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Autore: FBYcorporation_    30/12/2009    3 recensioni
I college americani sono celebri per le centinaia di club e sette che si formano al loro interno, costituiti dalle personalità più astruse e disparate. Ma l' Università di Yale (Connecticut) ospita uno dei circoli più esclusivi e movimentati dell'intera regione, l'FBY: un nome peculiare, ispirato da una quasi omonima agenzia di investigazioni private. Eppure, le cinque ragazze che lo compongono, hanno decisamente altri scopi, che ben si differiscono dal mestiere dell'agente segreto. Ognuna ha un'indole discorde, come Michelle che ha la nomea di donna facile o Sharon che sfiora il misantropismo, e ancora Juliet e Alice che al contrario, sono vivaci ma al contempo fragili e romantiche. Insomma, questa è la loro storia. La storia di un gruppo di amiche che esiste realmente, scritta a quattro mani dall'FBYcorporation_.
[ dal capitolo primo ~ pov di michelle ] Non badavo assolutamente a quello che gli altri pensavano di me. Solo io sapevo realmente com’ero, come mi ponevo con gli altri, perché mi ponevo in quel modo. Solo io, e poche altre. E questo mi porta al mio amato, amatissimo FBY.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~ Prologo.

 

E' oramai una consuetudine affermare che le conoscenze via internet non possano costituire autentiche amicizie, eppure, noi non la pensiamo così. Parlo di noi non tanto perchè sono così boriosa da appiopparmi anche un plurale maiestatis, ma perchè sottintendo il pensiero di tutte coloro che hanno dato vita a questa storia, e che ne ispirano i personaggi. Si, parlo di noi: Chiara, Giulia, Laura e Letizia. Le quattro squinternate che si sono conosciute su un GdR su Harry Potter, e che mano a mano hanno dato vita ad una vera ed intensa amicizia. Sono circa due anni che i nostri pg si muovono su Mondohogwarts e altrettanto tempo che noi ci conosciamo; ma nonostante si dica che il tempo logora i rapporti, noi siamo ancora unite, forse più che mai. Sentiamo la mancanza se qualcuna si assenta per molto tempo, ci consoliamo a vicenda per le nostre pene d'amore e assieme ridiamo e ci scambiamo ridicole faccine su msn. Oh si, e talvolta coniamo anche nuovi termini - vedi: pipparda, anguilloso, juesco.  Insomma, non possiamo non definirci A M I C H E con tutte le lettere maiuscole!

E per dimostrare alle altre due che questi sono i nostri reali sentimenti - si: vi amiamoh incondizionatamente, ammettiamo! (H) - io & Lae - alias, Letizia - dedichiamo a loro questa storia, interamente ispirata a burattinaie e pg.

Buona lettura, dears.

Chiara & Lae

[ma più da Chiara, che ha scritto tutto 'sto mammadrone (A) ]



~ Il diavolo veste prada.

« Tutti vogliono essere noi »

 

 

Michelle’s POV

 

Distolsi lo sguardo dal finestrino, per posare le mie iridi nere sul ragazzo che stava dormendo, stravaccato sulla poltroncina del mio aereo personale, russando sonoramente, la testa inclinata verso destra, una mano a sorreggerla. Mi soffermai solo per un attimo ad osservare la perfezione di quel gran pezzo di ragazzo che mi ero trovata in Francia, precisamente a Parigi, dove ero stata per due mesi.
Ero partita poco dopo l’inizio delle vacanze, dopo il primo anno di università, a Yale, per la Francia, per andare a trovare mia madre. Ovviamente, avevo fatto una gran fatica a riconoscerla. Erano anni che non ci vedevamo, e non potevo farmi sfuggire l’occasione di non vedere Parigi e bearmi dei bei parigini che di sicuro avrei incontrato. E uno di quelli, era di sicuro Jean.
Ok, il nome faceva decisamente schifo, ma non rendeva la bellezza di quella specie di Dio Greco che mi trovavo davanti in questo momento. Aveva dei capelli biondi, la carnagione chiara, gli occhi di un azzurro che raramente avevo incontrato nel mio, seppur breve, arco di vita. Jean – feci una piccola smorfia nel pensare quel nome – aveva le mascelle squadrate. I capelli erano disordinati quanto bastava, un piccolo accenno di barba, addominali scolpiti, spalle larghe. Il mio paradiso personale, uno dei tanti, Jean aveva solo la fortuna di essere l’ultimo, che avevo avuto l’istinto di descrivere in quel modo. Certo, quanto a sesso il signore ci sapeva fare, e non poco. E io non avevo voglia di restarmene lì a fissarlo, soprattutto quando avevamo a disposizione un intero aereo tutto per noi.  Mi avvicinai, alzandomi la gonna, facendo sì che le mie cosce venissero scoperte, e così anche gli autoreggenti neri che indossavo. Mi avvicinai, sedendomi sulle gambe di Jans, allargandole.
«Mmh…» sussurrai accanto al suo orecchio, cominciando a stuzzicarlo, mordicchiandogli un lobo. «Non avrai mica davvero intenzione di dormire?» continuai, con tutto l’intento di svegliarlo. Mi allontanai un poco, facendo scendere la mano destra lungo la sua felpa, per poi risalire all’interno di essa, sfiorando con l’indice i suoi addominali scolpiti. Lo osservai in viso, avvicinandomi quel tanto che bastava per dargli un bacio, casto, sulle labbra, che ebbe il potere di svegliarlo quanto una secchiata di acqua gelida. «Finalmente» mormorai infine portando la mano sinistra ad intrecciarsi tra i suoi capelli, avvicinando il suo corpo al mio, necessitando del contatto fisico, stringendo le gambe intorno alle sue. Lo baciai con passione, e lui rispose con altrettanto vigore. La sua mano scese ad accarezzarmi i fianchi, per scendere fino alla cosce, addentrandosi in mezzo ad esse. La mia mano destra, esperta, scese fino all’attaccatura dei pantaloni, slacciando quel bottone che mi separava dalla sua eccitazione. Allentai la cintura, poi aprii la zip.
Quando sentii il suo membro entrare in me, strinsi le mani contro la sua schiena, quasi graffiando la sua pelle, e inspirai profondamente, lasciandomi andare al piacere.

