Salve. Come sempre, ringrazio Mote_Ely per la recensione: sono felice che tu
condivida con me queste impressioni, che, per me, risultano estremamente
interessanti.
Un avviso per questo capitolo: i versi della canzone qui riportati provengono da
Un chimico di Fabrizio De Andrè.
Buona lettura.
Brina fra i capelli, vento sotto i
piedi
La guerra, i bombardamenti, le
cortine di fumo, i funghi spappolati, gli aghi di pino nelle ferite.
Era una guerra, era iniziata.
Me ne accorsi solo quando cliccai su
Invia.
Susanna avrebbe sicuramente aperto
quell’e-mail contenente un allegato:
Light.jpg. Ci avrebbe cliccato sopra e il batch – il virus da me creato, uno
dei pochi su cui avevo gettato giorni estivi e notti d’autunno – si sarebbe
infiltrato nel suo computer.
D’accordo, non era un piano così
geniale, ma era tutto quello che sapevo fare.
Anche Light lo fa, no? Anche lui sfrutta
esattamente ciò che ha; niente di più, a parte qualche milione di neuroni
rispetto al resto della razza umana.
La mia prole di virus era piuttosto
magra, in realtà: avevo realizzato, grazie alle istruzioni raccolte su Internet
per puro caso, due virus completi e cinque esperimenti falliti, ma, almeno, ero
riuscito a immunizzare il mio sistema attraverso una rete condivisa di antivirus
di cui avevo letto su un forum.
In fondo, anche quello era mettere
alla prova le proprie capacità, proprio come Light.
Ma perché faccio tutti questi paragoni
oggi?!
La decisione di coinvolgere Susanna
nel piano – avevo ormai abbandonato la dicitura
macellazione: piuttosto terrificante
o, almeno, più di quanto la vicenda fosse realmente – significava concretizzarlo
obbligatoriamente. Senza via d’uscita: ero ormai costretto a metterlo in
pratica.
Non che la cosa mi dispiacesse,
tutt’altro.
Il resto, comunque, era ovvio.
***
“Potresti contattare Martino”, le
consigliai.
Teodoro Manonera era il tecnico
ufficioso – quello ufficiale era morto nel 1997 e non era ancora stato
sostituito – delle apparecchiature scolastiche, dai computer della sala di
informatica alle scrivanie marroncino dei segretari.
TEODORO MANONERA:
RIPARAZIONE COMPUTER E MACCHINE PER
UFFICIO VIA PLINIO, 43
ROTUNNO (BA)
TEL.: 3244483290 / FAX: 0808659750
Così recitava un foglio
attaccato alla porta del laboratorio di informatica, a scuola, in un anonimo e
trascurato carattere enorme. Spesso i miei compagni di classe avevano contattato
il signor Manonera attraverso il figlio, solo per una riparazione o per
acquistare computer, registratori di cassa e scrivanie piuttosto becere e
pacchiane – anche più dei cuscini che vendeva mio padre nel nostro negozio di
articoli per la casa.
“Manonera, dici? Mi dai il suo
numero?”, esitò Susanna, ancora ansimante.
Mi stropicciai gli occhi ed
estrassi l’elenco telefonico dal cassetto del tavolino.
Non te lo sai trovare da sola?
“Sì, aspetta.”
Sfogliai con pigrizia il
volume massiccio, tagliandomi ripetutamente la pelle alla base dell’unghia con
la carta sottilissima.
Mentre cercavo la sezione
dedicata ai residenti di Rotunno, Susanna cominciò a cantilenare la sua
disperazione.
“E se non riesco a recuperare
il file? Sarò costretta a riscrivere il capitolo daccapo! Il fatto è che dopo
pranzo l’ho riscritto e mi sembrava anche accettabile, che cazzo! Margie,
aiutami, come faccio? Oddio, oddio, com’è possibile che capiti tutto a me?
Margieee!”
Ti vuoi calmare? È solo una storia, Dio santo.
Tacqui e, finalmente, trovai
la scritta Rotunno sull’angolo destro
della pagina che stavo consultando.
