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Autore: beanazgul    29/06/2005    2 recensioni
di PlasticChevy traduzione di: beanazgul aka Adûnaphel Nota: Questa è la traduzione della storia originale in inglese “The Captain and the King”, scritta da PlasticChevy, un’autrice di fanfiction dotata di grande talento. E' ispirata al mondo del Signore degli Anelli, ma si tratta di un’ AU, cioè una versione alternativa del testo di Tolkien, i cui eventi prendono una strada diversa ad Amon Hen....se vi è sempre dispiaciuto vedere Boromir morire alla fine del primo libro/film, allora questa storia fa per voi! Se avrete la pazienza di avventurarvi in questa miriade di capitoli vi assicuro che non ve ne pentirete: vi lascerà senza fiato! PlasticChevy mi ha gentilmente dato il permesso di tradurla e io ho cercato di fare del mio meglio per rendere giustizia alla sua bravura, anche se è un lavoro molto impegnativo perché la storia è molto complessa e mi rendo conto che una traduzione non è mai all’altezza dell’originale! Disclaimer: Il Signore degli Anelli e tutti i suoi personaggi sono proprietà di J.R.R. Tolkien e dei suoi eredi. Li sto utilizzando solo per divertimento, non per vendita o profitto.
Genere: Drammatico, Azione, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Aragorn, Boromir, Merry, Saruman
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Il Capitano e il Re
Il Capitano e il Re

Chapter 17: Compagnia

Boromir rimase ad ascoltare passi attutiti dei piedi nudi sul terreno che si allontanavano inesorabilmente da lui, e gli sembrò di immaginare Merry che camminava a capo chino, sconsolato. Avrebbe dovuto richiamarlo. Avrebbe dovuto gettar via quell'umore tetro, raccogliere il suo coraggio e tornare insieme a Merry al banchetto di nozze dove Aragorn e i Grandi della Terra di Mezzo stavano festeggiando riuniti. Invece, tornò ad appoggiarsi contro la pietra scaldata dal sole del parapetto, ascoltando quei passi strascicati, riluttanti, che si allontanavano verso la Cittadella senza di lui.

Ripensò alle parole di congedo di Merry, e si stupì di se stesso, di come si era ridotto, se i suoi amici temevano a lasciarlo solo per un’ora o due. "Sei sicuro che sia una buona idea?", aveva chiesto Merry. "Non mi piace l’idea di lasciarti qui da solo." Poi aveva aggiunto, "Cerca di stare fuori dai guai, Boromir!"

Come se potesse mettersi nei guai in quel pacifico giardino, in piena luce del sole, con l’intera città intenta a festeggiare nelle strade sotto di lui. Il Sovrintendente di Gondor non aveva bisogno di una balia che lo seguisse ad ogni passo che faceva!

Ma, mentre si appoggiava con le spalle contro il muro rivolgendo il viso verso la brezza, gli parve evidente che una balia era esattamente quello di cui aveva bisogno. Respinse con violenza quel pensiero lontano da lui, prima che lo ferisse troppo profondamente, e si impose di liberare la sua mente. Di ignorare quel familiare senso di solitudine che gli attagliava lo stomaco ogni volta che Merry se ne andava. Dopo la confusione della Torre, non voleva compagnia. Voleva solo tranquillità, solitudine e pace per riposare.

Sotto di lui, per le strade di Minas Tirith, i canti continuavano dal sorgere del sole, mentre il popolo di Gondor accoglieva la sua nuova Regina, e insieme alle voci giungeva il dolce profumo dei fiori nell’aria tiepida dell’estate. Musica e profumo. Lo avevano circondato per tutta la giornata, aderendo alla sua pelle come le pieghe del suo mantello, pesando su di lui come la cotta di maglia che indossava sotto gli abiti preziosi. Nonostante ne fosse felice, li trovava stranamente opprimenti.

Il Sovrintendente sapeva che la sua stanchezza e il suo abbattimento non avevano a che fare con le celebrazioni di quel giorno. In verità era stata una splendida giornata, una giornata di prodigi, che rivaleggiava persino con il giorno in cui Aragorn aveva rivendicato la sua corona. Tutta la città festeggiava l’unione di Elessar e Arwen Undómiel, partecipando della felicità a lungo attesa del suo Re, e Boromir condivideva in pieno quella gioia. Ma al di sotto della gioia era in agguato una quieta, dolorosa malinconia, che non riusciva a scacciare.

Secondo ogni logica avrebbe dovuto vivere quel giorno con la medesima esaltazione di Aragorn. Segnava un nuovo inizio, non solo per il Re e la sua sposa, ma per tutta Gondor e la razza degli Uomini, e per nessuno più di Boromir figlio di Denehtor.

La sua mano trovò il pesante fermaglio che gli chiudeva il mantello, sfiorandolo quasi con reverenza. Le sue dita corsero sullo smalto liscio, seguendo i contorni marcati da dure gemme. Erano piccole, come stelle in un cielo notturno. E al centro dell’ovale, inconfondibile, era incisa la familiare sagoma di un grande corno. Boromir poteva sentire il freddo argento inserito in fili sottili nel più caldo smalto, formando i contorni del corno tra le gemme che rappresentavano le stelle.

Di tutti i prodigi di quel giorno, questo era il più grande. Boromir poteva ancora sentire il calore nella voce di Aragorn mentre gli applicava il fermaglio al mantello con le sue stesse mani, dicendo, "Il Corno di Gondor non è spezzato. Si trova tra le stelle dell' Anórien, e io consegno entrambi nella tua custodia. Io nomino te, Boromir figlio di Denethor, Sovrintendente di Gondor, Principe di Anórien."

Boromir sentì le lacrime salirgli alla gola a quel ricordo. Aragorn gli aveva fatto dono dell’Anórien. E a Faramir era andato l’Ithilien, quella terra verde e segreta che suo fratello amava come nessun'altra. Il Re non avrebbe potuto scegliere doni che toccassero i due fratelli più profondamente o che lo legassero più a lui, se mai i due avessero avuto bisogno di ulteriori dimostrazioni del suo affetto.

Boromir tracciò di nuovo l’aggraziata sagoma del corno, e deglutì dolorosamente le lacrime che non poteva piangere. Pricipe di Anórien. Quel nome evocava alla sua mente l’immagine di svettanti montagne incoronate di neve, di alberi scuri alla luce della luna, di un cielo notturno visto attraverso rami contorti, punteggiato di stelle.

Lasciò ricadere la mano, stringendo il pugno come per conservare la memoria di quello che aveva toccato. Quel giorno Boromir si sentiva allo stesso tempo fiero e abbattuto, felice e addolorato, perché quel dono senza eguali aveva un prezzo: la perdita di suo fratello.

Anche Faramir, ora, aveva un regno su cui governare, e nulla lo tratteneva ormai a Minas Tirith se non l’affetto che aveva per Boromir. Il dovere e il desiderio lo richiamavano in Ithilien. Si sarebbe costruito una principesca dimora nelle Emyn Arnen, dove sarebbe andato a vivere con la sua bellissima moglie. Éowyn, Bianca Dama di Rohan. La gioia di Faramir era quasi palpabile, il suo rimpianto nel lasciare Boromir e la Città Bianca appena un'eco di tristezza, presto dimenticato. Boromir non poteva incolparlo per la sua felicità, e non voleva rattristarlo con il suo dolore.

Anche se il suo amore per Minas Tirith era profondo e il suo cuore aveva le sue radici nella Città Bianca, Boromir si sentiva sempre più alla deriva, senza ancora e senza guida. Rimaneva ancora Aragorn, ma non poteva chiedere aiuto a lui. Al contrario, era il sovrintendente che avrebbe dovuto sostenere e aiutare il Re, non viceversa, e Aragorn certamente si aspettava che Boromir fosse al suo fianco, pronto, quando il peso del dovere si fosse fatto troppo pesante per lui solo. Ma come poteva Boromir prendere posto a fianco del suo Re, senza una mano amica che lo guidasse?

Era quello il cuore del problema, la fonte della sua malinconia, e della paura che lo aspettava dietro ogni angolo oscuro. Tutte le persone che amava e di cui si fidava lo stavano abbandonando, in un modo o nell'altro, lasciandolo solo a districarsi come meglio poteva, circondato da estranei. Forse quello era il modo di Aragorn per costringerlo a prendere una decisione, per fargli accettare la vita che lo aspettava e spronare il suo coraggio, perché affrontasse il futuro senza fratelli o amici al suo fianco. Se era così, la partenza di Faramir era per il suo bene, e avrebbe dovuto esserne grato. Ma per il momento, non poteva trovare alcuna gratitudine dentro di sé, solo dolore e solitudine.

"Mio signore?"

La voce lo strappò bruscamente dalle sue meditazioni, facendolo alzare in piedi di scatto, tutti i sensi all’erta.

"Mio signore, non ti senti bene?"

Boromir si lasciò ricadere sulla panca, sentendosi il viso avvampare per l'imbarazzo. Era talmente assorto nei suoi pensieri che non aveva udito il rumore dei passi sulla ghiaia o il frusciare delle gonne. Ora non sapeva se essere umiliato o divertito dall'essere stato colto alla sprovvista.

"Gil. Non ti avevo sentita."

"Mi dispiace averti disturbato."

"No. Solo non me l'aspettavo." Riprendendo a fatica il controllo, si appoggiò di nuovo al parapetto, rivolgendo a Gil il suo sguardo bendato, con un mesto sorriso sulle labbra. “Non dovresti strisciarmi alle spalle in questo modo, Gil. Avrei potuto passarti a fil di spada prima di accorgermi che fossi tu”.

"Avrei più paura di essere calpestata, ustionata o spinta giù dalle mura”, ribatté lei, in tono asciutto.

