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Autore: _ether    04/01/2010    2 recensioni
Possono due persone sconosciute conoscersi così bene da non poter vivere l'una senza l'altra? Forse no, forse sono le loro anime a conoscersi. Forse Cèline e Philippe si amavano in un'altra vita.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Anime antiche

 

c'è una canzone che si trova nella mia anima
è quella che ho provato a scrivere più e più volte
mi sono svegliata in un freddo infinito
ma tu hai cantato per me più e più volte
quindi abbandono la testa all'indietro
e poi sollevo le mani e prego di essere solo tua.

~ Only Hope, Mandy Moore.

 

 

Dio, quanto mi stavano facendo male quelle dannatissime scarpe?

Arrancai verso il pontile e mi tolsi finalmente quelle scarpe, tacco dodici, che mia madre mi aveva costretto a mettere.

Mi sarei, con molto piacere, anche tolta il corto vestito rosso, troppo appariscente per una ragazza come me, se non avessi visto in lontananza, seduto sul bordo del pontile, una figura maschile.

Appena i miei piedi toccarono l’erba fresca una sensazione di benessere invase il mio corpo e benedii quella distesa di verde poco prima della passerella di legno dove ero diretta.

«Se mi vedesse mia madre mi ammazzerebbe» dissi in un risolino alla figura.

Era uno sconosciuto e cosa diceva sempre mia madre?

Mai parlare con gli sconosciuti.

Eppure la mia indole esuberante e sempre amichevole mi sussurrava di sedermi vicino a quel ragazzo e visto che ormai ero lì perché non poterci parlare?

«Se mi vedesse il mio mester mi espellerebbe» rispose lui sorridendo e facendo un altro tiro alla sigaretta quasi finita.

Mi voltai a guardarlo attentamente e anche se il buio invadeva tutto intorno a noi, sotto i raggi lunari riuscii a vedere i suoi lineamenti.

Non potevo dire che era un bel ragazzo, ma affascinante.

Sì, le sue espressioni mentre continuavamo a parlare, il modo in cui le labbra si alzavano ai lati formando un sorriso sghembo, gli occhi castani tendenti al verde ed espressivi, mi affascinavano.

«Come mai?» chiesi curiosa.

«Faccio parte di una squadra di calcio giovanile e non si potrebbe» mi spiegò, poi buttò la sigaretta in mare.

«E tu? Perché tua madre dovrebbe ucciderti?» chiese voltandosi verso di me.

«Sta già programmando il mio matrimonio, ci rendiamo conto? In teoria non potrei nemmeno parlare con te» spiegai incatenando i miei occhi chiari con i suoi.

Lui appena sentì la mia spiegazione scoppiò a ridere, palesemente divertito.

«Perché?» chiese, ritornando serio e guardandomi con un lato della bocca alzato in un mezzo sorriso.

«Sei un marchese?»

«No» e aggrottò la fronte.

«Ecco, allora devi starmi minimo a tre metri di distanza», sorrisi, «il mio è un altro mondo, provengo da una ricca famiglia, la mia bis nonna era addirittura contessa e la mia vita è scandita da ciò che mi ordina di fare mia madre» spiegai improvvisamente malinconica e posai lo sguardo sull’acqua scura del mare.

«E a te sta bene?»

«No, ma devo»

«Io non ci riuscirei mai» e sbuffò, quasi arrabbiato per me, «e comunque diventerò un calciatore, i soldi non saranno un problema» scherzò.

Gli diedi una leggera spinta sul braccio.

«Ne sei così sicuro?» chiesi sfottendolo. Non conoscevo quel ragazzo, ma il feeling che c’era tra noi due era palpabile.

Non sapevo niente di lui, né come si chiamava né quanti anni aveva, ma mi ritrovavo lì, seduta accanto a lui su quel piccolo pontile vicino la mia casa estiva e ci chiacchieravo come se lo conoscevo da una vita. Buffa la cosa.

«Sì, conosci la squadra di calcio di Lione?» chiese alzando un sopraciglio.

«Mio padre tifa Lione!» esclamai euforica e contenta di fargli sapere di non essere proprio impreparata.

«Gioco con la squadre giovanile da quando avevo quattordici anni» mi spiegò ridendo della mia espressione euforica di poco prima.

«Wow, complimenti. E che ci fai qui?»

«Potrei farti la stessa domanda» rispose vago, così sorrisi complice.

