____Oh, you
look so beautiful tonight!
The more you see the
less you know
The less you find out as
you go
I knew much more then
than I do now ~
U2- City of blinding lights.
Strade
sempre stracolme di una
folla sciamante e chiacchierona, scalpiccio di passi che invade le
orecchie
come un ronzio fastidioso.
Voci,
suoni e colori che
si rincorrono in
acquerelli e tempere senza fine sulla tela del pazzo artista di turno.
Follia
dilagante negli occhi dalle pupille dilatate della folla che avanza,
talvolta
barcollante, verso un nessun posto, dimentica dei muti interrogativi
che il
sole ama mostrare.
Ma
la
notte – oh, la notte!
– la notte
ricopre tutto con una fantasmagorica coperta di buio e oblio,
prontamente
illuminata dai fuochi fatui di un popolo troppo stanco per cercar
risposte e per
vivere, ma abbastanza sveglio da non voler andare a dormire.
Tra
la
folla, illuminata dalle luci al neon, c’era lui; lui che mai
nella vita aveva
bevuto un goccio di un qualsivoglia alcolico, lui che mai –
mai!- avrebbe
assunto droghe.
E’ da
pazzi, è da folli, è da gente stupida.
Sei stupido anche tu?, Gli domandava retoricamente sua madre e lui, da
bravo
figlio qual’era, le dava ragione preferendo con cercare
l’oblio artificiale nell’alcolico
di turno.
Lui
così
stoico e irreprensibile, lui così perfetto e pulito.
Era
stato
un trauma per i suoi genitori quando aveva deciso di lasciare il suo
tranquillo
villaggio per trasferirsi in pianta stabile nella grandissima e
bellissima
Pechino.
Vado
a
cercar lavoro, aveva detto, così potrò aiutarvi
economicamente se ce ne sarà
bisogno.
Lo
disse
tranquillo, sapendo di star mentendo, e i suoi genitori
l’avevano osservato
attenti, bevendosi quella menzogna e cercando di dimenticare che lui
intendeva
inseguire lei.
Lei
che se
n’era andata qualche mese prima inseguendo come una folle
falena le luci
accecanti e oniriche della grande capitale, lei che l’aveva
abbandonato senza
neanche salutarlo.
E
perché
mai avrebbe dovuto disturbarsi a farlo?
In
diciannove anni di vita Mousse era riuscito a parlarle solo per pochi
minuti e
solo una manciata di volte, probabilmente, neanche si ricordava il suo
nome.
Lei
non era
a conoscenza degli anni di amore silente che aveva acceso nel cuore di
quel
bambino, ora adulto; non conosceva nessuna delle lacrime versate in sua
assenza
e all’ombra del suo ricordo.
Lei
era
andata via senza voltarsi indietro, lasciando la sua famiglia e i suoi
amici,
era andata via inseguendo quelle fantastiche luci mai viste, ma di cui
già era
follemente innamorata.
La
piccola
Shampoo era troppo bella per vegetare in un piccolo villaggio come il
loro e
Mousse lo sapeva, ma ciò non lo aiutava affatto.
L’aveva
inseguita come un pazzo, aveva trovato un lavoro, una modesta
abitazione e,
infine, l’aveva ritrovata.
Mousse
si
fermò davanti alla stessa strada in cui si fermava da ormai
nove mesi a quella
parte.
Fermatosi
fece un gran
respiro, assaporando l’aria
frizzante della sera rinforzata dai profumi afrodisiaci ed allettanti
provenienti da ogni dove, chiuse gli occhi un’ultima volta e
poi imboccò la
piccola via laterale.
E
lei era
lì, lì come sempre.
Vestita
di
un lungo abito rosso dal taglio cinese, finemente decorato da fili
dorati; i lunghi
capelli viola legati in alto con un
elegante chignon, il volto truccato finemente, le labbra dipinte di un
rosso
provocante.
Sorrideva
lasciva dall’interno di una vetrina, mostrandosi senza
vergogna al piccolo
pubblico che si era venuto a creare lì davanti.
