Edipo
Un ragazzo vestito
di un lungo e soffice abito color sabbia correva per l’atrio della sua casa,
sorridendo: quel giorno era il compleanno del suo nonno, che compiva ben cento
anni, e lui aveva da mostrargli i suoi progressi nell’arte del maneggiare le
spade che gli erano state regalate due anni prima, per il suo decimo
compleanno.
«Nonno! Nonno!»
esclamò felice, rischiando di inciampare nel prezioso tappeto persiano del
corridoio nel quale era appena entrato.
Percepì un leggero
spostamento alla sua destra e subito si fermò, sfoderando una delle due spade
che teneva legate alla cintola dell’abito. Subito, la sottile figura di una
katana balenò, colta con la coda dei suoi occhi. Riuscì a stento a parare il
fendente.
«Complimenti,
cuginetto, ottimi riflessi.» disse calma una voce proveniente da una sagoma
avvolta nell’oscurità di una stanza dalla porta aperta.
«Karin! Santo cielo,
mi hai spaventato.» mormorò Kurapika, a fiato corto, rinfoderando una delle
spade gemelle che gli era servita a contrastare l’attacco della
cugina.
La ragazza uscì allo
scoperto, vestita di un lussuoso kimono rosa che accentuava il contrasto con i
capelli, biondissimi, e gli occhi color acquamarina. Era poco più alta di lui,
molto snella e particolarmente attraente.
Karin scoppiò in una
risata contenuta. «È incredibile, però. La tua abilità con le spade gemelle è
notevolmente aumentata! Ancora un po’ di pratica e sarai in grado di competere
con tuo fratello!» commentò, dopo pochi secondi, scompigliando il caschetto
ordinato del cugino.
«Ugh!» borbottò il biondo, cercando di
riparare alla bell’e meglio al danno. «Comunque, che ci fai qui? Pensavo che
fossi già nella sala delle cerimonie a fare gli auguri al nonno!» domandò,
riprendendo a camminare insieme alla ragazza.
«Lo ero, infatti,»
annuì, sbuffando dalla noia, cercando di reprimere uno sbadiglio. «Ma stava
diventando di una noia insostenibile. Ad un tratto, tuo padre ha
cominciato a commentare che tu non ci fossi e mi sono offerta volontaria per
venirti a cercare! Tutto pur di scappare da quell’inferno! Odio quando la nostra
famiglia al completo si riunisce in un’unica stanza! È soffocante!» fu
l’esauriente risposta di Karin, avvicinandosi a quello che sembrava essere un
portaombrelli e riponendovi la propria katana con accuratezza materna. «A
proposito… tu dov’eri finito?»
«Bè, ecco… mi stavo allenando con le
spade. Voglio mostrare al nonno i miei progressi. Come hai detto tu: sono sul
punto di eguagliare Kazuhiko nii-san.» spiegò Kurapika, leggermente imbarazzato.
Suo fratello era il suo modello, il numero uno della famiglia. Aveva quindici
anni ed era davvero molto, molto intelligente.
Leggeva spesso – mai
quanto Kurapika, però – e maneggiava le spade gemelle come se completassero le
sue nude mani. Persino loro padre aveva dovuto arrendersi davanti a tanta
bravura.
«Certo, mi sembra
logico, piccolo e dolce Kurapika.» miagolò la ragazza, facendo un buffetto sul
mento del cugino, che assunse un’aria imbronciata e molto
tenera.
«Smettila di
trattarmi come un bambolotto!» sbottò, alzando la voce già matura, nonostante
l’età.
«Ma che posso farci
se sei così terribilmente carino?» si scusò, ridacchiando. «Da grande farai
strage di donne, vedrai! Ne sono sicura!»
Il piccolo Kurapika
arrossì violentemente sulle gote e sugli zigomi perfetti, fermandosi davanti ad
una grande porta di legno pomposamente intarsiato. Si risistemò la veste lungo
le gambe e abbassò la maniglia, sorridendo al sentire nuovamente lo sbuffare di
Karin.
Una volta entrato
nell’enorme sala fu travolto dagli sguardi curiosi di tutti i membri della sua
famiglia, e incenerito dallo sguardo furente della madre, che gli rimproverava
il ritardo.
«Kurapika! Si può
sapere dove ti eri cacciato? Il nonno ha già aperto quasi tutti i regali!» lo
ammonì una donna piuttosto giovane, dai lunghissimi capelli castano chiaro
raccolti in una coda alta, fulminandolo con i lucenti occhi
azzurri.