 

Arrivammo a New York con un leggero ritardo. Mi aggiustai la camicetta bianca e la gonna nera, lucida, con il gilet dello stesso tessuto. L’estate volgeva al termine, ma il caldo afoso della Grande Mela mi travolse, a contrasto con l’aria condizionale dell’aereo. Sospirai, sventolandomi il ventaglio all’altezza del viso. Avevo appena sceso le scalette, e mi guardai intorno, fino ad individuare una limousine nera, lucida, a pochi passi da me. Jack, il mio autista personale, mi aspettava con un sorriso stampato in faccia. Gli feci un cenno di attesa, poi mi volsi verso Jean, che si aggiustava la camicia con un sorriso soddisfatto.
«Bhè.. Grazie per la splendida giornata!» esclamai con un sorriso seducente, avvicinandomi per regalargli un ultimo, passionale bacio.
«Grazie a te del passaggio, bellezza» mi rispose posandomi una ciocca di capelli che mi ricadevano sulle spalle in boccoli leggeri, dietro l’orecchio, per poi allontanarsi, dirigendosi verso un taxi.
Mi allontanai a mia volta, dirigendomi verso la limousine.
«Signorina Edwards, prego. Spero che la notizia del ritorno di suo padre sia di suo gradimento» sbuffai, facendo una smorfia che non mi preoccupai di nascondere. Mio padre, non avevo minimamente voglia di vederlo. Mi avrebbe chiesto come sarebbe andata con mia madre, ed io non sapevo cos inventarmi, visto che, in due mesi a Parigi, l’avevo vista sì e no due volte.
«Parti e stai zitto.» replicai con voce fredda, alzando il tettino che mi separava dall’autista, per bearmi della tranquillità dei vetri oscurati, dello champagne che si trovava nel frigo-bar davanti a me. Mangiai delle tortine, prima di arrivare a casa. Avrei dovuto evitare mio padre soltanto per un giorno, poi sarei ripartita per la mia adorata Yale.
Farlo fu più facile del previsto. Mio padre viveva per me. Mi aveva viziata fino alla nausea, con la sua ricchezza, ed ora ne pagava le conseguenze. Mi chiusi in un silenzio assoluto fino all’ora di salire in camera, e mi chiusi la porta a chiave, incurante delle minacce che, dietro il muro di legno, mi urlava con voce rotta dal pianto. Sperava anche che mi commovessi con le sue lamentele?! Mi addormentai pochi minuti dopo, esausta, sperando che ci fosse un Jean qualunque, accanto a me, con il quale sfogare la rabbia, e magari anche qualcos’altro.

 

***

 

