il gelo mordesse la linea frastagliata dei porti coi loro magazzini a cupola e le strade basse sull'acqua sempre bagnate di spruzzi. Era tornato al punto di partenza stordito dal vento e dal salmastro, certo di aver mancato almeno una svolta a sinistra e che della nebbia a quell'ora, in quella stagione, fosse innaturale. Di fatto non aveva trovato promontori.

D'inverno la cerchia esterna era impraticabile a piedi, spesso simile a un campo di rovine sommerse da cui emergeva, di tanto in tanto, un faro o la forma imponente di uno stadio, che attendeva assopito una nuova stagione di tornei. Così Zanarkand si riversava tutta nei suoi quartieri interni e rimpiazzava con le sue voci il gorgoglio consueto dell'acqua che zampillava dai palazzi. Quella, ghiacciata, trasformava certe strade in un labirinto di luci e di specchi deformanti, un vezzo fra tanti per un luogo che si amava definirsi meraviglia, fiaba e, non a torto, sogno.

Auron si era chiuso nella sua stanza gialla, riempita di lampade per sconfiggere la notte. Non sapeva come spegnerle tutte; dopo un po' aveva lasciato perdere. In fondo, lì era comunque un intruso. Al di fuori, ogni sera, la città ingoiava il tramonto e lo sputava in milioni di luci come la sua, che toglievano al cielo il suo nero e lo tenevano a bada, ammansito. Jecht aveva amato quel cielo. Jecht aveva amato tante assurdità. Auron si strinse nella stanza gialla. Il suo corpo non sentiva il caldo, ma non era difficile immaginare, lì, un tepore che tenesse lontano il vento che ululava al di fuori, le raffiche di neve e i ricordi. Anche se per questi ultimi c'era sempre spiffero.
Da dietro una finestra, osservò Zanarkand affannarsi sotto le sue torri e torrette e guglie e pinnacoli e sopra le superstrade infinite che collegavano i quartieri oltre le voragini della costa. Le scie dei veicoli si allontanavano tracciando cerchi sulle sopraelevate e tornavano da dietro le sagome dei grattacieli senza in definitiva essere mai arrivati da nessuna parte. La folla sciamava da sotto i porticati. E le lampade intermittenti delle gigantesche insegne si alternavano come il cuore luminoso di un'unica creatura. Poteva sentirla respirare.
Era un tipo diverso di tepore.
Provò a farne parte.

Giù per i gradini gialli dall'atrio giallo della stanza gialla, un'ampia scala circolare che si avvolgeva attorno al cilindro di vetro e metallo dell'ascensore. Ogni suo passaggio era un lampo di luci fredde come le insegne al di fuori – freddo machina – che frammentava la quiete. Bastava chiudere gli occhi perché passasse in fretta, ma gli restava addosso un'eco di chiacchiericcio vuoto, frammenti di frase, voci sovrapposte, che gli rimbombava dentro come un lento battito.

A ogni cerchio della spirale aveva visto la stessa finestra aprirsi sulla città a un'altezza diversa, abbandonare dapprima i cieli innevati per le prime guglie, che lasciavano a loro volta il posto a una cupola di ponti e sovrappassi, slanciati e intrecciati come rami, e infine al sottobosco di Zanarkand con i suoi fari, le sue nicchie, i bassorilievi luminosi che continuavano là dove le rovine in pietra s'interrompevano. In quattro respiri, l'ascensore collegava l'arteria principale della città ai suoi capillari più alti.
Auron viveva ancora nel tempo di Spira ed era sceso a piedi.

Lasciarsi andare non fu semplice. I suoi passi lo portarono sul fondo di un canyon di edifici, una stradina tortuosa che si affannava a seguire i vezzi architettonici ora di questo, ora di quel palazzo, mentre la sua identità andava persa sotto palmi di neve sporca. Di quella fresca poteva arrivare ben poco fin laggiù: le facciate sembravano chiudersi a volta dieci piani sopra il terreno, lasciando scoperta solo una fessura frastagliata di cielo smorto.
Auron si lasciò guidare dalla folla. Sentiva il loro freddo nei cappelli sgargianti calcati sulle orecchie e nella condensa che ritmava il vociare rapido dei ragazzi carichi di borse. Sentiva di venir trainato da un grande vuoto, che era sempre tre passi avanti a lui e sempre nascosto oltre qualcun altro, una signora agghindata a festa, un frettoloso, tutti parte del piacevole flusso continuo che teneva in vita la città, tiepido e vivo. A non tenersi stretti i pensieri, e anche volendo l'operazione diventava sempre più difficile, ci si poteva quasi credere. Quelli si staccavano, scorrevano a bordo strada e si fermavano intirizziti sotto la neve giallastra, persi assieme a tutte le altre preoccupazioni.