«Suvvia, cara. Non
essere così ipercritica! Sono sicuro che nostro figlio stesse facendo qualcosa
di importante a giustificare il suo ritardo.» la gioviale e profonda voce del
padre fece sobbalzare il figlio, che gli sorrise, molto
grato.
Il padre di Kurapika
poteva definirsi con sicurezza un bell’uomo. Aveva un corpo tonico e muscoloso,
senza eccedere nel volume, due specchi acquamarina uguali a quelli del figlio e
i capelli color paglia tenuti non troppo lunghi. In definitiva, uno di quegli
uomini che lasciano le donne senza fiato a qualunque età.
«Ciao, Kurapika!» lo
salutò il nonno andandogli incontro e abbracciandolo come se fosse da tempo che
non lo vedeva. L’abbraccio scosse le spade gemelle racchiuse nel fodero,
mettendosi così in mostra agli occhi cerchiati dell’anziano. «Ma guarda! Fammi
un po’ vedere come te la cavi con quelle due signorine!» lo spronò l’uomo,
prendendo in mano una delle spade.
Il giovane non
aspettava altro che questo. Sfoderò le armi lucenti e si fece spazio tra la
folla, sotto gli occhi brillanti d’ammirazione della
famiglia.
Eseguì numerosi
fendenti, impegnandosi con grazia e perfetta padronanza del proprio corpo. Lui e
quelle spade si erano fusi in una sola cosa e ogni movimento era leggiadro e
calcolato per essere privo di sbagli.
Quando si fermò, fu
travolto da uno scroscio di applausi. Con gli occhi cercò il proprio fratello e
lo vide sorridergli fiero.
«Bravissimo!» lo
elogiò Karin. La voce degli altri suoi cugini le fece eco, assolutamente
d’accordo con lei. Il giovane Kuruta si sentì confidente nelle sue capacità e,
rinfoderando le spade, guardò il nonno, attendendo di essere lodato anche da
lui.
Ma l’anziano dava
l’idea di non aver nemmeno guardato l’esibizione del nipote, perso in chissà
quali pensieri. La fronte corrugata e una strana luce negli occhi misero tutti
gli adulti all’erta. La sua presenza si percepiva incredibilmente pesante. Un
brivido corse lungo la schiena del ragazzo, colpito da una forza
invisibile.
Non sembrava essere
l’unico ad essersi accorto del comportamento insolito dell’uomo, anzi, vide
presto il padre imitarlo.
La folla ammutolì,
abbassando lo sguardo. Kurapika osservò tutti gli adulti presenti in quella
stanza e li vide con un’espressione truce stampata sul volto. Qualcosa stava per
accadere: qualcosa di brutto. Malvagio. Qualcosa che tutti sembravano
temere.
Nel momento in cui
il nonno si alzò in piedi, la madre di Kurapika richiamò a sé figli, nipoti e
ragazzi che si trovavano lì.
«Ascoltatemi con
attenzione: andate a nascondervi immediatamente.» li avvertì. La voce era
calma, ma tradiva un tono di terrore. Gli occhi azzurrissimi erano come vuoti.
«Qualunque cosa succeda, qualunque suono sentiate, non uscite dal nascondiglio.
Soprattutto tu, Kazuhiko, obbedisci.» si rivolse al figlio maggiore con
severità, impartendogli un ordine ben preciso, che non ammetteva repliche o
discussioni di alcun genere.
I bambini più
piccoli, i due cuginetti di Kurapika, corsero subito nella sala da pranzo,
accanto alla sala delle cerimonie, nascondendosi nelle ante dei mobili che
contenevano le stoviglie, rovesciando i piatti pregiati in ceramica per
terra.
Kazuhiko, invece,
prese per mano il fratellino e Karin, scappando lungo il corridoio, verso la
camera dei suoi genitori, correndo a perdifiato.
«Kazuhiko, che
succede?» gridò Karin, con le lacrime agli occhi, afferrando la propria katana
nel momento esatto in cui passarono davanti al
portaombrelli.
«Non lo so, ma non
avete visto l’orrore negli occhi della mamma? Sicuramente qualcosa di
pericoloso.» rispose Kazuhiko, facendosi pensieroso ed entrando nella stanza. In
quell’istante sentirono un forte rumore di vetri rotti: qualcuno doveva aver
sfondato le finestre. Karin emise un urlo spaventato e si nascose
nell’armadio.