Boromir stavolta sorrise apertamente, rilassandosi nel familiare duello verbale con Gil. “E avresti il coraggio di venire più vicino?”

"Sono abbastanza al sicuro. Non ho la teiera con me”. Poi, all’improvviso, Gil mise da parte l’ironia, e con voce piena di autentica preoccupazione, disse: “Sei qui da quasi un’ora, mio signore. C’è qualcosa di cui hai bisogno? Dove si trova Mastro Merry?”

"Merry è al banchetto, al seguito di Re Éomer. Avrebbe lasciato anche lui la festa, ma deve stare con il suo signore, e non può farlo."

"E così tu sei solo."

"Sì, per mia scelta."

"Ti chiedo perdono. Ora me ne vado”, disse Gil in tono formale.

"No, non andare!" Le sue parole la fermarono, e Boromir udì i suoi piedi che grattavano sulla ghiaia mentre si voltava verso di lui ancora una volta. Alzandosi in piedi, Boromir le rivolse un cortese inchino, accompagnato dal suo sorriso più affascinante. “Ti prego, cammina per un po’ con me nei giardini. Non lasciarmi alla mercè dei miei pensieri".

"Mio signore, io..."

Boromir le offrì il braccio, invitandola. "Andiamo, Gil. Non vuoi venire con me?"

Gil sospirò con aria di disapprovazione, come per far capire a Boromir che le sue maniere cortesi non la ingannavano, ma accettò ugualmente il braccio di Boromir. “Non c'è bisogno di fare questi giochetti con me", lo rimproverò, "il dovere mi impone di obbedirti".

Ridendo, Boromir si incamminò verso ovest, allontanandosi dalle Case di Guarigione, seguendo la curva del muro. Gil accordò la sua andatura con quella di Boromir, seguendo la direzione da lui scelta, e guidando i suoi passi soltanto quando trovavano qualche ostacolo lungo il cammino. Insieme, discesero lungo il dolce pendio del prato verso occidente.

Camminavano in un piacevole silenzio, e Boromir non fece alcun tentativo di romperlo, accontentandosi di sentire l’odore dell’erba, il sole sul suo viso, e godendo della compagnia di Gil. Con lei accanto, non sentiva più quel senso di perdita e di tristezza. Lasciò che il suo spirito si sollevasse, sciogliendo il nodo di dolore dentro di sè. A dire la verità, dal momento il cui la voce di Gil lo aveva strappato alle sue meditazioni, non aveva più pensato agli addii futuri, ma solo al conforto che gli portava la sua presenza amica.

In quel momento di tranquilla felicità, Boromir non si preoccupò di guardare dentro al suo cuore o di considerare dove questo avrebbe potuto condurlo. Non voleva pensare a quanto apparisse assurda la sua amicizia con Gil agli occhi dei suoi pari. E non voleva pensare a tutti i doveri che in futuro lo avrebbero inevitabilmente intrappolato nella Cittadella, lontano dalle Case di Guarigione e da quel giardino. Che una comune sguattera non avesse posto nella vita del Sovrintendente era un fatto, spiacevole ma inevitabile, e da qualche parte dentro di sé, Boromir sapeva che presto avrebbe dovuto accettarlo. E allora sarebbe stato un altro addio, un'altra guida e un'altra amicizia perduta.

Come facendo eco ai suoi pensieri, Gil parlò all'improvviso. “Non pensavo che ti avrei mai più rivisto qui, mio signore. Non ci hai visitato da molti giorni, da quando sire Gemma Elfica è venuto a cercarti”.

Boromir rispose a cuor leggero, senza pensare, con il solito tono ironico. "E’ per caso un rimprovero? Come mai Gil, forse ti sono mancato?"

Gil trasalì, e fece per ritirare la mano, ma Boromir la anticipò. La sua mano afferrò quella della ragazza, tenendola con fermezza attorno al suo braccio. “Perdonami. Non volevo offenderti”, disse con dolcezza.

"Non l’hai fatto."

"Invece sì. Ma sono sciocchezze, Gil. Non devi avere paura di me”.

"Non ho paura" affermò Gil, con voce tremante.

"Tu sei mancata a me." Nel momento stesso in cui le parole lasciarono le sue labbra, la loro verità lo colpì come un fulmine, facendolo fermare all'improvviso. Lei gli era mancata. Gli era mancata terribilmente, e un nodo freddo gli strinse lo stomaco al pensiero che non avrebbe potuto mai più camminare accanto a lei, sentire il suo tono irriverente, o che quella sarebbe potuta essere la loro ultima scaramuccia verbale. In quel momento capì che non avrebbe potuto sopportare di dire addio anche a lei.

"Gil." Si voltò verso di lei, afferrandola per le braccia. Lei si irrigidì in modo allarmante sotto il suo tocco, e a Boromir sembrò di avere tra le mani una statua di marmo. Spietato, strinse la presa, rifiutando di lasciarla andare, consapevole di trovarsi sull'orlo del totale disastro. "Gil, io non ti sono mancato, anche solo un poco?”

La voce di lei era piena di oltraggio e panico. “Non chiedermi questo, mio signore!”

"Devo farlo. Io ti dico con sincerità che tu mi sei mancata, che sono felice di essere di nuovo con te e che non voglio lasciarti, perché so che potrebbero passare settimane, mesi, o un’infinità di tempo, prima di incontrarti di nuovo." Boromir lasciò andare la presa, liberandola. “Non posso comandare la tua fiducia. Se non me la doni liberamente, se non vuoi considerarmi un amico, non c’è nulla che io possa fare per costringerti. Ma sappi che tu hai la mia, completamente. E la fiducia non è cosa che dia facilmente”.

"Io non posso essere tua amica. Tu sei il Sovrintendente di Gondor, e io sono una sguattera. Una domestica”.

“So bene chi sei, e tu certo non permetti che io lo dimentichi. So anche chi sono io, e so quale abisso si apre tra di noi, ed è per questo che ho bisogno di averti vicina. Non posso perderti nell’oscurità”.

"Non mi piace questo scherzo, mio signore! Ti prego, smettila!”

“Non è uno scherzo". Cautamente, per non spaventarla e farla fuggire, Boromir sollevò una mano e la posò sulla spalla di Gil. “Avrei dovuto capirlo prima, ma ero troppo preso a leccarmi le ferite e a piangermi addosso. Era così semplice!”

"Che cosa?"

"Aragorn vuole che io trovi uno scudiero che mi faccia da guida e da attendente. Io ho sempre rimandato, nella vana speranza di trovare qualche ispirazione, qualche via di fuga, ma sono stato tre volte stupido! Gil, mia cara, ostinata Gil, tu sei la sola guida di cui ho bisogno!"

Un tremito percorse il corpo di Gil, e Boromir sapeva che solo una vita intera di rigida disciplina la tratteneva dal fuggire, lasciandolo solo in quel luogo poco familiare. "Sei crudele a prenderti gioco di me in questo modo!”, sibilò.

"Non mi sto prendendo gioco di te. Dico sul serio”.

"Sei uscito di senno."

"Allora devi assecondarmi nella mia follia."

"No che non lo farò. E’ una folle assurdità!”

"Perché?"

Gil esitò per un momento, emettendo suoni inarticolati come se si dibattesse per cercare una motivazione. Poi finalmente sbottò, “Gli scudieri sono figli di nobili!”

"Sì, certo, lo so”.

"E cosa sono io? Una creatura di umili origini, senza nome, analfabeta e senza esperienza alcuna nelle cose di corte! Una donna?! Farei proprio una bella figura in mezzo ai nobili rampolli di Gondor, con il mio grembiule da sguattera e il fazzoletto in testa!”

Boromir stava quasi per ridere, tanto grande era il bisogno di sfogare l’ansia e la tensione che provava, ma riuscì a controllarsi, e con voce che tremava impercettibilmente, disse. "Ti potremmo trovare degli abiti più consoni alla tua posizione".

"So qual è la mia posizione. E i miei abiti vanno benissimo”.

"Per una sguattera, forse, ma non per lo scudiero del Sovrintendente. Le tue gonne sarebbero molto scomode, specialmente per andare a cavallo”.

"A cavallo!" Gil si ritrasse da lui con veemenza, gridando sconvolta, “Sei davvero impazzito!”

"Non sai andare a cavallo?”

Gil rabbrividì. "No. E non intendo nemmeno avvicinarmi a quelle bestie!”

"I cavalli non sono così male, una volta che sai come trattarli”, osservò Boromir, con una traccia di supplica nella sua voce.

"Io non imparerò a cavalcare. Mai.” Boromir aprì la bocca per rispondere, ma lei lo precedette, quasi gridando, "Nemmeno il Re in persona potrebbe costringermi!”

"Molto bene." In contrasto al panico di Gil, Boromir sembrava innaturalmente calmo e ragionevole. Era consapevole che la sua era una calma nata dalla disperazione, ma Gil non lo sapeva. "Troverò un paggio per cavalcare con me."

"Cavalcare con te?", ripeté Gil scandalizzata. “Tu vorresti che io salissi su un cavallo… con te?”

"No, abbiamo concordato che non cavalcherai. E forse sei saggia a rifiutare. Non sarebbe appropriato per una giovane donna stare in sella con me, indipendentemente dai suoi abiti".

"Certo che no!"

"Ma credo comunque che una tunica e dei calzoni sarebbero più appropriati per la mansione di scudiero, piuttosto che la gonna”.

Gil cercò di ridere, ma fallì completamente. “Pensi che potrei passare per un ragazzo?"