Mousse
non
si avvicinò, rimase dall’altro lato della strada,
rimase a fissare lo spacco
generoso del vestito - che lasciava scoperte le gambe flessuose - ,
rimase ad
osservare il suo seno prosperoso e i suoi occhi mielati ed eccitanti.
Non
fece
nulla, come sempre.
L’aveva
cercata come un pazzo durante i primi
giorni a Pechino, la voleva riportare con sé dalla sua
famiglia ancora
sconvolta, la voleva portare nel loro villaggio, l’avrebbe
voluta sposare.
Avrebbe
voluto essere stupidamente felice insieme
a lei.
Sorrideva
scioccamente mentre cullava i suoi sogni infantili; una sera e quella
strada li
avevano distrutti per sempre.
L’aveva
vista, l’aveva vista lì, mentre si mostrava agli
sguardi libidinosi dell’uomo
di turno, l’aveva vista sparire dietro a quella tenda per non
farvi ritorno se
non un’ora dopo, alle volte mai più per quella
sera.
Alle
volte
il cliente la pagava per l’intera notte.
Ed
ogni
notte Mousse rimaneva lì, nella speranza che ritornasse,
nella speranza di
poterla vedere ancora.
La
prima
volta che l’aveva vista in quella vetrina, se lo ricordava, aveva vomitato dietro un
cassonetto.
Vederla
esposta in quel modo, alla stregua di un pezzo di carne o di un oggetto
costoso
l’aveva disgustato, ma poi si era abituato, purtroppo.
Aveva
fatto domande e ricevuto un’alquanto sommaria descrizione dei
fatti.
Shampoo,
a
quanto pareva, faceva parte di quel numero sempre più
spropositato di ragazze
che approdavano nella grande città senza saper dove andare e
senza il becco di
un quattrino: era
quasi scontato che le
più belle di loro fossero convinte, con pegni
d’amore fittizi o ingenti
quantità d’alcool, ad seguire l’uomo gentile
di turno che, in un modo o in un altro, finiva per prenderle
a lavorare
come prostitute.
Prostitute
d’alto rango però, eh!
Di
quelle
che si ritrovano esposte, come graziose bamboline, in vetrine ricche di
pizzi e
morbidi cuscini, una di quelle costose che solo in pochi possono
permettersi.
E
Shampoo
era una di queste con la differenza che lei, da piccola ingenua
qual’era, aveva
creduto ciecamente a quelle parole d’amore ed ora si trovava
ad amare
profondamente il suo inconfessato aguzzino.
Mousse
l’aveva
vista, qualche volta, mentre amoreggiava con lui, un uomo alto dai
capelli
scuri e gli occhi intelligenti: aveva
visto gli occhi innamorati di lei e come quelli del suo protettore si
tingessero di autocompiacimento.
Si ficcò stizzito
le mani in tasca cercando di
racimolare un po’ del calore perso da quando era
lì ad osservarla; ora un po’
di quella folla improvvisata era svanita: forse si erano annoiati,
più
probabilmente avevano visto il suo prezzo.
Ma
lei
restava lì, bella e splendente, e solo allora si accorse
che, i fili dorati sul
suo vestito, componevano le immagini aggraziate ed eteree di tante
piccole
farfalle che si dipanavano sullo scarlatto, e quanto mai scarso,
tessuto
lucente.
Si
ritrovò
a pensare che la farfalla era l’immagine più
adatta a lei.
Era
sempre
stata fuggevole, sempre da qualche altra parte, pensava
a volare lei, non poteva fermarsi ad osservare lui: una
timida e stupida papera.
Era
‘papera’
il soprannome che le aveva affibbiato lei,
era sempre stato goffo, sempre troppo rumoroso…
si chiese se ricordasse almeno questo e si diede dell’idiota
per averlo solo
pensato.
Stringendosi
nel cappotto, troppo leggero per quel freddo, Mousse notò
che anche l’ultimo
spettatore aveva preferito distogliere lo sguardo dalla magnifica, ma
quanto
mai cara, visione della ragazza per dirigersi forse in lidi
più a buon mercato.
