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Autore: Shichan    04/01/2010    7 recensioni
Alcuni oggetti normalmente sulla scrivania erano stati scaraventati a terra e immancabilmente distrutti.
Specialmente i più fragili.
Il ferma carte di cristallo, distrutto.
Il vaso sul mobile accanto, distrutto.
Il portacenere per gli ospiti che accoglieva e che fumavano, distrutto.
Il vetro della cornice, che di foto non ne teneva più, distrutto.
Il suo orgoglio.
Distrutto.
[rating giallo per linguaggio appena più volgare dello standard]
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Anche oggi piove, anche ieri pioveva;

Disclaimer: Axis Powers Hetalia non mi appartiene, ma è copyright di Hidekaz Himaruya.

La frase in apertura è tradotta dalla Character song “Pub and Go” del personaggio Inghilterra (Arthur Kirkland) delle OST ufficiali di Hetalia, ed è anch’essa copyright dei rispettivi autori.

Note: le fonti storiche sono state riprese da wikipedia-sama. Per le note che le riguardano, vi rimando alla fine della fanfic.

in quanto fan di Hetalia era forse destino che io scrivessi angst su questi due? *intanto si rende conto che su un anime comico lei riesce a scrivere solo una devastazione dopo l’altra*

Potrei inquietarmi, in effetti.

Dedica: alla Spagna del mio personale BadTrio <3

 

 

 

 

Anche oggi piove, anche ieri pioveva;

sicuramente anche domani pioverà.

 

Ancora oggi, se ci ripensa, Inghilterra sente delle fauci immaginarie stringergli lo stomaco con così tanta violenza che quasi teme di piegarsi in due a volte.

Gli fa una rabbia tale – come sempre – da mandare a puttane tutto ciò che dello stampo inglese lo rende fiero: se ne vanno le buone maniere, l’attenzione ai particolari, l’ordine maniacale ed il perfetto controllo delle emozioni.

A volte impreca, Inghilterra.

Altre si ubriaca talmente tanto che diventa uno straccio, e passa il resto di quella schifosa serata all’insegna dell’alcool al bagno a fare qualcosa di poco elegante.

C’è stata addirittura una volta – se lo ricorda ancora – in cui ci ha rimesso il suo studio. Il giorno dopo non era riuscito a trovare la metà dei documenti – accartocciati a terra tanto che guardarli lo aveva fatto rabbrividire, lui che li teneva come oro – e alcuni oggetti normalmente sulla scrivania erano stati scaraventati a terra e immancabilmente distrutti.

Specialmente i più fragili.

Il ferma carte di cristallo, distrutto.

Il vaso sul mobile accanto, distrutto.

Il portacenere per gli ospiti che accoglieva e che fumavano, distrutto.

Il vetro della cornice, che di foto non ne teneva più, distrutto.

Il suo orgoglio.

Distrutto.

Sì, se la ricorda bene ancora oggi quella volta.

 

 

Non ha voglia di andare, non ce l’ha mai.

Anche se alla fine va sempre, e non dice mai di no – perché ha il senso del dovere, e spesso si dice che non è un bene.

Ci sono un sacco di cose che odia dei meeting di quelle che ormai sono conosciute come le “Nazioni Unite”, o Alleati che dir si voglia: il viaggio, ad esempio. Le ore tediose per le quali deve vagare lontano da casa sua, dai suoi ritmi, dai suoi tempi e soprattutto dalla sua puntualità.

Perché non importa dove vada per il meeting: c’è sempre qualcosa che non funziona, che arriva in ritardo provando i suoi nervi.

E davvero non ne ha bisogno.

Non gli vanno a genio nemmeno le interminabili ore che perdono a parlare; incoerenza, così la chiama lui – e spesso non si è nemmeno dato la pena di tenerselo per sé.

Alleati.

Certo, come no, e lui ponderava in segreto di tradire la Regina Madre.

Bugie. Si mascheravano da buonisti e si incontravano insieme; discutevano con falsa cordialità e toni amichevoli, cercando di mettersi d’accordo sempre nel modo più giusto che poi giusto non era mai – doveva ancora vederla, una Nazione forte che accettava di buon grado di cedere un suo territorio ad una più piccola.