"Non lo so. E tu?" La sola risposta di Gil fu una specie di ringhio senza parole, e Boromir lasciò perdere il suo tentativo di scherzare. “Sto solo pensando alla tua comodità, Gil. Tu sei abituata a muoverti nelle Case e nel giardino, col tuo grembiule da sguattera, passando inosservata".

"Mi piace così."

"Certo. Ma se dovessi stare in mezzo ai paggi e agli scudieri della corte vestita in quel modo, tutti gli occhi del Grande Salone sarebbero su di te. Vestita da scudiero, invece, non attirerai l'attenzione, anche se sarà chiaro a tutti che sei una donna. Saresti anonima e sconosciuta a gran parte della città, come lo sei adesso”.

"Fino a che tutta Gondor non comincerà a mormorare che lo scudiero del Sovrintendente è una ragazza trovatella”.

"I mormorii ti fanno paura? A me no. Ti proteggerò io da loro, e difenderò il tuo onore come farei con il mio”.

Gil esitò, e Boromir percepì i suoi dubbi dal modo in cui si spostava da un piede all'altro e passava le sue mani sulla ruvida stoffa della sua gonna. Non accennò a muoversi, lasciandole spazio per respirare e la possibilità di fuggire se lo avesse voluto, ma dovette trattenere l'impulso di afferrarla, scuoterla, e dirle di non essere così cieca e sciocca. Sapeva come avrebbe reagito lui stesso a un simile trattamento, e conosceva Gil abbastanza bene da essere certo che anche lei avrebbe reagito allo stesso modo. L’unica cosa che poteva fare era attendere, e pregare che lei si fidasse di lui abbastanza da prendere in considerazione le sue parole.

"Tu ti batteresti... per me?" sussurrò finalmente Gil.

"Certamente. E’ mio dovere come tuo signore, e mio privilegio come tuo amico”.

"Perché?"

"Perché tu sei mia amica. E io sono il tuo Sovrintendente, che tu decida o meno di diventare il mio scudiero”.

Ancora una volta, Gil esitò, poi, con una quieta e fiera intensità domandò, “Perché questo è così importante per te, mio signore?”

Le dita di Boromir si chiusero a pugno, le sua braccia abbandonate lungo i suoi fianchi, e il suo viso si indurì per la tensione. Sapeva di avere toccato una corda in Gil, di essere riuscito a farla aprire, e ora lei gli stava chiedendo la verità. E lui gliela doveva. Non sarebbe bastato nulla di meno, anche se al solo pensiero si sentiva stringere dalla fredda morsa della paura.

"Io ho bisogno del tuo aiuto, Gil." La sua voce era aspra. “Non posso portare il peso dei miei doveri da solo, e se non riesco a essere Sovrintendente nei fatti oltre che di nome, allora non sono nulla. Spezzato e inutile. Buono solo per mendicare agli angoli delle strade, come vorrebbero i miei nemici."

"Ci saranno altri più adatti di me ad aiutarti."

"Ma nessuno di cui mi fidi come mi fido di te."

Boromir tese entrambe le mani, e aspettò, fino a quando sentì le dita di Gil posarsi sui suoi palmi aperti. Erano fredde e tremavano leggermente, ma Gil non fece alcun tentativo di ritrarsi quando lui strinse la presa. Il contatto lo calmò e gli diede coraggio."Riesci a capire cosa significa essere circondati da estranei? Sentire che la tua vita dipende dal loro aiuto?” La sua voce tremava, e si fermò per un momento, cercando di riprendere il controllo. “E’ una cosa spaventosa sapere che la tua vita, il tuo onore, tutto il tuo valore come Sovrintendente e Principe è nelle mani di estranei senza volto."

"Puoi sempre imparare a fidarti di loro."

"Non ho tempo per imparare. Devo assumere i miei doveri e affidarmi a una legione di segretari, scudieri, domestici, paggi... Avranno accesso a tutte le lettere, scriveranno ogni mio dispaccio, guideranno i miei passi e serviranno il mio cibo. Non posso neppure vestirmi senza un servitore che scelga per me che mantello e che stivali devo indossare!" Scosse la testa con rabbia, sentendo la familiare amarezza che lo assaliva. "Se anche uno solo dei miei attendenti è pigro nel suo lavoro, corrotto dall'ambizione, o troppo frettoloso nei suoi giudizi, sarò io a doverne rispondere. E il mio Re dovrà correggere i miei errori. No, non ho tempo di imparare la fiducia, e non posso permettermi di fallire".

"E io cosa dovrei fare? Non so né leggere né scrivere. Non so cavalcare e non posso assisterti nelle tue stanze. Avrai bisogno lo stesso della tua schiera di attendenti, sia che io sia tra loro o meno. Non capisco come potrei aiutarti."

"Tu sarai la presenza amica al mio fianco, la voce nell’oscurità, il braccio che non si ritrae al mio tocco. Tu renderai sopportabile tutto il resto”.

"Questo... è davvero questo che pensi di me?”

Boromir chinò il capo, nascondendo il viso dal suo sguardo, e parlò a bassa voce, lentamente, dal profondo del suo animo stanco e ferito. "Ogni volta che prendo il braccio di qualcuno e lascio che guidi i miei passi, mi metto nelle sue mani. Non è una scelta che posso o non posso fare. E' l’unico modo che ho di muovermi per più di qualche passo. E ogni volta, mi fa ricordare che cosa fragile e vitale sia la fiducia. Anche l’amicizia più forte, persino il legame di sangue sono fonte di dubbio in quei momenti, quando devo ingoiare il mio orgoglio e rimettere la mia completa fiducia a un'altra creatura che non posso vedere.

Sono pochi quelli di cui mi posso fidare completamente e senza timore alcuno. Aragorn, Merry, Pipino, mio fratello. E poi ci sei tu. Non chiedermi come hai fatto a entrare a far parte di quei pochi, perché non saprei spiegartelo. Forse è per la tua mancanza di commiserazione. Non mi hai mai mostrato pietà, e il tuo timore è dovuto al mio titolo, non alla mia cecità. Qualunque sia la ragione, io so che posso prendere il tuo braccio, seguire i tuoi passi, ascoltare la tua voce che mi rimprovera per la mia goffaggine, e che in tua compagnia mi sentirò a casa. E questo è ben più che importante per me, Gil. E’tutto. Senza di questo, sono perduto e solo... e ho paura."

Gil rimase in silenzio, meditando sulle sue parole e lottando coi suoi dubbi, mentre Boromir aspettava. Non poteva fare altro. Il suo spirito era come di piombo, i suoi nervi tesi al punto di far male. Quando finalmente Gil si mosse, emettendo un lungo sospiro e ricambiando leggermente la stretta delle sue dita, Boromir capì che aveva deciso. La sua voce era atona e distante, ma le sue parole furono musica per Boromir.

"Credo che sia un errore riporre in me una tale fiducia, ma se lo vuoi, sarà un onore e un piacere per me servirti."

Il sollievo e la gratitudine travolsero Boromir, illuminandogli il volto con un raggiante sorriso. Boromir provò per un attimo l’impulso di abbracciarla, ma si trattenne, limitandosi a portarsi al petto le loro mani intrecciate, e dicendo, con semplicità, “Grazie, Gil”.

"Sei certo che sia questo che vuoi?”

"Senza alcun dubbio”.

"Allora, siamo d’accordo... niente cavalli”.

Boromir rise, ma il suono somigliò più a un singhiozzo. “Niente cavalli”.

Mentre Gil procedeva ad elencare tutte le cose che poteva e non poteva fare, sembrò riguadagnare la sua solita compostezza. La sua voce assunse il consueto tono formale, e le sue parole divennero richieste. "Sai che non so ne leggere ne scrivere”.

"Puoi imparare. Oppure hai tanta paura delle parole quanta ne hai dei cavalli?"

Gil mormorò un assenso inarticolato, e poi aggiunse, “Non entrerò nelle tue stanze dopo che ti sarai ritirato per la notte o prima di colazione".

"Certo che no."

"Non voglio certo pettegolezzi tra la servitù!”

"Nemmeno io."

"E poi mi serve la tua autorizzazione a trattare con gli altri scudieri a modo mio. I ragazzi possono essere molto fastidiosi, e più crescono più peggiorano. Se devo avere posto tra di loro, devo guadagnarmelo e mantenerlo!”

"Se qualcuno ti dovesse importunare basterà una parola e…”

"No, quella è una battaglia che spetta a me”. Poi un nuovo dubbio la colpì, e, allarmata, domandò, “Dove vivrò, mio signore? Non posso certo dormire con gli altri ragazzi!”

"Ti troverò una stanza nella Torre. Il Ciambellano saprà dove alloggiarti meglio di me”.

"Ah."

"C’è qualcos’altro che ti turba, Gil?"

"Tutta questa faccenda mi turba. Come ho detto, è un pazzia...ma ho detto che lo farò".

"Forse è davvero una follia, ma spero che entrambi ne saremo felici. Potresti scoprire che ti piace essere qualcosa in più di una sguattera”.

"O forse no."

"Se sarai davvero infelice, dovrai dirmelo. Non ti costringerò a rimanere in una situazione che ti ferisce. Ma se le tue paure e le tue ferite sono tali che io possa guarirle, lo farò. Fidati di me, Gil”.

"Mi fido. Ecco perché ho acconsentito a questa pazzia."

Offrendole un altro ampio sorriso, Boromir sollevò la mano di Gil, posando un bacio sul suo dorso. Gil tentò di ritrarsi, ma Boromir la trattenne, guidandola in modo che si ritrovasse al suo fianco, e sistemando la sua mano nella curva del suo braccio. "Andiamo allora, dobbiamo parlare con il Custode delle Case. Chiederemo il suo permesso e quello del Re, e poi ti faremo vestire come uno scudiero, prima di mandarti in giro per la corte ignara".