Osservò
Shampoo
sedersi su di una piccola sedia ed
iniziare a
giocherellare con una ciocca
di capelli lasciata sciolta, sembrava sovrappensiero, lui bevve ogni
suo
movimento, ogni inclinazione del suo volto, ogni espressione nei suoi
occhi
dolci.
Aveva
cercato
di odiarla, di disprezzarla per le sue scelte, di incolparla per ogni
cosa ma
non c’era riuscito.
Ritornava
a
guardarla ogni sera, ritornava in quella strada ove i suoi sogni
idilliaci si
erano frantumati contro il muro della vita, rubava ore di sonno alla
sua vita,
rubava ore alla sua vita per vederla di nuovo, rubava vita dal suo volto per trovare la forza di
alzarsi al mattino.
Era
vita anche quella?
L’unico
che doveva odiare era sé stesso, odiarsi per non essere
riuscito a fermarla,
per non essere riuscito a parlare con lei per più di una
manciata di minuti,
odiarsi perché, da patetico qual’era, non era mai
riuscito a dirgli quanto la
amava.
E
l’amava,
dio, eccome se l’amava!
La
guardava
assetato, folle e ancora ottusamente innamorato, la guardava come si
guarda la
più grande opera d’arte, con muta e pacata
riverenza senza trovare il coraggio
di accarezzarla, come il più fragile dei cristalli, come il
più profumato dei
fiori e non come si guarda una puttana.
Ma
lei era
questo, era una puttana, ed era stata proprio
lei a sceglierlo convinta così di
poter salvare il suo amato dai debiti ma, hey!, lei ci stava riuscendo.
Peccato
però che appena l’ultimo debito si fosse estinto
anche lui sarebbe improvvisamente
dileguato nel nulla.
E
Shampoo?
Chi avrebbe pensato a lei?
Pensava,
e
sperava, di poter essere lui quel qualcuno e non gli importava del suo
corpo
sporco, deturpato da centinaia di mani e di bocche lascive, lui la
voleva, la
desiderava.
Ancora
e per sempre, ancora e per sempre.
E
lo
sapeva, lo sapeva che era una fottutissima malattia, una stupida
ossessione, un’inconfessata
maledizione: amare una farfalla, e una
farfalla notturna
per di più, lo avrebbe reso infelice.
Le
farfalle
amano la libertà e le falene sono – e saranno-
follemente innamorate delle luci
della sera e vi si avvicineranno sempre, sperando in un briciolo di
calore, e
saranno felici: saranno felici anche di bruciarsi.
E
se lei
si fosse bruciata a lui chi avrebbe pensato?
Sarebbe
morto
giorno dopo giorno in quella città enorme in cui si trovava
ancora spaesato,
sarebbe morto senza emettere un fiato, contemplando le ali meravigliose
di
quella falena irraggiungibile e sarebbe stato stupidamente ed
ironicamente
felice di una morte così dolce.
Cercò,
ormai schiavo dell’abitudine,
gli
occhi della sua bellissima farfalla e quasi sobbalzò,
dandosi prontamente dello
stupido, quando vide i suoi occhi guardare lui, sì,
proprio lui.
Come
in
trance, come abbagliato e incantato dal suo sguardo, si
ritrovò a fare una cosa
che non aveva mai fatto in ben nove mesi: si avvicinò al
vetro.
Gli
occhi
color miele di lei lo seguirono divertiti e un po’ maliziosi
e continuarono a
guardarlo così anche quando i loro volti furono vicini,
così vicini da cogliere
le sfumature delle iridi, così lontani da non potersi
nemmeno sfiorare.
Cercò
di
parlare, di trovare qualcosa da articolare, ma poi si
ricordò che il vetro l’avrebbe
impedito; ingoiando a vuoto continuò a guardarla,
affascinato dal suo viso -
ancora più bello di quanto ricordava - e
improvvisamente Shampoo alitò sul vetro, scrivendo in fretta
il suo nome prima
che l’alone svanisse.
Mousse
sorrise,
ricordando di quanto lei amasse scrivere sui vetri nelle notti fredde
d’inverno.
E
sorrideva
ancora quando, imitandola, scrisse il suo nome.