Fandonie. L’altruismo che tanto decantavano non esisteva, una qualsiasi nazione debole sarebbe anche potuta andare a morire ed era certo – poteva giocarsi tutti i suoi amici fatati in una volta sola su questo – che senza un tornaconto nessuna delle Nazioni Unite avrebbe mosso un dito.

Nemmeno lui.

Ma almeno non giocava a quello stupido gioco della famiglia felice come se il mondo fosse destinato a vivere in pace.

Come se gli scontri fossero un passato lontano che non sarebbe più tornato.

Stronzate.

E poi, beh, le precedenti riunioni non erano state entusiasmanti, specie le prime: non aveva trovato affatto stimolante un incontro in cui le nazioni africane se ne erano state per fatti loro e a lui era toccato interagire con quell’egocentrico di Polonia. E Canada, d’altra parte, se ne era stato in silenzio in disparte tanto che ad un certo punto si era persino dimenticato di lui.

L’unica compagnia che a quel punto gli era rimasta e che conosceva abbastanza era stata Francia (1); e per l’amor di Dio, no.

Del francese gli dava fastidio davvero poco meno di tutto: quel sorriso imbecille, per dirne una.

O quella sua mania di palpare tutto e tutti, o gli approcci maliziosi che sarebbe stato capace di rifilare anche ad una sedia.

Lo stressava il solo pensiero di una conversazione con lui e con quel suo accento strascicato che sputava fuori sentenze sulla bellezza dell’amore, il fascino del suo paese e la gioia della vita.

E – per Dio – non sopportava di essere chiamato Iggy. Che razza di nome era, poi, Iggy?

Ma soprattutto, Inghilterra non dimenticava – era uno dei suoi pregi o difetti, a seconda del punto di vista.

Arthur non scordava che Francis, in quella guerra che lo aveva visto piegarsi con le ginocchia nel fango nell’incapacità di puntare l’arma contro Alfred , si era alleato con America. (2)

 

1942.

Tre anni dalla prima volta che si sono riuniti, e di nuovo si è dovuto sorbire il viaggio.

Alla fine è arrivato col solito nervosismo – si è detto che però è anche colpa sua, e del suo snervarsi con troppa facilità e per le cose più assurde a volte.

È passato a sistemare le proprie cose; se anche il meeting durasse un solo giorno per non si sa quale grazia ricevuta, dovrebbe comunque aspettare il giorno dopo per ripartire e tornarsene a casa.

Cammina per il corridoio, Inghilterra, diretto alla stanza che è sempre la stessa e all’interno della quale ci saranno sempre le stesse nazioni.

Forse qualcuno di nuovo, sì: Francia non ha avuto di meglio da fare che chiamarlo ad un orario improponibile per avvisarlo del meeting e spettegolare – e lui voleva dormire, damn.

Lo consola solo il fatto che proprio per i “nuovi acquisti” forse si risparmierà di passare tutto il tempo letteralmente tampinato da Francis.

Aumenta il passo.

Sa che fra gli ultimi arrivi, escludendo Russia che ha deciso di degnarli della sua presenza da sei mesi già (3), c’è anche Cina; e hanno avuto i loro problemi, lui e Yao Wang, cosa che non gli fa sperare in un approccio molto positivo a dirla tutta.

Raggiunge la porta ed intravede alcune nazioni, volti più o meno familiari; niente più che cenni fra loro.

Non fa in tempo ad entrare che sente pronunciare l’ormai conosciuto quanto odiato “Iggy”, il che gli fa supporre senza bisogno di un eccessivo sforzo neuronale che Francis sta per piombargli fra capo e collo – tanto per rendere amabile anche quell’incontro eh.

Lo sente che blatera – e gli basta un’occhiataccia per fermare sul nascere il movimento casuale della mano di Francis casualmente orientata verso il suo fondoschiena.

Poi entra, un’occhiata alla sala, altri volti conosciuti; individua Wang, impegnato a borbottare qualcosa indignato all’indirizzo di Russia.

Non si sorprende di Grecia che dorme in un angolo, nemmeno di Polonia di cui coglie frammenti di conversazione con Belgio – più che stupirlo che stia sottolineando alla ragazza che lui con un nastro fra i capelli sta (tipo) molto meglio, lo stupisce che non sia venuto in gonna.