Allora, Manonera…
“Ce l’hai il numero o no?”, mi
chiese impaziente.
La cornetta quasi mi scivolò
dalla mano mentre consultavo l’elenco telefonico. Accennai un verso d’assenso in
risposta alla sua domanda. No, guarda, ti
ho detto che ce l’ho solo per perversione!
“Lo sto cercando, un attimo.”
Gli occhi mi bruciavano e uno
sbadiglio incontrollabile mi fece rabbrividire; lessi i cognomi in cima alla
pagina, cercando la lettera m.
Benicotto… De Benedittis… Fiore… Hoga… Macillo… Madonnella…
“Be’?”, domandò irritata.
Sbuffai.
“Se mi dai il tempo…”
Tacque, come interdetta.
Finalmente trovai, fra un
Manonera Guglielmo e un Manonera Vito,
Manonera Teodoro.
“Vuoi il numero del negozio o
quello di casa?”, le domandai. Sbadigliai un’altra volta, puntando il dito sul
nome trovato, per non perderlo d’occhio.
“La prossima volta magari lo
cerco io…”, brontolò.
Attesi.
“Quello di casa, mi vergogno a
parlare col padre”, confessò.
Risi sommessamente e,
dettatole il numero di casa Manonera, infilai di nuovo il volume spiegazzato nel
cassetto.
“Perché, a parlare con Martino
non ti vergogni?”
Cercai di chiuderlo, ma si era
incastrato un lembo di stoffa nella fessura fra il mobile e il cassetto; gettai
dentro lo straccetto di feltro con cui pulivo gli occhiali e ritentai, battendo
la nocca al legno ruvido.
Cazzo.
Mi leccai il dito, non
accorgendomi che il calore della lingua non faceva che acuire il dolore.
“Ma Manonera è un coglione
represso! A parte il fatto che parlare con lui significa fare un monologo, e sai
quanto mi piacciono i monologhi!”
Risi.
Piacerebbero anche me, se qualcuno li ascoltasse. Evitai di
accendere discussioni – avrebbe sempre vinto lei.
“Ma hai provato a
riavviarlo?”. Preferii concentrarmi sul suo computer piuttosto che su Susanna –
almeno lui non mi subissava di parole.
Mi sedetti a terra, accanto al
telefono, nonostante l’aria non fosse esattamente calda. Il cielo si era di
nuovo annuvolato e, considerando che delle lenzuola sbatacchiavano come buffi
pendoli, soffiava un vento giocoso.
“Sì, ma non si accende!
Aiutamiii! Ora chiamo Manonera, ti faccio sapere, OK? Ciao, Margie, ciao…”
Riattaccò.
Ritornai a dormire nella mia
tuta nera, concentrandomi sulle fasce celesti che si inerpicavano sui miei
fianchi, fin quando non fui costretta a chiudere gli occhi.
I raggi del sole non entravano
già più, filtrati dalle persiane: solo un candore senile, un opaco riflesso
bianco panna.
Non mi resi conto del momento
in cui mi addormentai, ma mi piacque credere che il mio ultimo pensiero fosse
stato.
È strano andarsene senza soffrire,
senza un volto di donna da dover ricordare.
Ma è forse diverso il vostro morire
voi che uscite all'amore, che cedete all'aprile.
Cosa c'è di diverso nel vostro morire?
***
“Martino,
è per te!”, urlò mia madre. Mi chiama così
solo quando c’è gente…
Fermai il
gioco e raggiunsi il telefono, asciugandomi le mani gelide e
sudate sulla consunta maglietta dei Red Hot Chili Peppers che indossavo
come pigiama. Erano trascorse quasi tre ore dall’invio del mio virus a Susanna.
Possibile che mi abbia già chiamato?
Del resto,
non erano affatto consuete le mie telefonate: a parte Aldo e qualche mio
compagno di classe delle medie – che mi contattava per farsi masterizzare
videogiochi o per riparazioni di piattaforme ludiche di vario genere – ricevevo
rare telefonate.