La
ragazza
lesse il nome e i suoi occhi sembrarono per un attimo assorti, fu un
attimo, ma
bastò a Mousse per illudersi. Di
nuovo.
Shampoo
sorrise,
articolando un ‘bel nome’ sulle sue labbra carnose,
poi lo guardò interrogativa
e Mousse capì la sua tacita domanda.
Scosse
il
capo frettolosamente, nemmeno se avesse avuto i soldi necessari avrebbe
pagato
una notte con lei, era squallido.
Shampoo
sorrise
e alitando sul vetro scrisse in fretta: “Magari un
giorno…”
Il
ragazzo
osservò gli ideogrammi con malinconia ma sorrise lo stesso,
alla meglio,
annuendo subito dopo.
Magari
un
giorno l’avrebbe trascinata via da lì, no?
Sorpreso,
vide Shampoo tracciare nuove parole sul vetro, la frase era lunga e
l’alone
svaniva in fretta ma alla fine lesse: “Attento o le luci
della sera ti faranno
loro schiavo.”
Shampoo
sorrise amaramente e Mousse la guardò preoccupato
– ti sei forse bruciata le
ali, amor mio? – poi, sorridendo tranquillo, annuì
e la ragazza sorrise con più
convinzione.
La
guardò
di nuovo e per un’ultima volta, posando il palmo della mano
sul freddo del
vetro, immaginando che fosse la sua mano, e Shampoo fece lo stesso di
nuovo
divertita.
Con
un
ultimo cenno ed un ultimo sorriso Mousse si congedò,
voltando le spalle a lei e
inforcando la via principale di quel quartiere a luci rosse.
Stupidamente
pensò che nessuno gli aveva mai fatto i complimenti per il
suo nome e sorrise
scioccamente, poi l’ultima frase di Shampoo tornò
a rimbombargli nelle orecchie
come se l’avesse pronunciata ad alta voce.
Attento,
o le luci della sera ti faranno loro schiavo.
Attento,
gli diceva, ma lui non ne aveva bisogno, non si sarebbe mai innamorato
dell’effimera
sera e dei suoi fuochi fatui, sarebbe stato uno schiavo, quello
sì, ma solo di
lei e della vita che, ogni giorno, le rubava per trovare la forza di
dormire e
di vivere un altro giorno, aspettando la notte e aspettando di vederla.
Schiavo.
Uno
schiavo
felice, innamorato della sua immagine e del suo volto, innamorato delle
sue ali
come non lo sarebbe mai stato della notte, e mentre la sua falena
avrebbe
inseguito le sue amate luci lui avrebbe inseguito lei, stando attento a
non
farle bruciare le ali.
E
amandola,
amandola come se fosse l’essere più meraviglioso
della notte.
E
vivendo per
quei momenti rubati, vivendo di giorno ed aspettando la notte.
Ancora
e per sempre, ancora e per sempre.
Una
maledizione? Malattia, ossessione?
Che importanza
aveva? In fondo sarebbe stata una morte dolce e ne sarebbe stato quasi
felice.
Sorrise
alla notte, diventando un puntino tra
le masse sciamanti di una città che, no, non
dormiva mai.
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La
mia prima AU, la mia prima AU!
Ho sempre detto
di odiarle, è vero, ma quest’ambientazione mi
piaceva troppo ed ho deciso di
usarla.
Ho voluto dare
un contributo ad una coppia mai utilizzata, o poco utilizzata, in
questo
fandom: Mousse/Shampoo.
Li trovo tanto
carini, anche se lei mi sta un po’ qui.. XD
Ovviamente oltre
ad essere una AU è anche una What If..?, perché
Mousse e Shampoo non hanno mai
incontrato Ranma, il villaggio non è quello della amazzoni
perché, altrimenti,
lei non avrebbe mai potuto né voluto lasciarlo.
I personaggi
sono IC, o almeno credo, la storia è ambientata a Pechino
e… Boh, spero tanto
vi sia piaciuta.
Perché
a me è
piaciuto scriverla, lo ammetto.
Viva i
personaggi secondari perché io lo amo! XD
Alla
prossima.
Red.