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Autore: Aranel_    15/12/2009    3 recensioni
Si vive perché lo si desidera, si esiste perché si deve. Ma tutto cambia quando non è della propria vita che bisogna decidere. Il concetto di cosa è bene e cosa è male è del tutto soggettivo non per niente ogni volta questo muta sfumando in mille piccole sfaccettature e, si sa, se queste non le si guardano da vicino non si riescono a cogliere tutte le varianti che lo compongono. Ma la regola generale non esiste.
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aoi, Ruki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*lo Shinigami è Aoi*

Lo vedo ogni giorno, quando vengo in questo posto dimenticato da Dio.

Lui viene, si siede sempre sulla stessa panchina mettendosi nelle orecchie delle piccole cuffie di cui ignoro l’utilità.

Sta  li per ore.

Intere ore che passa a volte cantando, a volte dormendo, altre sorridendo al vento immaginandosi chissà cosa.

Sembra un normale ragazzo che ama venire qui, in un posto dove nessuno disturba la sua pace.

In un posto denominato maledetto dal resto della gente.

Qui ogni cosa, da qualche tempo ad oggi cresce rossa, indistintamente: viole, tulipani e perfino i girasoli che sembrano guardare la loro unica ragione di vita con uno sguardo di sangue scarlatto, orribile, spietato.

Colpa delle fabbriche troppo tossiche?

Colpa di una vecchia strega?

No, ovvio.

Io vengo qui ogni giorno da 100 anni e posso giurare che prima che il ghiaccio in me si sciogliesse questo era un posto del tutto comune: l’erba verde, i fiori colorati, i bambini che, in ogni era uguali, riempivano l’aria di dolci risa.

Era bello.

Era.

Gli anni sono trascorsi inesorabili, passando fra guerre e matrimoni, sole e pioggia; dal mio punto di vista tutto restava comunque scandito dallo stesso ritmo lento e calmo che rendeva ogni cosa si presentasse ai miei occhi mite, fredda e…lontana.

Per tutti quegli anni ho assistito a davvero molte cose e grazie a questo mi sono reso conto di quanto gli umani siano particolari.

Tanto quasi da definirli stupidi.

Insensati.

Autodistruttivi.

Sin da bambini ci sono scontri e liti che poi crescendo mutando in piccoli o grandi drammi quotidiani, ma allo stesso modo stringendo un mignolo fanno pace, con una firma fermano una guerra e con un sorriso si dicono mille parole.

Ormai mi ero rassegnato alla mia vita fatta di gelo e onestamente la preferivo: niente rimpianti, niente timori; svolgevo solamente il mio compito seguendo fedelmente quello che la lista mi diceva.

Giudicavo le anime con rigidità, senza tenere conto di ogni gesto buono o soltanto gentile compiuto da quello che fino a poco prima era un uomo.

Eppure, non tutte le anime che mi sono trovato fra le mani le ho definite di un essere quanto meno degno di essere chiamato “umano”.

Uno ha ucciso la sua famiglia portando già la croce sul cuore, ma sarei davvero un ipocrita a definirmi meglio di lui, pur potendo porre fine alla vita di quell’essere anticipandola di quelle poche ore che sarebbero bastate per salvare la moglie e il bambino che la donna portava in grembo non l’ho fatto non ritenendolo un mio compito.

Ma quella è stata una mia scelta.

Solo mia.

Sono uno Shinigami e il mio compito è quello di giudicare le anime che lasciano il suolo terrestre.

La carta della lista a cui sono indissolubilmente legato da un filo invisibile si macchia di inchiostro nero che dilagando fra le increspature del foglio reso giallo dagli anni formano il nome della prossima persona destinata a morire e con lo stesso indelebile inchiostro sul cuore dei predestinati compare, lacerando la pelle, una croce rovesciata che li marchia fino all’ultimo respiro.

Infondo il  mio lavoro è semplice, quasi come una caccia.

Una semplice caccia che non va mai a vuoto dato che a noi, cacciatori speciali, per individuare la preda ci limitiamo a seguire l’aura nera che emettono le loro croci; una volta trovata basta un colpo silenzioso e tutto si spegne.

