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Autore: manubibi    27/12/2009    2 recensioni
d'accordo, i Muse ai tempi della prima guerra mondiale è un'idea decisamente malsana! non so come mi sia venuta, comunque avverto subito che c'è dello slash XD comunque i commenti sono AMORE, come sempre xD
Genere: Introspettivo, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Christopher Wolstenholme, Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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“BRITONS – WANTS YOU – JOIN YOUR COUNTRY’S ARMY – GOD SAVE THE KING”

 

Dominic gettò la sigaretta nel posacenere, schiacciandola con forza in segno di disapprovazione.

Quel manifesto era stato stampato anche per lui: alla leva non sfuggiva nessuno, neanche in un paesino insignificante come Teignmouth. Guardò suo zio, che teneva fra le mani quel foglio ingiallito con la faccia baffuta di un personaggio di fantasia che lo indicava direttamente, e glielo mostrava con forte aspettativa e un’espressione che si potrebbe descrivere come “folle”.

-Ragazzo, lo Stato ha bisogno di te! Difendi la reputazione del nostro Paese!

Quello, più o meno, era il ritornello di quei giorni un po’ ovunque, specialmente nelle zone dove il partito laburista era in maggioranza, partito del quale lo zio Albert era, per usare un eufemismo, affezionato.

Il patriottismo fanatico inglese, una piaga sociale.

Dominic sbuffò e alzò gli occhi al cielo con aria frustrata.

-Certo, finché ci vado io è un dovere, giusto?-, replicò con un tono di sfida, ghignando sarcastico.

Zio Albert si accigliò indignato, arrossendo di rabbia.

-Come osi rispondermi così?-, urlò, schiaffeggiandolo con forza.

-Albert!-, ruggì immediatamente il padre, uscendo di casa e prendendolo per il polso. –Non osare mai più alzare le mani su mio figlio!

Dominic tremava di rabbia, con il collo ancora girato di lato per la violenza dello schiaffo e i segni delle dita che cominciavano a disegnarsi in rosso sulla guancia. Più che il dolore bruciava l’umiliazione. Eppure neanche lui, da sempre ribelle e orgoglioso, aveva il coraggio di reagire. Zio Albert era diventato uno dei più importanti esponenti del partito Labour in Devon, quindi portava onore alla famiglia; William invece era considerato la mela marcia, perché la sua impresa di estrazioni minerarie era fallita molti anni prima ed ora era un semplice artigiano, uno come tanti altri. Non portava lustro a nessuno.

Perciò zio Albert si sentì in diritto di assestargli un pugno li berandosi dalla sua presa.

Dominic rimase pietrificato per qualche secondo, poi arrossì allo stesso modo dello zio, i suoi occhi chiari si incendiarono e si gettò contro di lui con un urlo, cercando di colpirlo al viso, ma l’altro fu più veloce e lo bloccò con forza.

La madre, che era accorsa a sua volta, guardava impotente ma chiuse gli occhi mentre suo figlio veniva picchiato con la violenza che solo l’ideologia è in grado di infondere, chiuse gli occhi per non piangere.

-Dom, mi dispiace-, disse William poi, una volta deciso che il ragazzo si sarebbe arruolato.

-Non è colpa vostra, padre-, rispose. Aveva un occhio nero e svariati lividi, ma quello era il meno – la ferita peggiore era dentro di lui, nel suo orgoglio, e bruciava. Ma accettò con rassegnazione il suo destino, di dover partecipare ad una guerra della quale non gli importava nulla. La Gran Bretagna si era infilata nel conflitto quando la Germania aveva invaso il Belgio, stato neutrale e per di più affacciato sulla Manica…troppo vicino.

-Maledetti tedeschi-, mormorò cupamente accendendosi un’altra sigaretta e guardando il cielo scuro fuori dalla finestra.

-Quindi…domani vai ad arruolarti?-, domandò la madre, con la voce che tremava. Solo una madre può capire quanto disperatamente desiderasse che la risposta fosse “no”.

-Cos’altro posso fare, mamma? Se diserto mi vengono a prendere.

Gli fece troppo, troppo male vederla piangere. Non poteva restare lì.

Si girò e si rifugiò in un bosco fuori dal paese, sotto un grande e vecchio albero avvizzito che si ripiegava su sé stesso fino a toccare terra coi rami spogli, sotto il sole di Agosto. Una volta era rigoglioso, e la sua chioma era il perfetto nascondiglio per Dominic, che aveva otto anni e nascondeva in un buco nel tronco tutti i suoi piccoli tesori: monete, conchiglie raccolte sulla spiaggia, pagine di libri, la fionda con i proiettili e altri piccoli oggetti. Infilò una mano nel buco e ne estrasse un vecchio disegno polveroso che ritraeva a tratti infantili tutta la famiglia Howard. C’era anche zio Albert. Quando non era un pazzo fanatico.