Mentre parlava, Boromir si voltò verso la discesa, e cominciò a camminare. Gil si mosse insieme a lui per abitudine, ma dopo pochi passi, si fermò e ritirò la mano dal suo braccio.

"Aspetta, mio signore, questo non è appropriato. Non si può offrire il braccio a uno scudiero. In che modo cammini con il mezzuomo? O con tuo fratello?”

"Quando indosserai i calzoni ti tratterò come uno scudiero. Ma finché indosserai la gonna, ti tratterò come una dama”.

"Ma io non sono..."

"Basta così. La prima lezione che devi imparare è non contraddire ogni cosa che dico”.

La voce di Gil era divertita, quando domandò, "E la seconda?."

"Non fare domande impertinenti."

Gil grugnì qualcosa di incomprensibile e tornò a prendere il braccio di Boromir. “Sì, mio signore”.

"Sospetto che presto sarò annoiato a morte di sentire queste parole."

Gil esitò, poi disse, timidamente, “Sì, mio signore”.

Boromir stava ancora ridendo, quando si incamminarono insieme attraverso il giardino.

*** *** ***

"Non strisciare i piedi!” gridò Merry esasperato. “E tieni alta la testa!”

La figura esile, vestita di nero e argento, si fermò per fissarlo negli occhi. “Non sto strisciando i piedi, Mastro Perian."

"Invece sì," ribatté Merry, senza tentare di nascondere la propria irritazione. Dopo un’intera mattinata trascorsa con lo scudiero del Sovrintendente, cercando di aiutarla ad abituarsi alla sua nuova posizione e ai suoi nuovi abiti, aveva capito che a volte le maniere brusche erano più efficaci della cortesia."Cammini come una sguattera”

"Io sono una sguattera”.

"Non più. Sei uno scudiero, con una certa posizione a corte, e devi portarti con più contegno”.

"Un vero scudiero può avere una posizione, un padre nobile e forse un cavalierato, ma io…”

"Tu sei più in alto di tutti loro”. Scendendo con un salto dal davanzale della finestra, Merry attraversò la stanza per raggiungere Gil e la guardò di traverso, come sfidandola a contraddirlo. Tu indossi la livrea del Sovrintendente”.

La mano della ragazza si portò sull’orlo della sua tunica, tracciando i contorni del simbolo ricamato sul petto, e la sua espressione divenne pensierosa. “Sì. Ma questo non fa di me un vero scudiero."

“Allora devi diventarlo, sia per Boromir che per te stessa. Ora riprova. E non strisciare i piedi”.

Gil gli lanciò uno sguardo omicida, ma obbediente cominciò di nuovo a camminare lungo la stanza, con passo a tratti esitante, a tratti spavaldo. Merry la guardava con occhio critico, scuotendo il capo, tutto preso nella concentrazione.

Aveva trascorso gran parte della mattinata con Gil nella grande sala del Consiglio. Lì avevano tranquillità e spazio per muoversi liberamente, e Aragorn aveva dato ordine che non venissero disturbati. Era ormai quasi mezzogiorno, e i raggi del sole, già alto sulle pianure, cadevano verticali senza entrare oltre le finestre ad arco. Lame di luce si proiettavano sulle pietre levigate sotto le finestre, ma la maggior parte della stanza rimaneva immersa in una fresca penombra.

Gil, nella sua uniforme scura, sembrava essere parte di quelle ombre. Era di corporatura minuta, e da lontano poteva anche sembrare il giovane di alto lignaggio che i suoi abiti indicavano. Ma guardandola in viso, si scopriva che quell'esile ragazzino era in realtà una donna adulta. E quando guardava Merry con aria sospettosa e camminava lievemente curva con quel suo passo strano, Merry riconosceva la sguattera che c’era in lei.

Se solo fosse stata capace di stare diritta e camminare con sicurezza, pensò Merry, sarebbe stata perfetta per il ruolo. Ma naturalmente non ci riusciva. Aveva trascorso tutta la vita facendo la domestica, affrettandosi al suo lavoro con il capo chino, evitando gli sguardi e l’attenzione dei suoi superiori. Solo da qualche giorno era uno scudiero, e solo di nome, perché non avrebbe assunto il suo incarico finché Merry fosse rimasto in città con il suo signore. E inoltre i suoi abiti non erano stati pronti prima: una tunica da ragazzo che si adattava alla sua figura femminile, con i colori del Sovrintendente che decoravano il velluto nero.

Quella mattina però non aveva avuto più scuse per rimandare. La sua uniforme era stata consegnata pronta nella sua stanza, e Merry sarebbe partito all’alba dell’indomani. Era giunto il momento che lo scudiero del Sovrintendente prendesse posto al fianco del suo signore. Gil aveva tentato di protestare, dicendo che Ioreth avrebbe avuto bisogno di lei ancora per un giorno, ma Ioreth stessa aveva smentito, portando Gil di persona fino alla Torre e convincendola a prendere alloggio nelle sue nuove stanze. La vecchia pianse lacrime di gioia, vedendo la sua bambina adottiva vestita con i ricchi abiti da scudiero, con il Corno e le Stelle dell’Anórien ricamate sul petto e l’orlo di seta bianca sulla tunica nera. Come gesto d’amore e di orgoglio, Ioreth aveva acconciato con le sue mani i capelli di Gil, intrecciandoli e sistemandoli attorno alla sua testa in una coroncina, che coprì poi con un copricapo di velluto.

Era questa creatura piena di contraddizioni che ora stava in piedi davanti a Merry, curva come per proteggersi, con gli occhi scuri e cauti nelle ombre. Né vecchia né giovane, in parte simile a un elfo e in parte sguattera, apparentemente fragile ma temprata da anni di duro lavoro, Gil possedeva una dignità che non aveva niente a che fare con la sua importanza agli occhi degli Uomini. Lo guardò da dietro la sua maschera inespressiva che era di per sé una sorta di provocazione, e domandò,

"Cosa ne dici, Mastro Merry? Sarò un disonore per il nostro Sovrintendente?”

Merry sospirò. “Hai un aspetto un po’strano quando cammini a quel modo, ma non credo che a Boromir importerà”.

"A meno che tu non gli vada a dire che io non sono adatta a fare lo scudiero”.

"Perché dovrei farlo?"

Sospirando a sua volta, Gil si sedette sul gradino davanti al caminetto. Merry si avvicinò a lei, sedendosi al suo fianco. Sembrava così abbattuta che avrebbe voluto consolarla, prenderla per mano, ma si trattenne e tenne le mani fermamente serrate sulle proprie ginocchia.

"E’ davvero questo che vuoi, Gil? Vuoi che vada a dire a Boromir che non puoi farlo?”

"Non importa quello che io voglio”. Incrociò le braccia in un gesto protettivo e chinò il capo, ritirandosi in se stessa. “Per lui sarebbe come un tradimento”.

"No... non proprio..."

Merry sapeva quanto fosse importante l’aiuto di Gil per Boromir. Aveva visto il sollievo nel viso dell’amico, aveva sentito la speranza farsi strada nella sua voce quando aveva detto che Gil sarebbe divenuta il suo scudiero. Per la prima volta Merry era riuscito a pensare al giorno della partenza senza sentirsi attanagliare il cuore dalla tristezza. Se Gil avesse perso il coraggio abbandonando Boromir ora, Merry sapeva che non avrebbe mai avuto la forza di partire. E se non fosse partito allora, non sarebbe partito mai più.

"Non funzionerà, Mastro Perian. Sai che non funzionerà."

"Non dire così, ti prego”.

"E’ una pazzia."

"Qualunque cosa sia, deve funzionare. Deve." Merry si fece prendere dalla disperazione, lasciando libero sfogo alle emozioni che aveva cercato di dominare per tutta la mattina. Il dolore si fece strada in lui, e le lacrime gli salirono agli occhi. “Ti prego, Gil”, disse con voce ansiosa, “Se non lo fai per Boromir o per te stessa, fallo almeno per me. Promettimi che starai al suo fianco, come scudiero e come amica. Promettimelo!”

Gil sollevò il capo e lo guardò intensamente. “Per te? E’ questo che vuoi?”

"Sì."

"Allora sei tu quello che dovrebbe restare con lui, non io. Tu gli vuoi bene come nessun altro, e lui vuole bene a te. Come posso sperare di prendere il tuo posto?”

"Promettimelo”, ripeté Merry, ostinato.

"E se non lo faccio…" Merry scosse la testa, troppo soffocato dalle lacrime per rispondere. Con sua sorpresa, Gil si sporse per prendere la mano di Merry nella sua. “Non puoi restare tu a servirlo, Merry?”

"Non posso." Deglutì convulsamente e si sforzò di spingere le parole oltre il nodo che aveva in gola. “Devo tornare a casa”.

"Anche se questo ti spezza il cuore?"

"Non succederà, se ho la tua parola che non lo lascerai solo".

Gil rimase un po’in silenzio, poi, quando ritrovò la sua voce, mormorò. “E’ così importante per te?”

"Sì."

Tanta era la forza e la convinzione di quella singola parola, che Merry vide Gil vacillare sotto il suo peso. Per un momento, sul suo viso furono evidenti la paura e l’emozione, ma poi si voltò, nascondendo i suoi pensieri dietro l'espressione neutra che Merry conosceva così bene. Finalmente, con appena una traccia di ironia nella voce, disse, “Allora, dovrò cercare di non disonorare nessuno di voi”.

"Non lo farai", la rassicurò Merry, tirando su col naso. Asciugandosi il viso con una manica, si alzò in piedi sul gradino. “Almeno, non lo farai se ti ricorderai di non strisciare i piedi. Avanti, riprovaci”.

