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Autore: LawrenceTwosomeTime    10/12/2009    1 recensioni
Una favola horror in tinta agrodolce, che mi premurerò di non tirare troppo per le lunghe.
Genere: Sovrannaturale, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminavo da ore tra faggi e betulle, l'aritmico sgocciolio della rugiada a scandire i miei passi.
La terra era così scura da sembrar fatta di puro buio, la foresta così fitta da soffocare ogni scampolo di cielo.
Io non vi badavo, come nei sogni non si bada al luogo e al contesto; talvolta, non ci si accorge nemmeno di essere nudi.
Ma io i vestiti li portavo: giubbotto beige e maglietta verde, pantaloni cascanti di un'indefinita tinta azzurro pallido. E scarpe da tennis. Un look ideale per quel clima da foresta pluviale.
E, si: il fatto che indossassi l'equipaggiamento adatto a una spedizione nel folto della macchia era effettivamente preoccupante.
Ma non c'era pensiero che mi adombrasse mentre scostavo con mano ferma i rami dei larici, al massimo un leggero stupore mi coglieva nell'imbattermi in palme e querce, abeti e salici piangenti.
Mi trovavo in un luogo assurdo, tanto più che ad una perfetta proliferazione di flora contrastava un'inspiegabile assenza di fauna: dov'era finita la fonte di quel rigoglio? Perché gli animali se n'erano andati lasciando che le piante germogliassero indisturbate?

E poi, s'impadronì di me una lieve impazienza, o forse era senso di aspettativa. Poco al di là delle felci affastellate di nero, pareva sempre risplendere un fioco bagliore dorato, un chiarore che illuminava – di rimbalzo – col suo riverbero fioco tutta la foresta. Ma era impossibile stabilire da dove provenisse, era come un miraggio: un fuoco di sant'elmo che faceva capolino, simile ad una lampadina, dal fusto di ogni virgulto, scemava tra le pieghe delle ruvide cortecce e riaffiorava nella volta infinita sopra di me che tanto rassomigliava ad un cielo senza stelle.

Mi misi in trappola quando trovai il sentiero: i sentieri sono maliardi tentatori quando ci si trova sperduti in boschi sconosciuti. Era tracciato appena un po' più chiaramente del terreno circostante, e aveva l'aria di non essere stato adoperato da parecchio tempo.
Dopo un'infinità di curve e svolte che si tuffavano tra radici pericolosamente sporgenti e distese di cardi ostili, la strada cominciò a farsi più definita. Definita nel senso che la macchia intorno a me sembrava quasi costruita: non piantata, una foresta non si può "piantare".
Eppure non si staccava da me la sensazione di star camminando in un corridoio naturale progettato a regola d'arte, con volute e volte vegetali che si piegavano idealmente a formare le arcate di una cattedrale.
L'insieme suonava sacrale, ma anche un po' opprimente. La luminescenza era svanita.

Infine, giunsi alla galleria.
A prima vista, non era altro che una voragine di medie dimensioni, molto regolare e incorniciata da una sequela di conci bianchissimi, che faceva bella mostra di sé al centro di una montagna di terra grondante radici. A intervalli sporadici, le appendici si facevano rami, da cui spuntavano foglioline a lancia color ambra. Alcune erano a stella.
Senza avvedermi del timore reverenziale che mi ispirava quel luogo, mi avvicinai per toccare uno di quei rami contorti. I terriccio era soffice e screziato come un'epidermide umana.

Il silenzio era assoluto. Ogni cosa odorava di silenzio, in special modo il buio che trapelava dalla galleria.

Provai a muovere un passo all'interno del cunicolo, e il cuore mi si impennò. Precipitai nel vuoto.


Quando rinvenni, mi trovavo accasciato su una panchina verderame in uno spiazzo deserto ritagliato tra due palazzi. Un lampione antiquato illuminava fiocamente le mattonelle sporche, pagine di giornale svolazzanti, una grata squadrata e discreta, probabilmente usata per far rifluire la pioggia.
Mi sentivo il collo anchilosato mentre mi volgevo a guardare il cielo di un violento viola prugna, e una folata di vento gelido mi aggredì le guance.
Mi tirai in piedi e uscii dal cortiletto. Sbucai in quella che pareva una stradina laterale costeggiata da una rete metallica.
Sembrava una città, ma in qualche modo i colori erano sbagliati. Casermoni granitici, complessi industriali, squallidi scampoli di periferia ammonticchiati l'uno sull'altro come spazzatura nel corso di chissà quanti anni. Marroni e giallastri, color ruggine, vomito, pece, ferocemente acidi.
Ispiravano un senso di familiarità misto repulsione.
"Com'è possibile che un luogo possa deperire fino a tal punto?", mi chiesi.
Anche la conformazione dell'agglomerato era insolita: tutte quelle strade non avevano un punto d'arrivo. Mai una piazzola, un viale un po' più largo del normale, una via maestra o un cortile (con la sola eccezione di quello in cui mi ero svegliato): se imboccavi un percorso, sapevi che non saresti mai approdato al punto di partenza, eppure non c'era fine al numero di vicoli e cunicoli, viuzze e passaggi, e ciò contribuiva a farmi sentire una formica dentro un labirinto.
Svoltai un angolo e mi trovai di fronte una donna. Età indefinita, tra i venti e i quarant'anni, carnagione perlacea, tratti duri e capelli corti biondo platino; indossava un blazer bianco panna e comodi pantaloni scuri con stivali di camoscio. Sul volto aveva una strana cicatrice obliqua che sembrava quasi una pittura rupestre, se possibile ancora più bianca della sua pelle.
Mi indirizzò un sorriso amaro, inclinando appena quelle labbra umide di rossetto, e disse semplicemente: "Vieni, ti porto a casa"
  
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