«Zitta, Karin!» la
sgridò Kurapika, schiacciandosi contro il muro. Vide una mano candida lanciare
fuori dall’armadio il kimono: evidentemente Karin doveva essersi spogliata degli
scomodi vestiti.
Un forte boato di
urla risvegliò i sensi dei tre ragazzi, mentre dalla finestra coperta dalle
tende filtrava una sinistra luce rossa e il crepitio del fuoco raggiungeva le
loro orecchie.
«Dobbiamo fare
qualcosa!» esclamò d’un tratto Kazuhiko prendendo la katana di Karin, caduta in
terra, e muovendosi verso la porta. Fu trattenuto per la manica dal
fratello.
«No, fermo! La mamma
ha detto che non dobbiamo muoverci dal nascondiglio!» sussurrò Kurapika,
cercando di fermare quella pazzia con tutto il senno che
aveva.
«Ma non capisci? È
solo una questione di tempo prima che ci trovino!» rispose il giovane, alzando
di un’ottava il tono della voce. Gli occhi, prima celesti, lampeggiavano di
scarlatto.
«No, se non ci
facciamo sentire!» lo rimbeccò il fratello, anch’egli sull’orlo di perdere la
ragione dalla paura e dalla rabbia.
L’urlo di una donna
li destò. Quella voce era così orrendamente
familiare.
«Mamma! Mamma!» urlò
Kazuhiko, liberandosi dalla morsa del fratellino e correndo verso la porta,
spalancandola senza pensare alle conseguenze. Brandiva la
katana.
«Fermo,
nii-san!»
Quando la porta si
aprì si trovarono davanti una figura di un uomo con una lunga katana. Rimasero
tutti e tre pietrificati dall’orrore, incapaci di muoversi anche a causa di una
stretta invisibile che li bloccava. Cominciarono a vedere tutto
rosso.
«Bingo.» grugnì
l’uomo e, con un movimento fluido dell’arma, trapassò il corpo di Kazuhiko da
parte a parte. Questo schizzò sangue contro il muro e ne aggiunse al viso del
mostro, già sudicio di macchie purpuree.
Il corpo di Kazuhiko
crollò a terra, con il colore scarlatto impresso negli occhi vuoti e spalancati
dalla paura.
«Accidenti, voi
siete molto più deboli. Combattere contro quell’adulto di prima è stato
certamente più dura.» rise il mostro, con scherno, deridendoli senza troppi
complimenti.
Karin lanciò un urlo
disperato, aggrappandosi al braccio del cugino e cominciando a piangere. Le
lacrime che le rigavano il volto riflettevano il rosso dei suoi occhi.
Kurapika rimase
fermo immobile, guardava il corpo inerme di Kazuhiko senza realmente vederlo,
incapace di dire o fare qualsiasi cosa. La malvagia risata del nemico lo svegliò
dal dolore forte che gli aveva preso il cuore ed i polmoni, impedendogli di
respirare.
Il suo corpo stava
reclamando la salvezza con tutto se stesso, ordinando alle gambe di muoversi in
direzione della finestra; ma la mente lo bloccava, additandolo come un codardo
che non ha il coraggio di vendicare il fratello.
Karin strepitò,
vedendo l’uomo avvicinarsi, e tutto successe in un secondo: Kurapika prese in
braccio la cugina ed insieme saltarono fuori dalla finestra, rompendo i
vetri.
Il ragazzo percepì i
frammenti conficcarsi nella pelle, stracciargli l’abito elegante e macchiarlo di
sangue. La ragazza svenne a causa dell’impatto.
Cominciò a correre
verso la foresta che si trovava dietro il villaggio. Sentì uno sparo alla sua
sinistra ed ovunque vide le fiamme lambire, bruciando le case, le staccionate,
la terra che lui stesso stava calpestando.
Una volta rintanato
in una radura, posò il corpo di Karin a terra e rimase seduto contro un tronco
ad aspettare che si svegliasse. Da lontano poteva udire le grida della sua
gente, le esplosioni. L’odore del sangue si stava propagando anche nel bosco.
Kurapika si sentì morire.
Udì un forte rumore
di passi che si avvicinavano e, con le forze che gli rimanevano, salì
sull’albero, chiudendosi nelle proprie ginocchia e sperando che non lo
trovassero. Non voleva sapere che fine avrebbe fatto se l’avessero trovato; non
voleva sapere che fine avevano fatto i suoi genitori – cominciò a piangere – non
voleva sapere se il nonno era riuscito a cavarsela proprio il giorno del suo
compleanno. Voleva soltanto che quegli uomini se ne
andassero.