Gil per un attimo sembrò divertita, e si alzò per guardarlo negli occhi. “Per quanto tempo continuerai a frustare un cavallo zoppo, Mastro Perian?"

Merry sorrise, visibilmente sollevato. “Finché non imparerà a camminare".

"O finché non morirà di fatica".

"Cammina!"

*** *** ***

Frodo stava in piedi sulla panca di pietra, sporgendosi dal parapetto per guardare le ombre che si allungavano sui campi sotto di lui. Il sole stava scendendo dietro la cima del Mindolluin, lasciando in ombra il Pelennor, e accarezzando la lontana curva dell'Anduin con i suoi ultimi raggi. Oltre il fiume torreggiavano i Monti d’Ombra, dipinti di rosa e oro nella luce morente, con ai loro piedi il verde scintillante e misterioso dell'Ithilien.

"E’ un luogo bellissimo”, mormorò.

Accanto a lui, Merry incrociò le braccia sul parapetto, appoggiandovi il mento. I suoi occhi vagavano lontano, pieni di ricordi e di malinconia. “Mi piace stare qui. E’il mio posto preferito in tutta la città“. Si fermò per un momento, sempre guardando l’orizzonte, e aggiunse, “E’ strano pensare che forse è l’ultima volta che guardiamo queste montagne, o che vediamo il fiume d’argento scorrere nella pianura. Mi sono abituato a tutta questa grandiosità, e non so come mi sembrerà la cara vecchia Contea quando la rivedrò”.

"Sarà difficile tornare a casa, ma sono contento di farlo".

"Di sicuro io lo sono," mormorò Sam.

Merry e Frodo si voltarono a guardarlo, mentre si affaccendava attorno a un’aiuola, e Frodo sorrise. “Ne hai avuto abbastanza di montagne e grandi città, Sam?”

"Proprio così, padron Frodo. Datemi una casa hobbit con un giardino come si deve, e tenetevi le vostre città”.

"Mi manca il mormorio del Brandivino nelle sere d’estate", ammise Merry, “e la luce che entra dalle finestre di Villa Brandy."

"E una pinta al Drago Verde", aggiunse Frodo.

"E un sacchetto di foglia del Decumano Sud".

"L’odore delle torte che cuociono...”

"...nella cucina di Casa Baggins!"

Frodo sorrise felice. “Sarà bello tornare a casa!”

Merry sospirò e si voltò verso il cancello del giardino. “Anche io vorrei sentirmi così”. Si laciò cadere sulla panca, appoggiando i gomiti alle ginocchia. “Se solo Boromir arrivasse”.

"Quando ha detto che sarebbe venuto?"

"Al tramonto, o giù di lì. Ma era impegnato a parlare con Aragorn e Imrahil, e a giudicare dalla pila di documenti che aveva sul tavolo, potrebbero averne per tutta la notte.”

"Non preoccuparti, non mancherà. La Compagnia trascorrerà le ultime ore insieme".

Come richiamato dalle sue parole, un rumore di passi risuonò sul sentiero. Merry conosceva bene quel passo, così come la figura alta e orgogliosa che avanzava verso di loro. Saltò giù dalla panca prima ancora che Boromir chiamasse il suo nome, e gli corse incontro. Frodo lo guardò pensieroso, e Sam dubbioso, ma Merry li ignorò entrambi, troppo sollevato e felice per preoccuparsi di cosa gli altri pensassero di lui.

"Boromir! Sei in ritardo! Ciao, Gil."

Gil si voltò verso di lui, senza sorridere né fermarsi, ma inclinò semplicemente il capo in segno di saluto. La mano di Boromir era posata sulla sua spalla, ma Merry sapeva che non era il senso di responsabilità che la faceva muovere così cautamente, ma l'insicurezza. Sotto la sua guida, era riuscita a mettere da parte la sua camminata da sguattera, ma non aveva ancora imparato a muoversi con naturalezza in quegli abiti insoliti. Spingeva avanti i piedi come se indossasse ancora la pesante gonna, piantandoli sul terreno con ostinata determinazione.

"Non sono in ritardo," ribatté Boromir, posando la sua mano libera sulla testa di Merry, quando questo gli si avvicinò. “E’ il tramonto del sole, e io sono qui, come avevo promesso”.

"E’vero, ma io ho aspettato per tanto tempo!” Sbirciò oltre Boromir per guardare Gil. “E temevo che Gil avrebbe perso il coraggio”.

La ragazza-scudiero sollevò il mento con orgoglio. “Conosco il mio dovere, Mastro Perian."

Si diressero verso la panca, e Merry guidò Boromir nel punto in cui si sedeva di solito, con la schiena contro la curva del muro. Dopo che Boromir si fu seduto, Frodo si mosse, rompendo la sua immobilità perfetta, e facendo sollevare di scatto il capo all'uomo.

"Ciao, Boromir," disse.

"Frodo." Boromir dovette sforzarsi visibilmente di rilassarsi, come gli accadeva ogni volta che si trovava in presenza di Frodo, ma alla fine ci riuscì. La tensione nelle sue spalle si alleviò, e l'espressione guardinga lasciò il suo volto. Poi sorrise, con genuino calore. “Sam deve essere qui, da qualche parte. Buonasera a te, Samwise."

"Mastro Boromir." Sam abbandonò l’aiuola per spostarsi accanto a frodo. Come Boromir, anche Sam era cauto ai loro incontri, ma al contrario dell’uomo, non fece alcun tentativo di mettere da parte la sua circospezione. Nonostante Frodo lo avesse rassicurato molte volte che Boromir non volesse fargli del male, e che era veramente un amico, i dubbi di Sam erano svaniti solo in parte, e si sentiva ancora a disagio in presenza dell'uomo. Il Sovrintendente e il giardiniere si trattavano reciprocamente con uno scrupoloso, cauto rispetto. “Chiedo perdono, Mastro Boromir, ma chi è il ragazzo che avete portato con voi? O meglio, il ragazzo che ha portato voi con lui?"

"Non è un ragazzo. E’ il mio scudiero, Gil, ed è una dama”.

Sia Frodo che Sam fissarono Gil con aperta curiosità, e Merry notò che la donna arrossì vistosamente. Anche Sam se ne accorse, e si scusò prontamente. “Non ho mai visto una donna vestita in modo così bizzarro, ma immagino che siate uno scudiero come si deve.” Chinò la testa in segno di rispetto, e aggiunse, “Samwise Gamgee, al vostro servizio."

Gil fece per rispondere con una riverenza, ma si accorse troppo tardi che non portava la gonna, e ne risultò un goffo inchino. “Mastro Perian."

Frodo, con la sua innata gentilezza, cominciò a convesare con Gil, cercando di trarla dall’imbarazzo. Sam salì sulla panca accanto a Frodo, ascoltando la loro rigida conversazione. Merry fu immensamente grato al cugino per aver tentato di mettere a proprio agio Gil, dando allo stesso tempo a lui la possibilità di parlare da solo con Boromir. Ma quando si avvicinò all'amico, un po' in disparte dagli altri, scoprì che non aveva nulla da dire.

Per tutto il giorno lo aveva accompagnato la consapevolezza che il tempo stava correndo via, e che ogni ora che passava lo portava più vicino al momento della partenza. Mentre Boromir non era con lui, aveva pensato a innumerevoli parole di commiato, di lealtà e di affetto, di imperitura amicizia, ma ora che guardava il suo viso, vedendovi riflessi il suo dolore e la sua paura, le parole gli vennero meno. Aveva ancora solo poche ore. Poche ore per stare accanto a Boromir, sentire la sua voce, e fingere che il domani non sarebbe mai arrivato.

Con un sospiro, Merry si sedette sull’erba, ai piedi di Boromir, posando la testa contro il suo ginocchio. In quel momento si sentì immensamente felice, tutti i suoi timori scomparsi, e capì che anche Boromir si sentiva a quel modo dal modo protettivo in cui la sua mano si posò sulla sua testa. Per quel momento, Merry si concesse di essere felice, si concesse di dimenticare.a mandeva che anche Boromir si sentiva a quel modo dal modo i capo.ni non sarbeer tutta la notte."

Gli altri membri della Compagnia giunsero alla spicciolata, dopo aver abbandonato i loro compiti, per riunirsi sulle mura della Città Bianca un'ultima volta. Legolas e Gimli arrivarono per primi, risalendo insieme il pendio occidentale del giardino, ridendo a un qualche loro scherzo segreto. Pipino salutò Bergil al Cancello e corse lungo il sentiero chiamando ad alta voce gli amici nell’aria fresca della sera. Poi arrivò Gandalf, da dove nessuno poté capirlo, con il bastone, la pipa, e un sacchetto di erbapipa da condividere con gli amici.

Per ultimo giunse Aragorn, con sorpresa di Merry accompagnato da Faramir.
Quando quest’ultimo capì a che incontro lo aveva portato il suo Re fece qualche passo indietro, insistendo che non voleva intromettersi, ma alla fine dovette cedere.

"Sciocchezze," disse Gandalf. "Presto ci stancheremo della nostra compagnia durante il viaggio. Sei il benvenuto tra noi, finché riuscirai a sopportare le chiacchiere degli hobbit."

"E il brontolio degli stregoni”, ribatté Pipino.

Nell’aria risuonarono saluti e risate. Non potevano esserci barriere tra quel gruppo di amici, e la consapevolezza che il mattino dopo sarebbero partiti per un altro viaggio li attirava uno vicino all’altro, alleggerendo i loro cuori e sciogliendo le loro lingue. Si sedettero sull’erba o sul parapetto di pietra, mettendosi a proprio agio, riempiendo la fresca aria del sud con il calore delle loro risate e l’odore dell’erbapipa.