Individua non sa come Canada; sono venuti separati stavolta e

Inghilterra si ferma, Francia lo imita; Francis ha visto cos’è che Arthur ha notato.

Il sorriso che di solito ha una connotazione maliziosa sfuma e l’espressione si fa seria, ma Inghilterra è troppo preso da altro.

È troppo scioccato, confuso, allibito, incredulo; è troppo incazzato e impegnato a non dare un pugno o un calcio alla porta che è ancora sotto tiro, per star lì a notare che Francis se ne è accorto.

Che Inghilterra ha visto America.

 

È uscito veloce come è entrato, ma non in maniera altrettanto discreta.

Nel seguirlo, Francia ha notato Cina alzare lo sguardo interrompendo quel tentativo di resistenza verso Russia – di qualche sua proposta probabilmente.

Ha visto Polonia spostare lo sguardo e l’attenzione da Belgio (e da se stesso), e Canada che con espressione preoccupata aveva pigolato un: «Inghilterra-san…» ignorato dall’inglese.

E America, che alzava lo sguardo per riflesso e lo scostava di nuovo.

 

Inghilterra, dipendesse da lui, sarebbe già fuori da quel posto e non solo dalla stanza del meeting.

Ma Francis l’ha seguito, e l’ha fermato, e ha anche provato a farlo ragionare.

Inghilterra è stanco sotto molti punti di vista; è stufo di vedere i propri tentativi di mantenere la calma andare a vuoto, stufo di incontri come quello, stufo di Francis che lo segue, che parla e gioca con lui a fare il fratello assennato.

Inghilterra non ne può più: della tristezza, dei sensi di colpa immotivati che non sa spiegarsi – perché di certo non è lui quello in torto, lì! – e di vedersi sbattere in faccia quella realtà da cui si impegna giorno dopo giorno a fuggire.

O almeno a distogliere lo sguardo.

«Mon Dieu, Arthur…»

«Francis, se stai cercando di farmi incazzare lo sono già!» sbotta – sottolineare l’ovvio è una cosa che gli è sempre riuscita.

«Non puoi andartene da un meeting.»

«Non ci sarei nemmeno venuto se avessi saputo, fuck

«Per questo non te l’ho detto, mon ami.» sottolinea in un sussurro Francia.

E Inghilterra si morde il labbro, perché davvero potrebbe pestare Francis col chiaro intento di ammazzarlo stavolta.

È vissuto bene per quasi due secoli, ignorando per quanto possibile ogni singola informazione che riguardasse il “Nuovo Continente”; è vissuto tra le scartoffie e l’ordine che apprezza tanto. Ha passato gli ultimi due secoli da solo, Arthur, e non vede perché dovrebbe cercare compagnia: in questo modo non deve scendere a compromessi con nessuno, non deve alterare le proprie abitudini, e non importa se pur essere un  gentleman ha dei difetti, perché non deve renderne conto a nessuno.

Inghilterra – se lo è detto tante volte quando la tentazione di deprimersi era forte, fortissima – vive bene e non si sente solo. Qualora fosse, ha i suoi unicorni, e le fate, e i folletti.

E il fantasma di un America bambino lì nella stanza.

 

Lo sapeva, che sarebbe finita così quando si è lasciato convincere a rientrare, perciò Inghilterra non si stupisce affatto di stare discutendo con America ormai da dieci minuti.

Non lo sorprende nulla: né gli insulti che si stanno rivolgendo, né le occhiatacce e neppure il fatto che l’unico pensiero coerente nella mente di entrambi sembra essere “è colpa tua”.

Se lo aspettava, e più parla più sente montare la rabbia, e il viso accaldato a forza di alzare la voce mentre l’irritazione aumenta anche solo a guardare quell’imbecille.

Si ripete mentalmente che a lui non deve importare.

Che finché America non sfiora la sua nazione con le proposte e si interessa solo di se stesso, lui – Inghilterra – può anche fregarsene di quello che dice.