Si sedette sotto un porticato per rimettersi insieme, tenendo una mano premuta sull'occhio buono. In quell'angolo di buio relativo, fra un gradino e una colonna, non dovette attendere molto per venir ritrovato dai suoi rimorsi, tallonati da perdite, indecisioni e tutto il codazzo. Li accolse come luci fatue: con quello scherzo di corpo, si era fermato sotto l'impressione di aver perso davvero qualche pezzo – uno strato di pelle, un sopracciglio, la suola delle scarpe.
Il muro era liscio, una rarità. Vi si appoggiò mentre osservava la gente scorrergli davanti come protetto dal vetro di un acquario. Proprio il fondo del mare si accese alla sua sinistra, in uno schermo pubblicitario acquattato sotto il tetto dei portici, illuminandolo di ombre nette e fredde. Auron si ritrasse, ma continuava ad avere contro un muro.
Quando tornò a guardare la gente, era a sua volta osservato. Di fianco alle colonne, mentre Zanarkand scorreva, lo studiava una donna in larga parte insignificante, dai lineamenti dolci, con piccoli occhi scuri che non perdevano un dettaglio serrati dietro chissà quale maschera di serenità. Auron tremò. Era ricoperta dalla fronte ai piedi di una massa informe di panni e pelliccia, viola e grigi bordati di verde com'era d'uso fra i sacerdoti delle regioni montuose del centro. Ma non a Zanarkand, non in quella città senza credo in cui un eretico come lui poteva passare inosservato. Nevicava più forte, notò distrattamente.

“Nuoti lontano, viaggiatore”, gli sorrise.
Lui cosa?
“E quella corrente calda, no. Non era quello che volevi.”
Con quella luce ad accecarlo, la vedeva tutta azzurra. Senza avvicinarsi, senza smettere di sorridere, la sconosciuta fece cenno con la mano di chiudergli gli occhi.
“Grazie per aver seguito il nostro sogno”, sussurrò, ma lui già non la sentiva. Si allontanò fra la folla.

Nessuno fece caso al barbone accovacciato immobile al margine della strada, stretto nel suo pastrano al punto di sbiancarsi le nocche ma dal respiro gelido come la neve che poco a poco gli si ammassava a fianco
Indisturbato, Auron sognò, per la prima volta da quando era morto. Una mano femminile gli tolse di dosso uno scialle finissimo ricamato di ghiaccio e si scoprì sotto il cielo di Macalania, limpido e blu come lo ricordava, seduto sulla neve e dannatamente vivo, tremante e stretto fra il calore del suo compagno e del suo Lord.
Due luci fatue si condensarono in una lacrima.



















È un'idea del 2002. Buonsenso dice che nel 2002 l'avrei sprecata.
È anche un po' La voce del sangue versione FFX... abbastanza prossima in lista di scrittura sta la stessa in versione Riven (alla buon'ora, donna! Ci hai messo quanto, dodici anni? XD). Poi magari mi passa. O magari no e continuerò a rincorrere la stessa atmosfera finché campo, a cicli alterni. Chissà!
Also, Shiva shippa ABJ, a giudicare da com'è uscita, ma non ditelo troppo in giro.
Apropos Shiva, è l'unica nota che ho da fare in realtà ed è che la sua Fayth è fatta così. Corre voce ufficiale che le Fayth usassero dream Zanarkand come il parchetto sotto casa in cui ciondolare mentre non erano evocate...
Un'altra mezza noticina riguardo al primo paragrafo sta qui, per i curiosi.
Scritta per il Calendario dell'Avvento di Fanworld. Grazie agli organizzatori per avermi permesso di partecipare. :) E crosspostata con la Criticombola, prompt “A heart that hurts is a heart that works”! Praise be to Yevon, o anche no, e 'rivederci a tutti!




   
 
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