Gil restò in disparte dal resto del gruppo, nascosta nelle ombre a ovest dell'affaccio dove si trovavano tutti gli altri. Quasi tutti i membri della Compagnia, a parte Frodo e Sam, l'avevano conosciuta nelle sue vesti di sguattera, ed erano a conoscenza del suo nuovo incarico. La trattavano tutti con cortesia, e gli hobbit cercavano di spingerla a uscire dal suo umore taciturno, ma lei restava ugualmente distante.

Sembrava molto nervosa all’incontrare Faramir, ma Merry immaginò che Aragorn avesse parlato al giovane, pregandolo di trattarla con gentilezza, perché Faramir la salutò con un semplice cenno del capo al suo arrivo. Quali che fossero le sue opinioni personali, Faramir era un uomo giusto, e amava suo fratello. Non avrebbe mai fatto del male a Boromir, anche se questo significava che avrebbe dovuto tollerare la presenza della sguattera.

Merry sospettava inoltre che Faramir fosse stato portato lì per un motivo ben preciso, su richiesta di Boromir – o almeno con il suo consenso – perchè il Sovrintendente non si mostrò minimamente sorpreso al suo arrivo, e insistette affichè restasse. Questa idea cominciò a frullare in testa a Merry, sempre intento a cercare di interpretare i pensieri di Boromir. Forse voleva semplicemente godere della compagnia di Faramir finché poteva, visto che suo fratello sarebbe partito insieme al Re di Rohan l'indomani. Ma se era quello il motivo, se ne stava stranamente in silenzio, senza fare alcun tentativo di avviare una conversazione.

I discorsi scorrevano veloci mentre il sole tramontava a ovest, e le stelle cominciarono a scintillare nel cielo. Inevitabilmente, i pensieri di tutti si volsero al viaggio che alcuni di loro avrebbero intrapreso, e cominciarono parlare del loro percorso. Merry cercò di non ascoltare, tenendosi fermamente appigliato alla sua sensazione di gioia, ma l’apprensione per quello che avrebbe portato il mattino strisciava inesorabilmente nel suo cuore.

Improvvisamente le parole di una canzone della sua infanzia gli salirono spontanee alle labbra.

La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la via è fuggita avanti,
devo inseguirla ad ogni costo...

Fu solo dopo che Frodo si fu messo a ridere che Merry si rese conto di aver parlato ad alta voce. Si interruppe, imbarazzato di aver lasciato vedere a tutti la sua malinconia. Ma Frodo ne fu felice.

"Grazie, Merry! La vecchia canzone del cammino di Bilbo è proprio quello che ci vuole per accompagnare il nostro ritorno a casa!"

"Purché la nostra via conduca a casa”, intervenne Sam, “E non a un’altra avventura. Ne ho abbastanza di avventure”.

Frodo gli sorrise, i suoi occhi stranamente stanchi nella crescente oscurità. "Anch’io, Sam. Tutto ciò che voglio è una bella passeggiata per la Terra di Mezzo in estate, senza dovermi preoccupare di altro che della legna per il fuoco e di selvaggina fresca per lo stufato”.

"E un posto asciutto dove dormire, senza ghiande sotto la schiena”, aggiunse Sam.

"Speriamo che siate accontentati," disse Gandalf, attenuando il suo solito tono burbero con una nota di tenerezza. “Ve lo siete di certo meritati. Tutti quanti voi”.

"Tu verrai con noi, non è vero, Gandalf?", domandò Pipino.

"Sì, almeno per una parte del viaggio."

"Allora ti occuperai tu di noi”.

Gandalf rise. "La tua fiducia in me è toccante, Pipino, ma quando mai io vi ho condotto lontano dall'avventura?"

"Beh, c’è una prima volta per tutto. E mi sembra che ora le avventure non siano più così terribili come erano una volta, da quando tu, Grampasso e Frodo avete sistemato le cose”.

"Sono più facili da affrontare, in ogni caso." Il vecchio Stregone tirò dalla sua pipa e mormorò tra sé e sé, “A misura di hobbit, oserei dire”.

Merry, che era seduto abbastanza vicino da poterlo udire, rabbrividì. Boromir se ne accorse, percependo la sua inquietudine. Raddrizzandosi e sollevando la testa come per vedere il cielo domandò, “Ci sono stelle, stanotte?"

Merry guardò lo scintillante, magnificente spettacolo sopra di loro e sorrise. “Sì”.

"Allora è il momento che io chieda la vostra pazienza, e un favore a mio fratello".

"Che cosa posso fare per te?" domandò Faramir, divertito e un po’sospettoso.

"Raccontare una storia."

Faramir rise. "No, fratello. So bene come mi ripaghi per le mie storie! Siamo troppo vecchi per questi scherzi ormai!”

"Questa me l’hai promessa. Non ricordi? Una storia elfica sotto un cielo di stelle elfiche."

Il sorriso svanì dalle labbra di Faramir. “Sì. La leggenda di Gilthaethil." I suoi occhi corsero a cercare la figura di Gil seminascosta dalle ombre, e a Merry sembrò di cogliere un fuggevole disappunto nel suo sguardo. “Ci sono altri qui che la conoscono meglio di me. Chiedi a Legolas o ad Aragorn, o a Mithrandir, che conosce le leggende sia degli uomini che degli elfi!"

La risposta di Boromir fu udita da tutta la Compagnia, eppure Merry intuì che era rivolta a Faramir e a nessun altro. “E’ la tua voce che voglio sentire. Ti prego, fratello, prima di lasciare la nostra città e la nostra casa, fallo per me.”

Faramir esitò un momento, spostando di nuovo lo sguardo sullo scudiero silenzioso, poi sorrise. “Come vuoi”.

Frodo scese immediatamente dalla panca per fare posto a Faramir, sedendosi accanto a Sam sull'erba. Faramir si alzò agilmente e andò a prendere posto sul seggio designato per il narratore. Merry fu colpito dal modo in cui ispirava rispetto e attenzione, e dal modo in cui tutti gli sguardi lo seguivano. Persino Gil lasciò il suo nascondiglio per avvicinarsi in modo da vedere il suo viso mentre parlava. La luce della luna sembrò splendere più luminosa su di lui, illuminando i suoi occhi e i suoi capelli, mettendo in evidenza il suo viso nella notte.

"Questa è la storia di Maeldhuin e Gilthaethil,* come l’ho sentita tempo fa”. Faramir chiuse gli occhi, e il suo viso assunse un'epressione remota e sognante. In tono lieve, quasi reverente, cantò alcuni versi in elfico. Merry non capiva le parole, ma sentì il dolore e il desiderio in esse. Dopo che le ultime note si furono spente, Frodo sospirò.

"Conosci tutta la canzone?" domandò.

Faramir sorrise scuotendo le spalle. "E’un poema molto lungo, e sono passati molti anni da quando l'ho sentito”.

"La conosce," disse Boromir prontamente.

Faramir rise. "Forse. Ma questa notte, cercherò di tradurla come meglio posso nella lingua comune. E’una storia di coraggio, lealtà e pericolo mortale, una storia piena di dolore ma anche di speranza. Ed è una storia d'amore, in un certo senso".

"Sì, è così", mormorò Legolas, solennemente. “Una storia d'amore elfica".

"Tutte le storie elfiche che conosco finiscono male”, disse Pipino, “Specialmente quelle d'amore".

Faramir rise di nuovo, ma il suo viso era malinconico. "Giudicherai tu stesso come finisce questa, Mastro Perian, e mi dirai se è abbastanza elfica per te".

Si sporse in avanti perché la sua voce raggiungesse tutti, lasciando che Merry vedesse lo scintillio dei suoi occhi nella luce della luna. "Conoscete tutti la storia degli Anelli del Potere". Tutte le teste annuirono all'unisono. "Nel tempo antico, Sauron sedusse i fabbri elfici dell'Eregion con le sue parole ingannevoli e i suoi doni infidi. Allo scopo di carpire i loro segreti e di soggiogarli, li spinse e li guidò alla forgiatura di molti anelli, e infine li tradì. Nascostamente, forgiò nel cuore della Montagna di Fuoco l’Unico Anello, che avrebbe legato gli altri anelli al proprio volere. Ma quando l’Oscuro Signore se lo mise al dito, Celebrimbor comprese il suo tradimento e nascose i tre anelli che aveva forgiato."

Faramir fece una pausa, lasciando che ognuno di loro ricordasse a modo suo la storia in cui avevano giocato un ruolo così importante. Poi, con solennità, riprese, “L'ira di Sauron fu terribile. Il suo piano per rendere schiava la razza degli Elfi era fallito, e gli Eldar erano ora contro di lui. I tre Anelli Elfici, che bramava più di tutti, furono nascosti, e il loro potere gli fu negato. Sauron comprese che la finzione non gli avrebbe più portato alcun vantaggio, e così gettò via la maschera e radunò i suoi eserciti per mandarli contro gli Elfi.

"Celebrimbor previde l’arrivo dell’Oscuro Signore, e si affrettò a fortificare la sua città, ma sapeva bene che la forza del suo popolo consisteva nell'abilità nel manipolare le ricchezze della terra, non nell'uso delle armi. Temendo la sconfitta, decise di mandare i Tre Anelli ai più potenti e i più saggi della sua razza che ancora abitavano nella Terra di Mezzo, con l’avvertimento che non avrebbero mai dovuto essere usati apertamente, fintanto che Sauron avesse avuto in mano l’Unico. E così, alla pallida luce di un’alba invernale, tre messaggeri lasciarono Ost-en-Edhil, diretti in Eriador verso il reame segreto di Forlindon.