Eppure, è così preso dalla voglia di sputargli tutto addosso che non si accorge di niente; né degli sguardi degli altri presenti che sono perplessi se non altro da quanto la stanno tirando per le lunghe su una cosa stupida che hanno persino dimenticato quale fosse, né del fatto che ad un certo punto e a gruppi più o meno piccoli hanno lasciato la stanza per una pausa – chiamata più che altro perché con loro a sbraitare non si capiva molto.

Lui sa solo che guarda America, e vede tante cose diverse.

Il bambino che ha cresciuto, che prendeva fra le braccia con una risata sincera come ne ricordava poche a causa della propria indole; un bambino che pendeva dalle sue labbra, e gli sorrideva, e diceva infantilmente di voler diventare forte per difendere Inghilterra e vivere felici insieme.

Vede – sente, in realtà, ma accade perché lo guarda – il calore che quelle parole avevano provocato all’altezza del cuore tanto tempo prima.

Inghilterra guarda Alfred, e vede un ragazzino correre ovunque, e fare un guaio dopo l’altro spesso anche facendosi male, cadendo sull’erba e ridendo come un pazzo perché esausto, ma felice.

Vede la preoccupazione che c’era per ogni suo movimento, e al tempo stesso gli sale alle labbra l’ombra di quel leggero sorriso permissivo che finiva sempre col rivolgergli malgrado i propositi di sgridarlo per averlo fatto preoccupare.

Arthur sente le imprecazioni, sente il tono troppo alto per i suoi gusti, le offese, gli insulti – anche quelli pesanti.

Ne pronuncia altrettanti, con ancora più rabbia, con voce ancora più alta sentendo qualcosa grattare nella propria gola e mandando mentalmente affanculo anche quella oltre ad Alfred.

Lo accusa senza pietà, senza rimorsi.

È colpa sua se è caduto, è colpa sua se la vecchia divisa da guerra – quella che si ripromette di buttare e poi non lo fa mai – è sporca di fango sulle ginocchia, macchiando da duecento anni e passa la stoffa una volta pulita e perfetta.

Ed è colpa sua, sua, sua se lui vive in quella casa enorme e gli viene il voltastomaco in qualsiasi stanza sia a eccezione del suo ufficio; se cede alla tentazione come in passato non avrebbe mai fatto e beve, beve fino a tirar fuori l’anima quando finisce al bagno piegato in due su una fottuta tazza del cesso.

Guarda America, e vede il giovane a cui ha chiesto di tornare a casa e che per la sua libertà – non pensa che non fosse giusto, solo… solo non così, non così presto – gli ha risposto di no sotto la pioggia.

Quello che lo ha sfidato a sparare alla cosa più cara che aveva, e poi si è voltato ed è andato via.

 

Inghilterra ansima, il fiato corto e la gola che brucia.

America, di fronte, è nello stesso stato.

La cosa che li rende diversi non è nulla di così eclatante come gli atteggiamenti o gli stili di vita divenuti sempre più diversi durante tutti quegli anni.

Inghilterra ha gli occhi verdi puntati su Alfred: lo fissa come se fosse la peggior feccia del mondo, e si colpevolizza per essere così testardamente attaccato ai ricordi che la sua figura gli riporta alla mente.

Cerca di indirizzargli contro l’odio che in realtà prova verso se stesso solo attraverso lo sguardo.

America tiene gli occhi azzurri puntati su Arthur: lo guarda come se l’inglese fosse il mostro che ti terrorizza da bambino con la sua presenza e si colpevolizza per essere così testardamente attaccato ai ricordi tanto da fare di Arthur la propria peggiore debolezza.

Cerca di indirizzargli contro la rabbia che in realtà prova verso se stesso solo attraverso lo sguardo.

«Non è cambiato niente…» mormora Alfred: «Proprio come allora, cerchi di fare di me niente più che un altro te stesso!» sbotta, il tono rabbioso mal celato.

«E tu come al solito non capisci niente! Non volevo privarti di nulla—»

«Ma lo stavi facendo, Arthur, lo fai sempre cazzo!» lo interrompe bruscamente, spintonandolo forte abbastanza perché l’altro indietreggi di qualche passo.

Non gli avrebbe lasciato l’ultima parola, nemmeno morto e sepolto.