Semplice.

Troppo semplice per i miei gusti, per questo motivo io prima di uccidere perseguito la mia vittima, la seguo, mi diverto a vederla impazzire rendendo visibile la croce sui loro corpi e rivelando il terrore di una morte ormai in agguato che le segue gelida e impietosa.

Gli umani sono fragili e vulnerabili, ogni cosa li spaventa e anche la più piccola ombra di inquietudine gli impedisce di vivere.

Alcuni mi supplicano, altri piangono e si disperano, altri ridono credendolo uno scherzo, altri ancora cercano perfino di corrompermi con inutili cose o addirittura promettendomi la loro anima.

Ma io sono uno Shinigami che è tenuto solo a svolgere il suo compito, se non adempissi ad esso perderei il mio essere tornando alle origini.

A com’ero quando ho espresso il desiderio di morire svanendo nel nulla e questo non credo potrei sopportarlo.

Ricordo ancora il dolore di quei giorni, ero solo un bambino costretto ogni giorno ad essere messo a confronto con la sua inutilità rispetto al mondo, a giocare coi coltelli sporchi di sangue, a convivere con l’idea che perfino la mia famiglia mi avesse venduto per poche monete, ad essere ogni giorno picchiato e maltrattato per un piccolo errore o un sospiro di troppo.

Era questo che significava essere al servizio dei soldati.

Non credo che molti giudicherebbero la mia scelta di diventare uno Shinigami migliore, però in questa situazione il mio cuore è immerso in una tale coltre di nebbia che non vedrebbe neanche il più atroce dei delitti, non per niente per fino gli altri miei stessi colleghi mi evitano, ma va bene così.

Il mio desiderio di svanire non sentendo più quel dolore è stato esaudito ed era l’unica cosa che mi interessava e, come un disco che si inceppa mi trovo a ripetere quell’inutile era.

Adesso non è più come in quei giorni neanche da molto passati, non so cosa di preciso mi sia successo ma dopo aver visto quel ragazzo perseverare e venire ogni qual volta potesse qui, è cambiato tutto.

Mi domando perché abbia scelto proprio questo posto fra tanti.

Questo posto in cui i colori non esistono e ogni fonte di luce sembra coperta da tristezza.

Non solo tutto è rosso ma ogni cosa ha una vita prossima alla fine, infatti si dice che chiunque si trovi ad attraversare quei viottoli e a vedere le luci basse dei lampioni che con il loro chiarore rompono il buio silenzioso del parco, pochi giorni dopo muoia con il sorriso sulle labbra, ma questa è solo una falsa illusione che si creano le persone che le sono vicine per non dovere ammettere che quel sorriso è solo il risultato di un uomo in punto di morte che cerca di esalare l’ultimo respiro tendendo i muscoli che poi rilassandosi mantengono quell’aria che per gli umani simboleggia la felicità.

Stupidi…stupidi!

Perché passano la vita a prendersi in giro?

Per non soffrire forse? Ma che differenza fa? Alla fine la realtà viene sempre a bussare, albergando nel frattempo chiassosa nella coscienza più buia di ognuno, logorando ogni cosa al suo interno pur di arrivare all’anima e sbriciolarla così come legna fra le fiamme che bruciano piano e lentamente scoppiettando e spargendo le ceneri che cadono opache su tutto adombrando ogni cosa, rendendola indifferente e ceca.

Che tutto questo si possa riassumere col termine apatia? Probabilmente si, ma è strano pensare a come una parola sola possa racchiudere una serie di concetti tanto orribili, ma è anche strano pensare che su un albero di un parco maledetto vi sia seduto uno Shinigami che versa lacrime per un nuovo arrivo nella sua lista.

Eppure è così.

Questa volta non un “era” ma un “è”.

Infondo raccontare i fatti accompagnandosi ad un “era” significa che niente si può cambiare, le scelte sono state prese e anche se solo di pochi secondi, il tempo è passato svolgendo il suo corso; invece con l’”è” è tutto diverso.

Niente è stato detto.

Niente è stato deciso.