“E’ per il ruolo che ebbero in questa disperata impresa che Maeldhuin e Githaethil sono stati ricordati attraverso le ere”.

Ancora una volta, Faramir si interruppe. Quando riprese a parlare, aveva abbandonato il tono magniloquente in favore di uno più intimo.

"Maeldhuin era un araldo al servizio di Celebrimbor. Non era un guerriero, e non usava arco né spada, né era versato nella lavorazione delle gemme o del metallo. Ma era lesto di piede e sapeva parlare molte lingue, e amava grandemente il suo signore e la sua città.

"Quando Celebrimbor scelse i suoi messaggeri, diede a Falathar, il capo dei suoi araldi, il compito di portare gli anelli a Gil-Galad. Insieme a Falathar andarono Maeldhuin e un altro giovane Elfo suo congiunto. Gli elfi più giovani non erano al corrente del vero scopo della missione, ma sapevano soltanto che il loro signore li aveva scelti per portare doni e messaggi di grande importanza al Re.

"I tre messaggeri si inoltrarono così nell’Eriador, giungendo quasi fino al Golfo di Lhûn e a Mithlond. Ma prima che raggiungessero i Porti, nel luogo oggi chiamato Colline Turrite, fu loro tesa un’imboscata dagli orchi, e il giovane parente di Maeldhuin perse la vita. Falathar, temendo un altro attacco, affidò al veloce Maeldhuin il suo prezioso carico, facendogli promettere che lo avrebbe affidato solo alle mani del Re e a nessun altro. Poi si separarono prendendo strade diverse, sperando di sfuggire ai loro nemici, e Falathar perì. Rimasto solo, Maeldhuin sfuggì agli orchi, e vagò sperduto e disperato nella notte che avanzava, fino a quando si imbatté nel rifugio segreto di Gilthaethil.

"Nulla si conosce di Gilthaethil e della sua stirpe”. A queste parole, Merry lanciò uno sguardo sbigottito a Gil, ma lei continuava a guardare fisso Faramir, impassibile. “Si crede che appartenesse agli Elfi Silvani, anche se nessuno rivendicava una parentela con lei, e amava abitare la verde solitudine della foresta, vivendo con la sola compagnia delle bestie selvatiche. Era veloce e agile come un cervo, versata nelle arti guaritrici, e misteriosa come una statua scolpita nella roccia. Sebbene non appartenesse al suo popolo, Círdan il Capentiere, Signore di Mithlond, l’amava come una figlia e lei era la benvenuta nelle sue terre.

"A lei giunse dunque Maeldhuin nell’ora della disperazione. E con il loro incontro fu cambiato per sempre il destino dell’Ovest. Perché gli occhi acuti della fanciulla elfo compresero il fardello che gravava su Maeldhuin e il grande amore che aveva per il suo signore e per la sua città, e, commossa, decise di aiutarlo come poteva. Così Gilthaethil divenne guida e compagna di Maeldhuin.

"Per prima cosa si recarono da Círdan, chiedendo il suo aiuto per raggiungere il Re. Ma Gil-Galad si trovava nell’estremo Nord, impegnato a preparare guerra contro un nuovo nemico senza nome. Círdan, preoccupato dalle voci di guerra ad Est, non prestava fede alle parole di un messaggero che non voleva rivelare nulla sulla sua missione. Senza dare ascolto alle suppliche di Gilthaethil, la figlia del suo cuore, decise di trattenere Maeldhuin a Mithlond mentre chiedeva il consiglio dei Saggi.

"Ma Gilthaethil non poteva permettere che Maeldhuin fosse imprigionato. Facendolo travestire da suo servitore, riuscì a farlo fuggire, e insieme risalirono il Fiume Lhûn, verso le tetre distese di Forochel in cerca dell’esercito del Re..

"Lungo e arduo fu il loro viaggio, innumerevoli i pericoli affrontati. E mentre percorrevano il loro cammino periglioso verso nord, quello che era nato come un semplice aiuto dovuto alla necessità si trasformò in un legame di fiducia e di profonda amicizia.

"Ma accadde un giorno che mentre Gilthaethil si era allontanata sola nella foresta, Maeldhuin fu attaccato dagli orchi, e il loro numero era tale che egli non poteva affrontarli. Sapendo di essere perduto, gettò via gli Anelli, sperando che Gilthaethil li avrebbe trovati e avrebbe portato a termine la sua missione consegnandoli al Re.

"La sua fiducia non venne tradita. Gilthaethil, richiamata dai rumori della battaglia, tornò velocemente, ma Maeldhuin era scomparso e il sacchetto dove teneva gli Anelli giaceva abbandonato tra le foglie ai suoi piedi. Lei capì immediatamente di cosa si trattava, e seppe che ora la missione gravava unicamente sulle sue spalle. Amaro fu il suo dolore nel dover abbandonare l'amico al tormento e alla morte. Ma era determinata a far sì che Maeldhuin non soffrisse invano. Così prese gli Anelli e volse i suoi passi verso l'accampamento di Re Gil-Galad.

"Era sola in una terra crudele. I loro cavalli erano stati uccisi nell’attacco, non trovava alcun riparo, ed era come se l’aria stessa si fosse rivoltata contro di lei. Sauron, per accelerare la vittoria del suo Capitano, aveva mandato le tempeste di Mordor a perseguitare l’esercito di Gil-Galad, e terribile era la loro ira. Gilthaethil corse dritta nelle fauci della tempesta, veloce come il cervo delle foreste, instancabile come i venti che ululavano attorno a lei. Lega dopo lega, attraverso foreste, deserti, rocce e fiumi, giorno e notte, ella correva senza sosta, fino a sembrare una creatura della tempesta più che un'elfo. Era una vista strana e terribile, con i vestiti strappati e i capelli che le volavano attorno, bagnati e sporchi, mentre i suoi piedi sanguinanti volavano sul terreno crudele.

"Finalmente, al morire di un giorno terribile e senza sole, Gilthaethil giunse innanzi a Re Gil-Galad e mise nella sua mano il dono di Celebrimbor. In questo modo, i Tre furono salvati dalla rovina di Ost-en-Edhil, e portati, al sicuro dalla malizia di Sauron, al cospetto del Re degli Elfi. E fu così che il giuramento di Maeldhuin fu mantenuto."

Le parole finali di Faramir si spensero nel silenzio, ma nessuno si mosse, tanto era potente l’incantesimo che la sua voce aveva gettato su di loro.

"E cosa ne fu di Maeldhuin?" chiese infine Frodo. "Anch’egli morì?"

"Maeldhuin fu portato prigioniero nei sotterranei di Forochel e gettato in un profondo abisso. Là fu costretto a lavorare in schiavitù insieme a prigionieri di altre razze, per fortificare la fortezza del Re Stregone, il capitano di Sauron. Quando Gil-Galad mosse guerra contro di lui, i prigionieri, guidati da Maeldhuin, si ribellarono, soverchiarono i propri aguzzini, e aiutarono il Re a sconfiggere il Nemico.

"Ora che il suo esercito aveva trionfato al Nord, Gil-Galad poteva finalmente rivolgersi all’Eregion per salvare il popolo di Celebrimbor. Mandò un grande contingente a Ost-en-Edhil sotto il comando di Elrond Mezzelfo, a cui affidò una potente arma, simbolo del favore del Re per sostenerlo nella sua guerra contro Sauron. Maeldhuin, che desiderava ardentemente tornare a casa, disse addio a Gilthaethil e partì con Elrond verso l’Eregion.

"Molto dolorosa fu la loro separazione. Ma ancora più dolorosa fu la vista che Maeldhuin si trovò innanzi una volta tornato alla sua amata città. L’aiuto era giunto troppo tardi. Ost-en-Edhil era in rovina, il suo popolo disperso o ucciso. Il potere di Sauron si era abbattuto sui fabbri elfici che avevano osato sfidarlo, annientandoli completamente.

"Elrond riunì tutti i superstiti che riuscì a trovare e li condusse a nord, nelle terre selvagge, per costruire in segreto un rifugio per gli Eldar per gli anni a venire. Ma Maeldhuin non andò con lui. L’araldo di Ost-en-Edhil sapeva che non avrebbe trovato pace nè guarigione in quel luogo, e così rivolse i suoi stanchi passi verso Ovest e i Porti Grigi. Quando finalmente giunse a Mithlond, scoprì che la sua ultima speranza lo aveva abbandonato. Gilthaethil se ne era andata, scomparsa nelle foreste da cui era venuta."

"E quindi lui salì su una di quelle navi, non è così?” sbottò Sam, “Se ne andò e la abbandonò!”

Faramir sorrise brevemente. "No, Sam, non andò così. In quanto appartenente agli Eldar, era suo diritto partire per l’Ovest, se lo avesse voluto, ma Maeldhuin non voleva lasciare la Terra di Mezzo e la misteriosa fanciulla che aveva rapito il suo cuore.

"Volgendo le spalle al mare, si incamminò di nuovo tra le colline invernali. A lungo cercò, e dei pericoli che incontrò per quelle contrade nulla si conosce. Ma finalmente giunse al rifugio di Gilthaethil, e la trovò lì, che lo aspettava. La notte della prima neve, si scambiarono i voti d’amore, e per molti anni abitarono insieme nella foresta. Questo è tutto quello che si sa, perché di tanto in tanto sono stati visti camminare insieme tra gli alberi o cavalcare nei campi alla luce della luna. E Círdan li conosce bene, perchè lo andavano a visitare spesso.

"Ma con il passare dagli anni, e l’oscuramento dei cieli della Terra di Mezzo, si spinsero sempre più di rado a Mithlond, fino a che la loro esistenza fu dimenticata da tutti fuorché da Círdan. Lentamente svanirono nel ricordo, e dal ricordo nella leggenda. Se Gilthaethil e il suo amato vivono ancora nelle foreste dell’Eriador, o se sono partiti per l’Ovest con le ultime navi, nessuno può dirlo.”