Si zittì quando il
suo stomaco si rivoltò: Karin era rimasta ai piedi dell’albero. Con l’intenzione
di tornare a prenderla, scese di un ramo, ma ormai era troppo tardi. Due uomini
l’avevano raggiunta: uno era alto e anonimo; l’altro era il tipo con la katana.
Quello anonimo stava illuminando il corpo della ragazza con una luce flebile,
probabilmente un cellulare, mentre il compagno la toccava con la katana come se
fosse una carcassa di un qualche animale morto da tempo.
«Che ne facciamo,
Shal? È inutilizzabile.» udì distintamente il ragazzo
sull’albero.
«Controllale gli
occhi.» rispose il compagno del tizio con la katana; questi s’inginocchiò
davanti a Karin e le aprì gli occhi. Il bagliore delle pupille scarlatte era
sparito.
«Niente.» esclamò.
«Peccato.» aggiunse
l’uomo con il cellulare, schioccando le dita. «Gli occhi delle donne sono più
pregiati perché sono di una sfumatura più intensa. Oh, bè… penso che possiamo porre fine
alle sue sofferenze, Nobu.»
Kurapika vide il
tipo con la katana annuire, e in pochi secondi affondò l’arma nel costato di
Karin, che emise l’ultimo, flebile sussurro di vita, per poi spirare. I due
uomini se ne andarono.
Quando Kurapika fu
certo che fossero abbastanza lontani, scese dall’albero. Si avvicinò alla cugina
e la guardò intensamente, come se pensasse di poterla risorgere. Distolse lo
sguardo e vomitò.
Si accasciò tra le
radici di un albero, stringendo la mano di Karin, e chiuse gli occhi. Si
addormentò, cullato dal crepitio del fuoco, e sognò di essere davanti al
caminetto della sua casa, accanto al nonno che elogiava le sue tecniche con le
spade gemelle.
Karin, di fianco a
lui, sorrideva, tenendogli amorevolmente la mano.
Non seppe per quanto
tempo era rimasto addormentato abbracciato alla cugina, ma fu presto svegliato
da alcuni raggi solari che filtravano dalle fronde degli
alberi.
Spalancò gli occhi e
vide rosso. Si sentiva profondamente debole, ma allo stesso tempo carico di
energie: voleva distruggere, uccidere, vendicare.
Le immagini della
notte precedente – ma era passato davvero un solo giorno? – gli balenarono in
mente. Com’era riuscito a mantenere gli occhi scarlatti per così tanto tempo?
Possibile che la rabbia che aveva in corpo fosse esplosa in tal
modo?
Percepì il suo cuore
stretto in una morsa. Era la morsa più soffocante che avesse mai provato. Si
alzò dal giaciglio di radici sul quale si era addormentato e guardò il corpo, il
cadavere, di Karin. La sua cuginetta preferita era pallidissima. Aveva un occhio
spalancato e una mosca, posatasi sopra il bulbo oculare, stava perlustrando il
territorio, forse alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Il ragazzo si
accorse che di fronte a quella visione non poteva che rimanere impassibile. Non
riusciva a reagire.
Nel momento in cui
distolse lo sguardo da Karin, gli occhi tornarono del loro colore
originale.
Tutto il mondo gli
crollò addosso.
Era come se la
stretta che lo opprimeva gli avesse perforato il cuore. Tornò a guardare la
macabra scena e il dolore si sollevò, come per magia. Ma i suoi occhi si tinsero
nuovamente di scarlatto.
Subito capì: l’ira
gli permetteva di dimenticare le sofferenze; l’ira fermava le lacrime che
volevano uscire a tutti i costi; l’ira lo stava divorando tanto da renderlo
privo di qualsiasi sensazione se non odio.
Si sentiva in egual
misura confortato e distrutto.
Chiuse gli occhi e
camminò alla cieca nel bosco, inciampando, cadendo, ferendosi. Non voleva più
vedere nulla. Sarebbe stato un Edipo solitario.
Quando comprese di
essere giunto al limitare della foresta aprì gli occhi. Così com’era venuto, il
rosso scarlatto scomparve.
In quell’istante,
scoppiò a piangere: del villaggio dei Kuruta non era rimasto più nulla. Travi
bruciacchiate saltavano fuori dal terreno deserto come erbaccia in un prato,
mentre l’odore acre di fumo s’insinuò prepotentemente nelle sue narici. Una
leggera nebbiolina aleggiava sulla landa, quasi ad evidenziare che il luogo era
maledetto.