Afferrai
la cornetta dalle mani di mia madre e me la stavo per portare all’orecchio
quando mi sussurrò:
“Ti sei
lavato i denti?”
Sospirai
alzando gli occhi al cielo. “Non rompere le palle, dài!”
Sbuffai.
“Pronto?”.
La mia voce mi risultò cavernosa, forse per via dell’eco che spandevano le onde
sonore; era un problema dei cordless, certamente.
“Ciao…
ehm, Martino. Sono Susanna.”
Cazzo, sì!
Non potevo
crederci, era straordinario! Non che le cose avessero potuto seguire un corso
molto diverso, però… Ero riuscito a prevedere tutto e questo mi entusiasmò.
“Ehi”. Fu
una specie di mugugno, un verso che ricordava vagamente Mikami. Sorrisi.
OK, devo controllarmi.
Modulai meglio il tono di voce: più indifferente, ma normale. Almeno un po’.
È andato tutto come volevo! Non tutto, a dire il
vero, o, almeno, non era ancora sicuro: magari Susanna era più moralista di
quanto desse a vedere.
Mi calmai
a fatica e attesi le frasi che già immaginavo.
“Senti,
scusa se ti disturbo, ma è successo un disguido.”
Era
divertente come la gente cambiasse a seconda dell’interlocutore, dell’imbarazzo
di una parola sicura sussurrata con vergogna; a stento mi trattenni dal ridere.
Disguido?! Ma se a scuola non fai altro che sparare parolacce e
bestemmie come una posseduta! Il gusto di montarsi la testa era pietoso, ma
davvero divertente.
Attesi che
continuasse a recitare la sua parte.
“Ecco,
dato che tuo padre ripara computer, no? Eh, il mio si è rotto improvvisamente,
non so come… Insomma, visto che è così, potrei portartelo? Per ripararlo. Se
vuoi ti pago, cioè, pago tuo padre.”
Ma no, guarda, mio padre mantiene una famiglia di quattro persone, se non lo
paghi rischio di non mangiare per una settimana. Fai un po’ tu…
Finsi di
esitare – o forse ero imbarazzato anch’io, ma non me ne curai affatto. “Sì,
glielo dico subito. Per il prezzo ve la vedete voi”
Raccolsi
il cellulare e iniziai a scrivere un messaggio a mio padre.
C’è un pc da
aggiustare, te lo fac
Cambiai
subito idea: avrei dovuto badarci prima io, viste le necessità. Sbattei il
cellulare sul case del computer, producendo una vibrazione metallica che mi fece
battere i denti.
“Comunque,
avresti potuto telefonare al negozio: mio padre è sempre lì”. Mi maledissi non
appena terminai la frase: Troppe parole
che non c’entrano un cazzo, ma perché divento logorroico nei momenti meno
adatti? Non mi ero mai dilungato in discussioni prolisse, soprattutto con
potenziali estranei.
“Ah,
davvero? Non sapevo che avessi il telefono anche in negozio… Cioè, in realtà ho
trovato il tuo numero sulla rubrica del cellulare e ho chiamato quello, capito?
Va be’, grazie.”
Non
ricordavo di averle mai ceduto il mio numero di telefono fisso, né che Susanna
mi avesse mai chiamato da quel poco che ci conoscevamo – né parlato così a
lungo, per giunta.
Mi voltai:
mia madre era ancora accanto a me. Mi spaventò. La guardai prima sorpreso, poi
inferocito, cacciandola con un gesto della mano; probabilmente era incuriosita
dal fatto che mi avesse telefonato una ragazza – circostanza unica, a parte
qualche cugina di cui non ricordavo nemmeno il nome che mi chiamava per farmi
gli auguri ogni ventotto dicembre.
Rimase lì,
stringendo il grembiule con una mano e un canovaccio lacero nell’altra, il viso
concentrato per ascoltare la conversazione e, forse, deluso dal suo contenuto.
Sbuffai e la ignorai, girandomi verso lo schermo della televisione e la luce
spia della PlayStation 3, flebile e sommessa. Discreta, almeno lei.