Nel silenzio che seguì, Pipino sospirò silenziosamente. Faramir sorrise al giovane hobbit. “Cosa ne dici, Mastro Perian? E’abbastanza elfica per te questa storia?"

"Altrochè! Ma perché tutte le storie elfiche sono così malinconiche?"

Fu Legolas a rispondergli. “Ricorda, Pipino, che la vita di un elfo comprende molte ere degli Uomini, e che in quel periodo di tempo può conoscere grande gioia, grande dolore e grandi pericoli. Ma col trascorrere degli anni, il dolore comincia a pesare molto più della gioia, e l’animo si stanca del suo fardello. Allora i suoi occhi si rivolgono al mare, i suoi sogni alle Terre Immortali, e nemmeno la bellezza della Terra di Mezzo può più trattenerlo."

"E’per questo che se ne vanno tutti?"

"Sì."

Pipino scosse la testa, con gli occhi cupi. “Sono felice di non dover vivere per sempre per vedere i miei ricordi più belli diventare tristi".

Legolas gli sorrise con calore. “Non è adatto a te il lento e triste declinare degli Elfi, piccoletto. I mezzuomini sono fatti per le risate, non per le lacrime”.

"E per i letti e i pasti caldi, non per le lunghe notti sotto le stelle”. Lo hobbit si stiracchiò sbadigliando, poi osservò speranzoso Gandalf. “Immagino che insieme all'erbapipa tu non abbia portato niente da bere o da mangiare, vero?”.

Lo stregone rise. "Non potrei mai portare tanto cibo da soddisfare quattro hobbit!” Guardò le stelle e la luna che compivano il loro corso sopra di loro, poi sollevò un sopracciglio in direzione di Pipino. “Vai a dormire, e dimentica il tuo stomaco. Dobbiamo alzarci prima del sole, e non possiamo aspettare i pigri Tuc!”

Pipino sbadigliò di nuovo."Legami alla sella allora, Gandalf, dormirò fino a Rohan."

"E’ questo il modo di viaggiare di un soldato di Gondor?” scherzò Aragorn. “impacchettato come un bagaglio? Vergogna, Pipino.”

Seguendo l’esempio di Gandalf e Aragorn, i membri della Compagnia si alzarono uno ad uno e si avviarono verso il Cancello. L’incantesimo della storia di Faramir era ancora su di loro, così come lo scintillante cielo notturno, e le loro voci erano appena un mormorio, mentre si congedavano. Solo Boromir e Merry rimasero seduti senza accennare a muoversi. Gil si alzò in piedi, incerta, restando accanto a Boromir senza sapere cosa fare.

Faramir si alzò, stringendo in segno di saluto il braccio del fratello. “Non ritorni alla Cittadella?” domandò.

"No. Ho più bisogno di aria fresca che di sonno, stanotte.” La sua mano arruffò i riccioli di Merry, e Boromir aggiunse, con un sorriso, “Merry mi terrà fuori dai guai."

"E il tuo scudiero?"

"Vuoi che rimanga, mio signore?" chiese Gil, chiaramente incerta se una notte trascorsa sulle mura della città con il Sovrintendente avrebbe offeso il suo senso dell’onore più di lasciarlo solo senza la sua guida.

"No, Gil, vai pure a dormire. Domani sarà un lungo giorno”. Gil annuì, mormorando un sommesso “Mio signore”, e fece per andarsene. Ma Boromir tese una mano per fermarla. “Aspetta! Non mi hai datto che cosa ne pensi della storia”.

Gil si fermò, guardando con calma il volto del Sovrintendente. “Come il perian ha detto, è una storia malinconica. Ma fantasiosa, nonostante tutto, con una principessa misteriosa e amanti immortali. Capisco perchè a Ioreth sia piaciuta tanto.”

"E anche perché abbia deciso di chiamarti Gilthaethil,"aggiunse Merry.

Gil sbuffò come suo solito. “Sciocchezze. Eppure..." I suoi occhi si rivolsero esitanti a Faramir, e il suo viso abbandonò la formale rigidezza. “Sono lieta di avere conosciuto qualcosa del mio nome, anche non so nulla di me stessa. Ti ringrazio, mio principe”.

Faramir, colto alla sprovvista dalla sua cortesia, si inchinò leggermente.

"E grazie anche a te, mio signore", disse semplicemente a Boromir.

Boromir le sorrise, poi fece un gesto di diniego, ringhiando scontroso, “Ah, finiscila, Gil! Tutta questa gratitudine mi convincerà che sei malata e che stai per morire! Vattene prima che mandi a chiamare i Guaritori!”

Gil non sorrise alla battuta, ma Merry la conosceva abbastanza bene da capire che era divertita vedendo il modo in cui socchiudeva gli occhi. "Come desideri, mio signore. Buonanotte”.

Mentre se ne andava, anche Faramir si avviò, camminando accanto a lei fino al cancello, con le mani intrecciate dietro la schiena e gli occhi fissi su un punto lontano. Boromir e Merry poterono ugualmente sentire le sue parole. “Se me lo permetti, Gil, desidero accompagnarti alla Torre”.

La ragazza gli rispose con cautela, ancora più rigida del solito. Ma Faramir non si fece scoraggiare.

"E’ stata Ioreth a scegliere il tuo nome? Non sapevo che conoscesse le leggende elfiche. Che storie ti ha raccontato quando eri bambina?

Boromir attese fino a che il rumore di passi si fu allontanato sulla ghiaia e il mormorio si fu spento nella notte, poi si rivolse a Merry, osservando, “Mio fratello a quanto pare ha trovato un’anima gemella”.

"Chi, Gil?"

"No, Ioreth."

Merry rise. "Pensi che riuscirà mai a piacergli? Gil, intendo, non Ioreth."

"Non lo so." Boromir scompigliò i capelli di Merry affettuosamente. “Sei stanco, piccoletto? Non preferisci dormire in un letto caldo, finchè puoi ancora farlo?”

"No. Voglio stare qui con te, sotto le stelle”.

Merry si alzò in piedi andando a sedersi sulla panca accanto a Boromir. Poi entrambi si strinsero nei loro mantelli appoggiandosi al muro, allungando le gambe davanti a loro. A dire la verità le corte gambe di Merry arrivavano appena al limite della panca, e i suoi piedi nudi restavano fuori dal mantello, ma era un notte tiepida, ed era lieto di sentire il vento sulla pelle.

Mentre sedevano in pacifico silenzio, a Merry ritornò in mente di nuovo la canzone di Bilbo. Non si era mai accorto di quanto fosse triste. Ma a pensarci bene, non si era mai sentito triste al pensiero di mettersi in strada. Visto che non trovava un altro modo di esprimere i propri pensieri e le parole gli venivano meno quanto più gli servivano, recitò ad alta voce i familiari versi.

La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la via è fuggita avanti,
devo inseguirla ad ogni costo
rincorrendola con piedi alati,
sino all’incrocio con una più larga
dove si uniscono piste e sentieri.
E poi dove andrò? Nessuno lo sa.

"Non ho mai chiesto a Bilbo se c’era un’altra strofa", meditò, "una che parlava di stare al sicuro in casa, dove la strada non possa portarti via".

"O forse una che parla della strada verso casa” suggerì Boromir.

"Casa. Ogni strada conduce alla casa di qualcuno, immagino”.

Si interruppe e deglutì faticosamente. La notte stava scivolando via, così come il giorno precedente, e il tempo era breve. Troppo presto avrebbe dovuto pronunciare un balbettante addio, e Frodo, Pipino, e il richiamo della sua amata Contea lo avrebbero inesorabilmente portato via, senza lasciargli il tempo di dire le parole che davvero contavano.

Raccogliendo il coraggio e confidando che le parole sarebbero venute da sole, Merry cominciò, "Boromir, io..." Ma non riuscì a dire nulla, e la voce gli morì in gola tra le lacrime.

Boromir lo fissò con il suo sguardo bendato. "Pace, piccoletto".

"Presto sarà mattina."

"Non così presto. Abbiamo ancora molte ore di oscurità davanti a noi”.

"Mi sembra solo un momento.” Merry chinò il capo, e le lacrime gli caddero calde sulle mani intrecciate.

"Non piangere." La mano di Boromir trovò quella di Merry e la strinse con calore."Non dobbiamo dirci addio prima del tempo, e non è bene sprecare il tempo piangendo”.

"Che cosa faremo, allora?"

"Ascolteremo le stelle. Saremo felici almeno per un po’. Aspetteremo il mattino insieme”.

"E poi ci diremo addio”.

"Quando sarà il momento."

Con un ultimo sconsolato singhiozzo, Merry si pulì il viso con la manica e si mise ad aspettare. Protetto dal calore dell’uomo, abbandonò il suo dolore e si rilassò nella bellezza della notte, senza ansia né preoccupazione. Poi, finalmente, il sonno lo vinse, e la sua testa scivolò fino a posarsi contro il fianco di Boromir. Boromir coprì la piccola figura raggomitolata con il suo mantello, e da qualche parte in mezzo al canto delle stelle, si addormentò.

Continua...

*Nota: La leggenda di Maeldhuin e Gilthaethil è stata scritta da Annys. Il personaggio di Maeldhuin appartiene a lei, mentre Gilthaethil appartiene a PlasticChevy e Annys (PlasticChevy ha inventato il nome e fornito la cornice storica, Annys ha fatto il resto.) La storia completa verrà pubblicata probabilmente come un'Appendice a "Il Capitano e il Re".

  
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