Improvvisamente sentii la voce di mia madre in lontananza.

«Céline, Céline dove sei?» urlava preoccupata.

Sbuffai e alzai gli occhi al cielo stellato.

«Mi sta chiamando la strega » dissi acidamente.

Il ragazzo rise divertito poi aggiunse: «così ti chiami Céline?»

Non mi tolse lo sguardo di dosso mentre io mi alzavo in piedi e mi rimettevo le scomode scarpe.

«Oui, tu?» chiesi curiosa.

«Lo scoprirai solo vivendo» rispose vago e ritornò a fissare l’orizzonte scuro nella stessa posizione assorta in cui l’avevo visto poco prima.

Me ne andai, in direzione della voce di mia madre, a grandi passi e con il ticchettio dei tacchi di sottofondo, lasciandolo lì.

 

Non sapevo nulla di lui eppure ogni giorno mi ritrovavo su quel pontile, alla stessa ora, pronta ad aspettarlo. Invano, inizialmente, poi al terzo giorno quando ormai credevo di non poterlo più vedere riapparve come un fulmine a ciel sereno.

Arrivai convinta di non trovarlo e invece era in piedi a fissare l’acqua scura. Notai subito la sua altezza, era sicuramente molto più alto di me che ero al contrario molto minuta.

«Ciao» salutai imbarazzata.

«Speravo di rivederti» rispose, senza però girarsi a guardarmi. Manteneva la sua posizione dritta e le mani dentro le tasche dei jeans consumati dal tempo.

Mi avvicinai a lui lentamente, affiancandolo.

«Anch’io» dissi sincera.

Rimanemmo per minuti interi muti, senza nemmeno guardarci o sfiorarci infine lui parlò.

«Credo di amarti» dissi in un sussurro.

Corrucciai la fronte, sicura di aver sentito male, non era assolutamente possibile così scoppiai a ridere.

«Mi.. Mi ami?» chiesi balbettando e al suono delle mie parole risi di nuovo.

«Io ti dico che ti amo e tu ridi?» chiese, ma subito dopo scoppiò a ridere insieme a me.

«Cos’è? Una tecnica per portarmi a letto?»

«Di solito funziona» disse annuendo.

Spalancai la bocca non credendo a quello che aveva appena detto e gli diedi uno schiaffetto giocoso sulla spalla.

«Cosa?»

Si girò a guardarmi, finalmente, e mi colpì il sorrisetto che apparve sul suo volto, «ma io non voglio portarti a letto» disse dolce.

Sbattei più volte le palpebre incredula, «non sono abbastanza attraente?» chiesi infine buttando la chiacchierata sul divertente, lo facevo sempre quando ero in difficoltà.

Lui sogghignò, «no, non intendevo quello, solo che.. è troppo complicato da spiegare» disse ritornando serio a fissare il mare.

«Ma ora sono curiosa» dissi e misi il broncio.

Sbuffò, «mi sento uno stupido a dirlo, non sono mai stato un tipo romantico, sai?»

Gli sorrisi dolcemente per infondergli coraggio nel continuare.

«Ma è come se ti conoscessi da più tempo, non da un giorno. Lo senti anche tu questo legame? Come se fossimo legati da qualcosa più potente dell’amore stesso» disse tutto d’un fiato e arrossì leggermente.

Ingoiai il groppo che mi si era formato in gola.

Sì, l’avevo percepito anch’io, ma non sapevo come spiegarlo. Quel pontile era la mia isola felice e lui, quel ragazzo di cui non sapevo neanche il nome, mi rendeva felice.

Forse era perché gli unici rapporti che avevo avuto in diciassette anni della mia vita erano solamente con persone che mi diceva mia madre e ora poter parlare liberamente con un ragazzo normale era una boccata d’aria fresca.

Ma potevo definirlo amore? Perché non lo vedevo come la vedeva lui? Ero sempre stata una ragazza realista, figlia di generazioni di matrimoni combinati e nell’amore credevo ben poco.

«Forse in un’altra vita ci amavamo»

«Forse» disse ritornando con lo sguardo lontano.

«Abbiamo un feeling particolare» dissi infine, senza dargli realmente ragione.

Rimanemmo zitti, ancora, ma non mi infastidiva quel silenzio, stranamente mi piaceva e mi faceva sentire bene.

«Philippe» disse all’improvviso, «mi chiamo Philippe».