Bruciò il disegno guardandolo accartocciarsi impassibile. Quel passato era morto, e ormai anche lui.

Tornò a casa per cena poco dopo, con la stessa espressione vuota e il cuore che batteva solo per necessità biologica, mangiò poco e andò a letto senza una parola.

Quella notte non dormì, la passò tutta a fissare il soffitto cercando di non pensare, ma quello era inevitabile, quello nessuno poteva impedirgli di farlo.

 

Christopher gettò distrattamente a terra l’ennesima bottiglia di whisky, ruttando e grattandosi la pancia con aria assente. Le sei di mattina ed era già ubriaco.

-Oggi vado a…alluolammi-, annunciò con la bocca impastata, e andò a sbattere contro un muro. La madre lo guardava tristemente rassegnata.

-Chris, smettila di bere-, gli disse per l’ennesima volta, ma lui sembrò non sentirla e lei non sembrava aspettarselo.

-…a…arruola…r…mi-, si corresse lui, inciampando sui suoi stessi piedi. Non c’era niente in quella stanza che non girasse, cazzo.

-Vado a tirare via quelle maledette erbacce-, borbottò poi, caracollando verso l’uscita della piccola casetta.

Da quando papà era morto aveva dovuto aiutare la madre a prendersi cura degli altri nove fratelli e di quei maledetti campi che producevano a malapena il cibo necessario a sfamare tutta la famiglia, e le rare volte in cui producevano delle eccedenze il guadagno se lo beveva al pub con “quei quattro porci dei tuoi amici”, come diceva mamma.

Christopher beveva per non farsi toccare dal pensiero che non aveva futuro, non in Inghilterra. Non c’era niente a Teignmouth, nessuna applicazione per la mente. Perché da ubriaco non lo dimostrava, ma sapeva di essere intelligente, di avere delle potenzialità. Quando andava a scuola non aveva nessuna difficoltà di apprendimento, e la cosa peggiore era che a lui piaceva imparare, e gli era piaciuto leggere i pochi libri sui quali era riuscito a mettere mano. Beveva per non pensare a quanto desiderava conoscere.

E invece di usare le mani per sfogliare quei bei libri e toccare la carta ruvida e porosa che pareva tanto confortevole, doveva adoperarle per strappare i frutti della terra. Ma finché l’alcol gli inibiva i sensi poteva fare il bifolco e accettare di andare in guerra.  Forse la morte gli avrebbe dato un po’ di serenità.

Dopo un paio d’ore si asciugò la fronte e rientrò in casa, di nuovo sobrio.

Approfittò della possibilità di lavarsi, perché chissà quando avrebbe avuto la possibilità di farlo, sul fronte.

Poi prese un sacco, lo riempì delle cianfrusaglie necessarie, salutò i fratellini e le sorelline e la madre in lacrime, poi partì col vino che scorreva nelle vene.

 

-Nome?-, abbaiò il Generale McKelley.

-Robert Winston O’Donnell, signore-, rispose prontamente il ragazzo davanti a lui.

-Sei malato?-, continuò l’altro senza guardarlo.

-No, signore.

-C’è altro che dovrei sapere?-, aggiunse il Generale, scrivendo su un registro.

-Non credo, signore.

-D’accordo, vai avanti.

Il ragazzo, camminando a passo marziale, era evidentemente ansioso di combattere.

-Tu?-, chiese il Generale in tono scocciato. Era da tre ore che faceva le stesse fottute tre domande a quei mocciosi.

-Matthew James Bellamy-, rispose con espressione compiaciuta.

Il Generale alzò lo sguardo.

La famiglia Bellamy era un’istituzione non sono a Teignmouth, ma nel Devon e in tutto il sud della Gran Bretagna per i propri meriti militari e per l’impegno politico nel Partito Laburista, anche se ormai con le rivendicazioni della classe lavoratrice non c’entrava più nulla. Matthew era stato educato a disprezzare le classi inferiori, con la loro ignoranza e rozzezza. In pratica, era laburista solo a parole, così come la sua famiglia.

-Ooh, il signorino è un Bellamy, si sente troppo superiore per chiamarmi “signore”-, ringhiò McKelley, sarcastico. Ringhiò letteralmente, e aveva proprio la faccia da mastino, pensò Matthew.

Per qualche istante fu tentato di rispondere a tono, ma decise di comportarsi bene. L’aveva promesso a suo padre.

“Devi fare una buona impressione sul generale McKelley. Se gli piace potrebbe evitarti le prime file al fronte”, gli aveva detto.

-Mi scusi, signore-, rispose ossequiosamente.