Tutto un mondo ancora da fare e costruire, tante decisioni da prendere e infine cose da capire.

Credo sia per questo che ora mi ritrovo di nuovo qua a guardare la mia prossima vittima versando lacrime di sangue che si infrangono gelide sui fili d’erba che chinandosi sotto al suo peso, le fanno scivolare più giù fino al terreno che le assorbe passivo, non sapendo che è colpa loro se da tempo li è tutto rosso e destinato alla fine.

Si, proprio colpa loro.

Le lacrime degli Shinigami non sono limpide come quelle degli umani che a volte riescono perfino ad esprimere gioia, ma sono sporche.

Portano con loro ogni morte, ogni dolore, ogni pena inflitta nel cuore del suo padrone.

Si dice che l’oste non porta pena ma in questo caso non c’è cosa più falsa.

Noi, Dei della morte non piangiamo, o meglio, non dovremmo.

I motivi per farlo sarebbero inesistenti per un apatico essere del genere, credo sia per questo che chi ci ha creati ha pensato che non ne avessimo bisogno e non c’è le ha donate.

L’eccezione alla regola però esiste anche in un mondo come questo e sono io, lo stupido Shinigami invaghito di un umano.

Un umano con cui non ha mai neanche parlato ma solo visto da lontano.

Non credevo sarebbe mai potuto succedere di provare interesse per una persona solo guardando da lontano come si comporta, cosa gli piace, i piccoli gesti che compie e più semplicemente lui.

È la prima volta che provo qualcosa di diverso da rabbia, dolore e tristezza e non credo mi piaccia.

Niente, neanche dover uccidere dei bambini fra le braccia delle loro madri disperate mi ha mai fatto versare una lacrima ma da quando ho cominciato a vedere il suo nome salire sempre di più nella mia lista facendosi largo fra gli altri condannati, dagli occhi mi sono aperte quelle piccole fessure dolorose da cui scendono le scie che non sono altro che gocce del mio stesso sangue che fino a pochi istanti prima erano congelate all’interno delle vene.

Ma cosa mi importa? Anche se le piangessi tutte io non necessito di sangue per sopravvivere.

Sono un fottuto Shinigami a cui servono solo le anime delle persone richieste dalla lista per continuare quell’inutile esistenza come mietitore.

Continuo a fissare la croce nera che c’è impressa sul suo cuore che, nonostante sia coperta dai vestiti riesco a vedere chiara come il cielo in una giornata di sole e la riesco a percepire come se stesse consumandosi su di me.

Devo decidere, oggi è il giorno, se non lo ucciderò prima della mezza notte io tornerò a vivere il mio incubo senza neanche avere la certezza di salvarlo.

Nessuno ha mai disubbidito perciò non ho idea di cosa succeda ai non morti, potrebbero trasferirsi su un'altra lista oppure suicidarsi o magari la durata della vita verrebbe prolungata.

Cosa dovrei fare? Non è nella mia natura essere positivo ma all’idea di ucciderlo mi tremano le mani e il sangue sul mio volto scende ancora più veloce.

Lui è li.

Steso sulla solita panchina abbandonato ad un sonno da cui non dovrebbe più svegliarsi e le immancabili cuffiette, sfilatesi dalle orecchie, giacciono cadute sul petto.

Le varie ragioni si contendono la supremazia nella mia testa, tutte con un fondo di verità.

Perché gettare al vento tutto ciò che ho fatto fin ora tornando così nel vortice di disperazione in cui vagavo? Perché…perché…PERCHé?

La testa è talmente pesante da fare male, porto le mani a sostenerla, forse è semplicemente stanchezza.

Profonda ed eterna stanchezza di ogni cosa che sembra così trasparente, inutile.

Lentamente mi sta uccidendo, prosciugando ogni mio interesse, ogni… non oserei permettermi di usare il termine “emozione” ma almeno quei piccoli brividi che ti percorrono veloci come fulmini che squarciano il cielo notturno.

Veloci, pericolosi, ma allo stesso tempo rischiarano per pochi attimi tutto ciò che fino a pochi attimi prima era in un buio perso.