«Se anche l’ho fatto, magari dovevi guardarti allo specchio e chiederti perché!» sputa fuori, come veleno.

Non è quello che vorrebbe dirgli – perché lui era sempre stato orgoglioso di America, e gli piaceva esattamente così come era quando vivevano insieme.

Ma Inghilterra guardava Alfred, e tutto quello che vedeva era un fallimento su tutta la linea, da parte sua.

America sorride appena, sarcastico – e ferito, è lì da qualche parte nell’angolo della bocca piegato appena più basso del solito in quel falso sorrisetto o negli occhi azzurri leggermente più assottigliati – e lo fissa.

«Perché? Perché tu lo fai sempre, Arthur, lo fai con tutti. Tu sei inglese, tu sei la Gran Bretagna, il grande e magnifico e immortale Regno Unito!» lo sfotte, è palese come lo è che lo stia facendo intenzionalmente e con cattiveria.

«Ti credevi e ti credi superiore, e intramontabile. La super potenza che ancora regge le sorti del mondo. E hai voluto creare persone e nazioni a tua immagine e somiglianza, perché così non c’era il rischio che nessuno ti superasse. E infatti tutti, Arthur, tutti ti lasciano solo, ve—» si interrompe Alfred, non per sua scelta.

Il colpo al viso che gli sta arrossando la guancia è arrivato forte, preciso, pieno di troppe cose.

Insieme al sibilo di andare a morire, mentre l’inglese è già fuori da quella sala.

America fissa per terra, il fastidioso rumore della pioggia all’esterno che gli arriva all’orecchio solamente ora; lascia che la frangia bionda gli copra gli occhi.

A terra non c’è nessun Arthur da guardare questa volta.

Inghilterra attraversa il corridoio a grandi falcate, in poco meno di una corsa, il fastidioso rumore della pioggia all’esterno che gli arriva all’orecchio solamente ora; lascia che la frangia bionda gli copra gli occhi.

A terra la moquette di un anonimo color marrone gli ricorda il fango.

 

 

Quasi quasi rimpiange quei tempi, Inghilterra.

Quelli in cui i liquori gli provocavano scatti rabbiosi, anziché farlo finire spossato con la schiena contro la porta di legno della sua stanza d’albergo a stringere in una mano il bicchiere semivuoto.

Quelli in cui ancora aveva la decenza – e la forza – di aspettare di essere di ritorno dal meeting e nella propria, di stanza, per smettere di soffocare tutto quello che da lì si riportava a casa e sfogarsi anziché farlo dove una qualsiasi nazione avrebbe potuto beccarlo in flagrante.

Almeno c’era la pioggia anche lì, a coprire i rumori.

 

Mentalmente Alfred impreca, raggiungendo la stanza di Arthur dopo aver camminato a passo di marcia nel corridoio, poggiandovi cautamente contro un orecchio.

Rimane in ascolto, in silenzio, il fiato corto.

America guarda fuori la pioggia forte come quel giorno di tanti anni fa.

Si morde un labbro, odiandola con tutto se stesso.

Stringe appena un pugno.

Inghilterra piange di nuovo.

 

 

Note

1 – riguardo le Nazioni nominate a proposito del primo meeting: i primi paesi ad entrare a far parte delle Nazioni Unite (o Alleati) lo hanno fatto nel 1939. A quell’epoca risultano un paio di stati dell’Africa, la Polonia, l’Inghilterra (con Indie annesse), la Francia e qualche altro paese. Ecco spiegata la scarsa folla di cui si lamenta Arthur.

 

2 – nella guerra che vide l’America ottenere l’indipendenza dall’Inghilterra, la Francia insieme alla Spagna e alle Province Unite si schierò contro gli inglesi.

 

3 – la Russia entrò nelle Nazioni Unite nel giugno del 1941. La Cina, insieme ad altre nazioni come gli stessi Stati Uniti vi entrarono tutti a ridosso del dicembre dello stesso anno.

Pertanto, ipotizzando un meeting prima di quel Dicembre e ambientandone uno nel 1942, per tutti quei paesi entrati nelle Nazioni Unite in quel periodo si trattava del primo meeting.

   
 
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