Yale era il sogno di una vita. Per una ragazza come me che voleva diventare una scrittrice di successo, nessuna università poteva pareggiare i conti con Yale. Ero troppo poco… ligia alle regole per riuscire ad entrare alla Harvard, e avevo reclinato con questa università. Non che non mi piacesse, eh. Innanzitutto, il clima caldo del New Haven, Connecticut, era il clima che faceva esattamente per me. Inverni caldi, estati torride. Ecco perché avevo deciso che l’estate prossima sarei rimasta lì, anche se mia madre mi avesse pregato in ginocchio di tornare a Parigi. Figuriamoci, poi, se mi facevo pregare da lei, che non vedevo dall’età di circa cinque anni. Inoltre, a Yale avevo subito trovato il mio posto. Durante il primo anno di università – stavo per cominciare il secondo – ero diventata popolare. Ero considerata una delle più belle ragazze di Yale – se non la più bella -, la più sensuale e anche la più… facile. Ma non mi interessava. Non badavo assolutamente a quello che gli altri pensavano di me. Solo io sapevo realmente com’ero, come mi ponevo con gli altri, perché mi ponevo in quel modo. Solo io, e poche altre. E questo mi porta al mio amato, amatissimo FBY.
FBY.
Fuck Boys Yeah!
Lo so, il nome sembrerà inappropriato, femminista. Era nato quando, l’anno scorso, avevo avuto la mia prima vero delusione d’amore. Ci ero rimasta malissimo, ero rimasta una straccio per settimane e settimane. Ero diventata cattiva, più cattiva del solito. Ma le mie amiche mi erano rimaste vicino. Mi ero aggrappata a questo nome, avevo ideato il club, che, con il passare del tempo, era diventato uno stile di vita. Non ci importava che ormai nessuna di noi badava più al significato della sigla, non importava che ormai il club non fosse più un fatto ufficiale, come lo era stato durante il primo anno a Yale. Avevamo le nostre personali serate film.
Quanto tempo avevamo pensato di poter davvero fare delle serate film con le mie amiche, senza mai riuscirci. No, non le avevo conosciute al college. Il nostro legame era cominciato molto, molto tempo prima.

Avevamo circa quindici anni. Abitavamo in parti diverse dall’America.
Io abitavo a New York.

Sharon a Cape Cod.
Juliet a Los Angeles.

Eppure, quattro schermi ci univano.

Quattro schermi diversi, schermi di computer. Parlando per me, ero un’asociale di prima categoria. Ritenevo assolutamente inutile parlare e parlare con delle ragazze attraverso uno schermo. E all’inizio mi divertito a prenderle in giro. Ma con il passare del tempo, mese dopo mese, anno dopo anno, mi ero accorta che ogni giorno, tornata a casa, accendevo il computer, e rimanevo lì per ore, solo per parlare con una delle tre. Se c’eravamo tutte e quattro, come spesso capitava, era anche meglio. Mi ricordo le chattate con i progetti sul futuro, i nostri sogni, le nostre paure. Sono state le prime amiche vere che ho avuto, io che non avrei mai creduto di poter avere un’amica.
Quel giorno che non dimenticherò mai era il primo settembre dell’anno precedente. Ero in fibrillazione. Il mio primo giorno a Yale! Ovviamente, avevo già visitato l’università, gli alloggi. Ma non sapevo con chi sarei capitata in camera, e tanto bastava per rassicurarmi. Sarei sicuramente diventata la leader di quel gruppo di svitate, e anche la leader di tutta Yale. Ero nata, per esserlo.
Quando andai nella camera che avevo scelto, mi trovai davanti altre due ragazze. Non sapevo chi fossero. Una era castana, vestita malamente, con una mano fasciata, probabilmente reduce di qualche caduta. L’altra era mora, occhi cerulei, abbastanza carina. Capii che il vero ostacolo da abbattere era la mora dagli occhi cerulei.
«Ciao! Io sono Juliet Lucky!» appena la ragazza mal vestita si presentò, aprii la bocca varie volte. Dovevo sembrare come minimo idiota, quindi mi affrettai a richiuderla. Non era possibile che fosse lei, potevano esserci migliaia di Juliet Lucky. Ma, siccome non riuscivo a mentire bene soprattutto a me stessa, non in quella situazione, mi presentai a mia volta. Non feci in tempo a finire la frase, che Juliet mi saltò in braccio, troppo contenta per contenersi.
«Sei tu! Sei tu! Lo sapevo che ci saremmo incontrate a Yale, un giorno!» e allora capii che la ragazza che avevo davanti era proprio quella ragazza con la quale, per due anni, avevo parlato attraverso il computer, e l’altra che le era accanto – solo adesso la riconoscevo da una vecchia foto – era proprio Sharon Peterson. Abbracciai anche lei, sincera, per poi staccarmi, e guardarmi intorno.
«Alice?» domandi con apprensione.
«Arriverà qui il prossimo anno!»
Avevamo urlato tutte e tre in contemporanea, poi ci eravamo gettati sui letti che volevamo prendere. Io, il rosa. Ju l’azzurro e Shar, che doveva andare in una camera separata dalla nostra, il rosso. Ad Alice, che speravamo sarebbe stata in camera con Sharon, avevamo lasciato quello verde.
In quel momento, osservando l’alta torre di Yale, la biblioteca più grande del Connecticut, gli alloggi degli studenti e il grande, grandissimo parco, andai di nuovo in fibrillazione: quell’anno ci sarebbe stato anche Alice e quell’anno avrebbe portato numerose novità, sognai, intanto che salutavo coloro che, adulanti, cercavano il mio sguardo – o il mio fondoschiena – e di cui palesemente ignoravo le identità.

 

 

~ Autrice: Lae

  
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