Gli Shinigami sono immuni da ogni stimolo esterno, questo è vero, però dentro di noi si genera quell’eccitazione provocata anche solo dall’idea di certe cose.

Se sono belle o brutte non ha importanza, infondo il concetto di cosa è bene e cosa è male è del tutto soggettivo non per niente ogni volta questo muta sfumando in mille piccole sfaccettature e, si sa, se queste non le si guardano da vicino non si riescono a cogliere tutte le varianti che lo compongono.

Ma la regola generale non esiste.

Tutte le volte che vengono viste con occhi diversi anche i colori cambiano a seconda della percezione in cui l’inconscio di ognuno le tramuta.

Ma che vita è se si consumano i giorni andando dissolvendosi giorno per giorno  come perfetti cristalli che, scendendo dal cielo vengono assorbiti dal manto bianco che riposa tranquillo a terra, unificandosi ad esso e diventando parte integrante di quel nulla che regna costante? Tutto ciò non si può chiamare vivere ma semplicemente esistere.

Anche le pietre esistono.

Vivere è diverso.

Vivere è respirare e sentire l’aria fresca che si espande in tutto il corpo, correre e passare fra i campi sentendo l’erba che si scontra con le gambe cercando di fermarti, ma vivere è anche andare avanti.

Vivere è giocare coi giorni, contare i secondi fra un respiro e un altro, ridere per niente, sentire il cuore battere per un viso o per una piccola gioia.

Vivere è diverso da esistere perché quando si vive si sogna e se pur non c’è ne accorgiamo nel nostro essere qualcosa esiste.

Quel qualcosa che ogni giorno fa aprire gli occhi e da la forza di alzarsi.

Mentre quando si esiste si ha la vuota percezione del niente che va infrangendosi contro un muro di indifferenza.

Ma la differenza che più le distanzia è una.

Si vive perché lo si desidera, si esiste perché si deve.

Il sole va sciogliendosi verso l’orizzonte ricordandomi con i riflessi scarlatti che lo circondano che la decisione deve essere presa.

Forse più che decidere della sua vita dovrei decidere della mia.

Scegliere tra continuare in eterno ad esistere e cominciare, anche se per poco, a vivere.

Tra gli umani c’è un detto che dice: meglio un giorno da leone che cento da pecora.

Forse.

Ma davvero quel leone è tanto coraggioso e quella pecora tanto stupida? Se ci avessi pensato qualche tempo fa avrei detto sicuramente che non aveva la minima logica, ma adesso mi trovo a rifletterci pensando che, probabilmente quel singolo giorno vale come i cento.

Ma come può un giorno equivalerne cento? Ogni cosa ha una ragione, però forse quei cento sono trascorsi come in un sonno profondo e quell’uno come il momento del risveglio.

Già, il risveglio.

Mentre il sole finisce la sua corsa chiudendo gli occhi dietro alle cime ombrose degli alberi si consuma la mia scelta.

Con un piccolo salto esco dal mio nascondiglio fermandomi davanti alla mia prossima vittima che quasi mi avesse sentito si sveglia aprendo piano gli occhi e rimanendo immobile, sorpreso di trovarsi qualcuno davanti.

Sbatte qualche volta le ciglia confuso per poi sorridere timido, come imbarazzato per essersi fatto trovare addormentato su una panchina da uno sconosciuto.

Io gli sosto davanti il più inespressivo possibile  sentendo la croce chiamare la mia falce.

Mi inchino a lui.

Era da tempo che non abbassavo il capo.

Da bambino lo facevo per scusarmi e supplicare il perdono dei soldati, sperando così di non venire punito.

Adesso non so perché lo sto facendo.

Forse ho ancora il bisogno di porgere le mie scuse e di sperare che esse vengano accettate anche se so che questa volta nessuno mi farà del male.

Guardando verso il basso noto un fiore.

Gli Occhi di Maria.

Occhi rossi che mi guardano impassivi dal basso.

Le luci dei lampioni risaltano nel buio della notte, da lontano si sentono echeggiare vaghi i rintocchi della mezza notte provenienti dal vecchio campanile che veglia sulla città.