 

Passarono i giorni e non riuscivo a spiegarmi come mai ogni sera che passavamo insieme capivo di conoscerlo sempre più a fondo, eppure non parlavamo mai di noi stessi.

Mi chiedeva cosa avevo fatto tutto il giorno e io gli raccontavo le mie giornate piene di incarichi, mi sfogavo nei riguardi di mia madre e lui mi raccontava del suo sogno, diventare calciatore. Sapevamo poco l’uno dell’altro, ma sapevo di potermi fidare di lui.

Mi ritrovavo la sera, prima di addormentarmi, a percepire il suo calore anche se lui non era lì con me e durante la notte facevo sogni strani e contorti.

Sudavo, mi agitavo e mi svegliavo urlando.

«Non andartene!» urlavo ogni notte, ma lui se ne andò ugualmente. Passò, poiché niente nella nostra vita è duraturo, tutto è momentaneo.

Ma io non mi davo per vinta, ogni sera andavo su quel pontile ad aspettarlo pregando Dio di rivederlo ancora.

Non c’erano stati baci o effusioni tra noi due, niente. Dal di fuori potevamo sembrare solamente amici, ma i suoi continui ‘ti amo’ erano diventati indispensabili per me.

Non gli rispondevo mai, non avevo la forza. Dicevo semplicemente che quella parola era importante e non bisognava svenderla in quel modo, ma lui continuava a ripetermela e io sentivo che provava seriamente quel sentimento per me.

L’ultimo giorno che lo vidi c’eravamo tuffati e avevamo nuotato fino a largo.

Giocammo tra schizzi d’acqua e scherzi e infine mi abbracciò.

Sentii il suo corpo aderire con il mio, i suoi addominali scolpiti toccare la mia pancia piatta e le sue braccia potenti stringermi.

«Ricordati sempre, in ogni momento della tua vita, che qui c’è una persona su cui puoi contare e che non ti lascerà mai» mi aveva sussurrato all’orecchio.

Ma ora era sparito e tutto quello che mi aveva detto in quei pochi giorni mi risultarono bugie, stupide bugie a cui avevo creduto perché anche se continuavo a non rispondere ai suoi ti amo ormai ne avevo bisogno.

Un giorno, verso l’inizio di luglio, mi recai al pontile per l’ultima volta.

Era il tramonto e l’acqua era di un bellissimo arancione chiaro.

Mi tolsi le ballerine e mi sedetti sul bordo della piccola passerella di legno. Fissai per diversi minuti il sole scendere e una lacrima mi solcò il volto. Sentivo la mancanza di uno sconosciuto? Ebbene sì.

Improvvisamente il mio sguardo venne attratto da una bottiglia legata ad una gamba del pontile. Curiosa mi tuffai in acqua, riuscii a prenderla con fatica e in poco tempo ritornai seduta dove mi trovavo poco prima.

Aprii la bottiglia con le mani che mi fremevano dall’emozione. Conteneva un biglietto.

Cara Céline, spero che sarai tu ad avere questo messaggio, anche se ne sono praticamente convinto. E’ la nostra isola felice in fondo.

In ogni caso, se sei tu spero che non ce l’avrai con me per essere sparito in quel modo, purtroppo sono dovuto ritornare a Lione.

Sappi che non ti dimenticherò, sai la mia teoria no?

Siamo anime antiche, separate dal destino, e ti amo immensamente con tutto il mio cuore. Lo so, può sembrare stupido, come mi dicevi sempre tu non si deve svendere una parola così importante e credimi, quella parola non l’avevo detta a nessun’altra ragazza. Sei stata la prima.

Ti scrivo qui il mio numero di telefono se mai vorrai telefonarmi.

Ti amo, tuo Philippe.

Finita di leggere le lacrime affluirono inevitabilmente, appannandomi la vista e bagnando il pezzo di carta.

Singhiozzavo come una bambina di due anni e mi portai le mani al cuore che sembrava volesse uscirmi dal petto.

Ti amo, urlai con tutte le forze che avevo in corpo, ma sapevo che tu non potevi sentirmi, non più.

Il giorno dopo ripresa dallo shock mi misi seduta come sempre sul bordo del pontile con le gambe a penzoloni e il cellulare in mano.

Composi piena di adrenalina il suo numero e al terzo squillo rispose.

«Pronto, Philippe?» chiesi titubante.

«Céline?»

Riconobbi immediatamente la sua voce profonda e un groppo mi si formò in gola.