-Così va meglio. Hai qualche malattia?-, replicò McKelley rilassandosi.

-No, signore, sono vaccinato-, rispose il ragazzo.

-Buon per te. Levati dai piedi.

Trattenendo l’indignazione, Matthew passò alla stanza successiva per la visita medica.

Dominic, che era dietro di lui, lo fissò disgustato. Quel ragazzo era uno dei “dannati aristocratici con la puzza sotto il naso” che suo padre disprezzava tanto. Il resto della famiglia cercava in tutti i modi di inserirsi nelle upper classes, ma William aveva deciso di rinunciare a quell’assurda scalata sociale. E più di tutti odiava i Bellamy, così come Dominic. Aveva visto troppe volte quel Matthew aggirarsi per Teignmouth guardando tutti dall’alto in basso come lo spocchioso ragazzino viziato che era, vantandosi della villa a Londra coi suoi amici ricchi e pontificando a voce alta sulla lotta sociale per i lavoratori che la sua famiglia conduceva, quando nessuno di loro aveva un vero lavoro. Avrebbe tanto voluto scrollarlo e dirgli che i principini ormai erano figure arcaiche.

-Tu chi sei?-, borbottò McKelley.

-Dominic James Howard, signore-, rispose prudentemente.

-Malattie?

-Penso di no, signore.

-Bene. Altro?

-No, signore-, rispose passandosi la mano fra i capelli castani.

-Allora sparisci anche tu-, sbottò il generale, già puntando il ragazzo successivo.

Dominic si diresse verso la porta dietro il Generale, con aria depressa. Si fece esaminare sbrigativamente dal medico che stabilì che era idoneo. Era dentro. Adesso sono un’arma nelle mani del Governo, pensò lucidamente, e a nessuno di loro importerà se muoio.

 

-Perché quella faccia? Non sei felice di servire il tuo paese?-, gli chiese Bellamy, seduto accanto a lui, con aria sprezzante. Praticamente la solita.

Dominic, incredulo, gli rivolse lo sguardo. “Sta zitto, non rispondere”, si disse, ma poi pensò che quel moccioso meritava una lezione.

-No, Bellamy, anche se so che il tuo paparino adorato ti ha riempito la testa vuota di tutte quelle stronzate patriottiche e so che non puoi capire quanto siano idiote, ma io non sono felice di morire per un Paese che non ha mai fatto niente per me. Io non ho voluto questa guerra, nessuno mi ha chiesto se ero d’accordo, forse la vuole quel partito di cui fai parte solo perché ti fa comodo. Perché a voi non frega assolutamente niente della classe lavoratrice.

Matthew lo fissò boccheggiando, traboccante di altezzosa indignazione.

-Come osi?-, strillò spintonandolo e dimenticando le buone maniere che gli erano state inculcate negli ultimi anni del regno Vittoriano.

“Hai provocato la persona sbagliata, nanetto viziato”, pensò Dominic, che si girò e lo mandò a terra con un solo pugno.

Matthew rotolò giù dal sedile del furgone urlando fra le risate e gli applausi del resto degli arruolati, umiliato e inviperito.

-Mio padre…-, cominciò mentre si rialzava.

-Qui non c’è tuo padre!-, urlò Dominic esasperato, -Qui non sei nessuno, proprio come me! Qui il tuo cognome non conta niente! Qui siamo tutti uguali, lo capisci o no? Sanguineremo e moriremo tutti allo stesso modo!

Matthew pietrificò. Non ci aveva mai pensato. Non aveva mai messo in discussione l’idea che sarebbe tornato a casa su un cavallo rampante sventolando la bandiera inglese fra gli onori, accolto da eroe. Ma forse quella era un’immagine romantica sorpassata. Non aveva pensato che in guerra si muore. Ma quel ragazzo gli aveva messo davanti la realtà, anche se in modo brutale. Non poteva argomentare, perciò rimase in silenzio e si sedette di nuovo, umiliato.

Dominic ghignò. Finalmente gli aveva chiuso quella dannata bocca.

McKelley lo guardò dal sedile anteriore con ghignante soddisfazione: la pensava esattamente allo stesso modo, specialmente perché aveva avuto a che fare con gli altri Bellamy, se possibile ancora peggiori. Ostentavano troppo ed erano falsi.

Ma d’altra parte non era colpa del moccioso se era stato riempito di cazzate. Ognuno è frutto dell’ambiente in cui cresce, come dice Balzac. E Bellamy era cresciuto in un pessimo ambiente.

Ah, ma ora la musica cambierà, pensò.

[Il manifesto della scritta iniziale esisteva davvero XD Comunque ci tengo a sapere se l'esperimento vi può piacere =)]

   
 
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