Il tempo è terminato e come Cenerentola vorrei scappare ma i secondi sgocciolano fino a prosciugarsi.

Alle nostre spalle un parco torvo e qui la mia vita che si spezza.

Mentre la vista comincia ad offuscarsi sento il corpo svanire.

Ora posso sentire il terrore di quel leone che, seppur coraggioso sa di star vivendo i suoi ultimi respiri  e l’angoscia di sentire il cuore battere, dopo tanto tempo, disperato mentre piano, rallenta.

Ora non esisto più.

Ne sono sicuro.

Per la prima volta sicuro di qual’cosa.

 

Pochi istanti dopo tutto era terminato.

Delle piccole scaglie luccicanti si libravano a mezz’aria per poi poggiarsi delicate sul terreno.

Dello Shinigami non era rimasto altro che un fiore circondato da petali lucenti.

Mentre tutt’intorno perse colore tingendosi di un bianco smorto, pallidi spettri rimasti ancorati al suolo, accolti nel triste letto di morte che solo poco tempo prima gli aveva donato la vita.

In mezzo a tutte quelle inconsapevoli vittime che, come fantasmi alla deriva, venivano scossi passivi dal vento, cominciava come un lieve tremolio, a farsi sentire la mancanza di quel rosso tanto acceso.

L’occhio di Maria però sembrava ancora piangere sangue che, come una cascata, passava scivolando da petalo in petalo non cadendo mai.

Li un ragazzo assisteva inerme allo spettacolo.

Era impaurito, preso alla sprovvista da tutto.

Si chinò solo un attimo che gli bastò per sfiorare con l’indice quell’unico fiore che sembrava condividere con lui il timore e la tristezza che aleggiavano nell’aria, per poi scappare da quel luogo lasciandolo con una lacrima versata come dono a quella creatura che forse aveva solo immaginato.

Le ore ripresero tranquille a trascorrere, il tempo non si ferma mai nonostante tutto.

Arrivò mesta la mattina illuminando nuovamente ogni cosa e al cancello mangiato dalla ruggine del parco maledetto appariva di nuovo il ragazzo del giorno prima.

Takanori.

Avanzava piano in quel parco bianco fino ad arrivare alla solita panchina che per la prima volta non lo stava aspettando da sola.

Su di essa vi era seduto un bimbo dai capelli neri, i vestiti sgualciti e sul grembo un fiore.

L’occhio di Maria che ancora brillava.

Takanori piano si avvicinò al bambino avvolgendolo col suo cappotto.

Faceva molto freddo e quel bambino sembrava già abbastanza malandato e non sapeva spiegarsi il perché, ma a vederlo così, solo come una piccola macchia nera in mezzo a tutto quel candore aveva fatto crescere in lui un senso di protezione.

Gli si sedette accanto guardandolo dolce ma appena gli occhioni del piccolo si alzarono intimoriti agganciandosi ai suoi un brivido lo percorse.

Quel colore così intenso con celata al loro interno un innocente nota di malinconia non gli erano nuovi.

In un flash rivide il volto della creatura del giorno prima, accompagnato da quell’unico fiore ancora rosso che il bimbo teneva stretto fra le manine.

Un cristallo di neve appoggiatosi sul piccolo naso e un altro tenero sorriso del più grande.

- come ti chiami?

- Yuu…

Dopo di questo solo silenzio rotto solo dal gesto di quel bambino che porgeva il suo tesoro che nascondeva fra le mani fredde al nuovo amico.

Ora non più come il cristallo di neve che si confonde fra tutti ma come un rubino scarlatto e perfetto che si poggia sul morbido manto bianco.

***FINE***

Salve a tutti! Spero che questa piccola storia vi sia piaciuta e che l’orribile punteggiatura non abbia dato troppo fastidio ( contaci! =_=)

Non so se è molto chiaro però il bambino è lo Shinigami che è tornato alle origini, ma come dice sopra il tempo non si ferma quindi lui non poteva tornare indietro nella sua era quindi è rimasto al presente come bimbo senza ricordi.

A presto,

Chie.

  
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