«Avevi ragione tu» dissi sentendo la gola bruciare e le lacrime scendere dai miei occhi.

«Su cosa?» chiese non capendo.

«Sul legame che abbiamo. Mi sento una stupida a dirtelo, non credevo nell’amore, ma la tua presenza è diventata indispensabile per me e quando sei sparito io.. sono vuota, mi sento vuota» non smettevo più di parlare, mentre le lacrime continuavano a scendere e i singhiozzi iniziarono ad uscire dalla mia bocca.

«Mi credi?» chiese balbettando.

«Sì»

Rimanemmo ore a parlare al telefono cullata dalla sua voce. Tenevo gli occhi chiusi immaginandolo di fronte a me.

«Mi piacerebbe una grande casa con intorno un grande giardino, magari in America»

«Te la comprerò, anzi, ti comprerò tutto il Central Park e ci farò costruire una casa al centro»

«Ci vivremo insieme ai nostri due figli»

«Alexander»

«e Camille» dissi infine ridendo e rise anche il mio cuore quando sentii la sua risata cristallina al di là della cornetta.

Purtroppo come arrivò la fine dell’estate, arrivò anche la fine delle telefonate.

Smise di chiamarmi ed io ero troppo orgogliosa per chiamarlo.

Non lo sentii più; ritornai a Parigi e trascorsi giorni chiusa in camera a piangere.

Non avevo più la mia isola felice, non avevo più il mio Peter Pan e io, piccola Wendy, non potevo volare senza di lui.

Ma come passa il prima amore, passò anche lui. Cominciai l’ultimo anno di superiori, continuai a prendere ordini da mia madre e due anni dopo, all’università, conobbi Gaspard.

All’età di ventiquattro anni chiese la mia mano, con estrema felicità di mia madre, dissi di sì e lo amavo. Avevo imparato ad amarlo, come ogni coppia normale.

Fu, però, al nostro ultimo viaggio da fidanzati che rincontrai Philippe.

Ero all’aeroporto di New York, pronta a ritornare a Parigi e nella folla vidi i suoi occhi e il suo mezzo sorriso.

Rimasi immobile a fissarlo non capacitandomi della visione. Era pura follia. Il destino ci aveva diviso, come poteva ora volerci far incontrare di nuovo?

Ma qualcos’altro prese possesso del mio corpo; lasciai Gaspard da solo e corsi nella sua direzione, nessuno poteva fermarmi.

Lui era di spalle e appena gli fui dietro feci un respiro profondo e lo chiamai.

Dissi il suo nome con voce tremante e piena di emozione, ma lui la riconobbe.

Lo capii all’istante. Erano passati sette anni, lui ormai era uomo e io una giovane donna.

Gli buttai subito le braccia al collo e lo baciai.

Lo baciai di fronte ai suoi amici che rimasero senza parole, lo baciai davanti alla signora che aspettava di vedere il suo biglietto aereo e persino di fronte a Gaspard che rimase perplesso dalla scena.

Non mi importava nulla, non mi importava di ferire qualcuno; lo baciai gustandomi quel nostro primo bacio, quel bacio che ogni notte mi ero sognata all’età di diciassette anni.

La sua bocca era morbida al contatto con la mia e la frenesia prese possesso delle nostre labbra.

Appena mi staccai lo dissi, dissi quello che non avevo mai avuto il coraggio di dirgli.

«Ti amo, mia anima antica» sussurrai appoggiando la mia fronte alla sua.

Chiusi gli occhi per gustarmi quel momento, una volta per tutte.

Sentii il suo risolino e una sua mano accarezzarmi i capelli.

«Finalmente, Céline, finalmente».

 

 

Non so, mi è uscita così e poiché sto già scrivendo un’altra storia originale (Just Hold Me) ho preferito scrivere solamente una one-shot su Cèline e Philippe.

Mi esce dal cuore, quindi prendetela così come è venuta (:

Come l’altra originale molte cose che ho scritto qui sono vere, come ad esempio alcuni dialoghi o cose che sento quindi è stato per me anche uno sfogo.

Non è un granchè, ma spero vi piacerà comunque.

 

A me stessa, a Ròrò che come me non crede molto nelle sue capacità, ma mi deve credere; lei ha talento.

A Daiana che è sempre dolce nei miei riguardi e ha un’intelligenza fuori dal normale. Infine, ma non meno importante, a Filippo, perché io credo in lui.

  
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