Interruppi
il silenzio salutandola e consigliandole di passare da casa mia, perché mio
padre era occupato con altri computer e, quella sera, avrebbe lavorato al suo a
casa.
“Dove
abiti?”, chiese. Sembrava più tesa e interdetta.
“Via
Mazzini, 79. Alle spalle della chiesa Santa Maria Greca, hai presente?”
Tacque.
“La Dok
sull’estramurale? Il bar Fiocco azzurro?
Oppure…”. Cercai di individuare qualche punto di riferimento particolare; non
vivevo in una zona isolata, ma era pur sempre fuori dal centro. Non mi venne
nulla in mente, a parte una latteria, una biblioteca di nome
Notting Hill, qualche fruttivendolo e
un parrucchiere. Tentai l’alternativa che Susanna avrebbe conosciuto con più
probabilità.
“Il
parrucchiere Un Angelo per capello?”.
Risultò alquanto imbarazzante pronunciare quel nome idiota, ma sembrare buffo,
forse, l’avrebbe ben disposta nei miei confronti.
Non devo per forza giustificare ogni mia
azione; non lo faceva neanche Light, voglio dire… O, meglio, Light lo
faceva, ma senza creare ulteriori paranoie. Sbuffai.
“Ah, ho
capito! L’ha aperto mio padre, quel salone, sai? Prima ci lavorava solo come
amministratore, ora, invece, fa proprio il parrucchiere… Non sapevo che abitassi
lì vicino, a volte ci passo il pomeriggio, quando non ho un cazzo da fare. Dov’è
casa tua di preciso?”
Ecco, appunto.
Forse
avrei dovuto informarmi meglio prima di contattarla, solo per non assumere
quell’aria spaesata, come quella di un pesciolino che cozza contro la parete
dell’acquario.
Le spiegai
che abitavo a pochi isolati dal salone del padre, in un condominio dalle pareti
nere per l’umidità – a parte quest’ultimo particolare – al secondo piano e che
l’ascensore era guasto da un paio d’anni, visto che le famiglia Cacicci non si
decideva a pagare la sua quota per le riparazione – probabilmente tralasciai
anche quel dettaglio.
“OK, vedrò
di trovare casa tua. Posso venire adesso?”, chiese a voce più alta, acuta come
il pigolio di un cane ferito.
“Sì, ci
vediamo.”
Riattaccai
prima che continuasse a innalzare il timbro di voce e, dimenticandomi di mia
madre che mi fissava ancora, asciugando un tegamino, stavolta, ritornai a
massacrare i miei nemici… nel videogame.
Cerchio L2+cerchio
Mi pentii,
ancora una volta, di aver voluto risparmiare Susanna.
Ho bisogno d’aiuto, da solo è praticamente
impossibile uccidere venti persone. Me ne rendevo conto, ma era
insopportabile – avere limiti, intendevo. Non che desiderassi diventare un dio
in terra, onnipotente e invincibile: era chiaro che il piano avrebbe potuto
fallire in qualsiasi momento, senza scampo, senza avvertimenti, senza tuoni in
lontananza: solo un lampo, preciso, mirato – e tutto sarebbe volato via, come se
non fosse mai esistito. Illusione, pura illusione e apparenza – trasparenza,
forse.
R1 triangolo triangolo TRIANGOLO!
Era
quell’unica possibilità – quella di riuscirci, di rimanere solo e felice –
quella, l’unica per cui valesse la pena rischiare – no, non rischiare:
compromettermi, innescare un processo cieco e distratto, con una fine incerta,
una miccia che si sarebbe polverizzata chissà dove, forse fra le mie mani, e
chissà quando, forse prima della loro morte.
R2+cerchio triangolo CERCHIO CERCHIO CERCHIO!
Non
contava – almeno in quel momento –, era una fase idealizzata, probabilmente: me
ne sarei reso conto, mi sarei difeso, magari in seguito, a piano ultimato.
Cerchio R3+triangolo TRIANGOLO CAZZO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO
TRIANGOLO!
L’importante era ucciderli.
TRIANGOLO
Scaraventai il joystick sul pavimento.
“Cazzo, ma
non è possibile! Ho spinto il triangolo e quel coglione non è morto… Ma che
gioco di merda!”
***
Il
pomeriggio seguente dormii ancora, stanca del freddo di giugno,
dell’inettitudine, della pigrizia. Stanca di dormire, peraltro.
A
svegliarmi fu la sigla psichedelica di un telegiornale – forse alle otto di
sera, forse alle sei di mattina. Il cielo era ancora chiaro, ma le stanze della
mia casa erano lugubri, adombrate da pareti e soffitti pretenziosi.
Quella
mattina mi ero sollevata dal letto con lo stesso paesaggio: letti sfatti, odore
di stantio, luce timida e schiva. E Vittorio non era nel suo letto:
probabilmente era salito sul treno per Bari, oppure era già all’università, a
prendere appunti o dare un esame, non lo sapevo.
L’orario
sull’angolo destro dello schermo del cellulare mi rassicurò: erano le otto e due
del dieci giugno 2009. Quindi mio fratello
è tornato.
Sbadigliai
e accesi il computer, benché avessi un evidente bisogno di andare in bagno;
strinsi le cosce e, assordata dal tono di avvio, cercai di scrivere qualcosa.
Light la prese per mano e camminarono insieme, come una coppia di colombe, come
le api.
Cancellai
il testo appena scritto e ricominciai.
Light la condusse dolcemente verso il campo, passeggiando come due pedine di
ghiaccio sul
Senza
rileggerle, selezionai quelle parole e le eliminai.
Ricominciamo, pensai.
Lo scricchiolio della brina sotto i piedi nudi scandiva i loro passi. Il cielo
sembrava verde, sembrava ghiaccio, sembrava una gigantesca lacrima gelata che si
sarebbe liquefatta. Li avrebbe inghiottiti entrambi, salata e antica. Alcuni
fiori solleticarono le caviglie di Misa, mentre Light scriveva il suo nome,
Misa Amane, e sorrideva.
“Io ti amo, Misa.” Rise.
Cicatrici, sangue e tagli: sarebbe bastato fermarle il cuore, sarebbe stato
sufficiente… Ma
Chiusi
definitivamente il documento e telefonai a Susanna: non la sentivo dal giorno
prima, da quando le avevo consigliato di contattare Martino Manonera per
ripararle il computer, ma non mi aveva più fatto sapere nulla.
“Pronto?”
“Ciao,
Silvia, c’è Susanna?”
“Sì, te la
passo subito”, rispose sua madre.
Accavallai
le gambe, tanto per evitare di far scoppiare la mia vescica.
Dopo
qualche fruscio, sentii finalmente la voce di Susanna. E mi parve subito strana.
“Ehi,
Margie. Come va?”
All’inizio
non riuscii a capire cosa ci fosse di diverso nel suo tono, nelle parole che
utilizzava, nel… nel contegno, nel buon umore così composto e moderato.
Questo! Quello parve inconcepibile a me, abituata alle sue
frenetiche esaltazioni e angosce irrefrenabili.
Contegno.
Sì, era
proprio quello che non andava.
“Bene, tu?
Come va con il computer?”
O forse mi sto sbagliando io.
Se le
avessi chiesto qualcosa, magari si sarebbe innervosita.
“Ah, sì…
Martino è riuscito a ripararlo. È proprio un genio con i computer, sai?”
Aprii la
bocca, ma lasciai subito perdere. E se
s’incazza?
“Ah, OK.”
La sentii
ridere e tacere, almeno per mezzo minuto.
E adesso?
Cercai di
pensare a qualcosa da dire, ma mi interruppe.
“Ora devo
andare, Margie!”. Ancora una risata, breve e impetuosa, come un palloncino che
scoppia. “Ciao ciao!”
Riattaccai
senza salutarla.
Doveva
essere accaduto qualcosa, ma non osavo chiederglielo: sarebbe stato atroce
affrontare la sua collera e…
Sospirai.
Però…
Era
strana, davvero molto strana.