Kurapika si strinse
nelle spalle e crollò in ginocchio. Baciò la terra sulla quale era nato e rimase
qualche secondo a singhiozzare per i suoi defunti compagni, che ora giacevano
sottoterra o erano stati trafugati.
Quando si rialzò da
terra, il sole stava già sparendo dietro le montagne. Si asciugò gli occhi,
rossi di pianto, salvo mettersi subito all’erta: aveva udito un
rumore.
Si nascose dietro un
albero e attese.
Giunsero in quel
deserto un uomo e una donna di mezz’età che Kurapika non aveva mai visto. La
donna si portò una mano alla bocca e si piegò in due, piangendo; l’uomo le batté
una mano sulla spalla, solidale.
Il ragazzo si
avvicinò di più alla coppia, per ascoltare i loro discorsi, facendo molta
attenzione a non mostrarsi.
«È stato il Genei
Ryodan.» stava dicendo l’uomo alla donna. «Ne sono
sicuro.»
La donna seguitava a
gemere. «S-sono sempre stati c-così g-gentili con n-noi…» riusciva a dire tra un
singhiozzo e l’altro.
«E lo sarebbero
stati anche questa volta, te l’assicuro.»
Kurapika li
riconobbe: erano due viandanti che la sua famiglia aveva ospitato più volte.
Dichiaravano di essere Blacklist Hunter e di essere a caccia di un certo Ragno
per ricevere in cambio la taglia di miliardi di Jeni.
Hunter. Suo padre
gli aveva più volte spiegato di che cosa si trattasse. Gli Hunter erano
cercatori. Ciò che ricercavano erano beni, tesori, malviventi ancora in libertà…
ma anche razze d’animali non ancora scoperte o persino nuovi sapori per pietanze
prelibate.
Il pensiero di suo
padre lo colpì come una spada affilata.
Kurapika si voltò e
corse via, per non essere scoperto. Tornò alla radura nella quale aveva lasciato
Karin e, a mani nude, scavò una fossa per sotterrarne il
corpo.
Ogni unghia che si
rompeva, ogni goccia di sangue che sgorgava dai graffi e i tagli, andava a
depositarsi sul terriccio umido e sporco: era il suo tributo ai
morti.
Quando la buca ebbe
raggiunto la grandezza che desiderava, Kurapika tornò dalla cugina, le chiuse
gli occhi evitando di sporcarla e la prese in braccio. Nel momento in cui vide
l’espressione rilassata che aveva, nuove lacrime presero a scorrergli lungo le
gote.
Vide, scintillante
di un rosso vivo come il tramonto, due orecchini pendere dalle orecchie di
Karin. Depose la cugina nella fossa e, prima di interrarla, strappò da un lobo
dell’orecchio il gioiello. Rimase a contemplarlo per qualche secondo: era un
diamante di una purezza sbalorditiva.
Si perforò con forza
il lobo dell’orecchio sinistro, in modo da poter indossare l’orecchino. Gemette
dal dolore, mentre ritraeva le mani sporche di sangue e
terra.
Terminato il lavoro,
cominciò a camminare dalla parte opposta della landa deserta che era ora il suo
villaggio.
Sarebbe diventato un
Hunter. Avrebbe catturato il Genei Ryodan. Li avrebbe uccisi, torturati, e si
sarebbe vendicato.
Alla sera, quando la
foresta si era fatta fredda e umida e gli insetti non gli davano pace, si
inginocchiò e pregò.
Ripensare ai suoi
cari provocò in lui una tale fitta che gli occhi si tinsero di scarlatto per
l’ennesima volta. Era così, dunque: quando provava rabbia e dolore, l’ira lo
corrodeva dentro, mutando ogni cosa in sangue. Non sarebbe mai successo: non
sarebbe mai stato divorato dall’ira.
E mentre pregava,
solo e sconsolato, fu certo di essere accerchiato dai suoi familiari che si
univano alle sue preghiere.
E tutto tornò
rosso.
Dedicata a Federica,
che mi ha fatto tornare la voglia di scrivere.
A/N
A volte ritornano…
XD devo essere impazzita se torno a navigare a vele spiegate sul fandom di HxH
con una fic del genere! Ce l’avevo in cantiere, ma non ho mai avuto la voglia di
continuarla…
Che dire, bentornata
a me! XD
Uh, ci tengo a
precisare che tutta la famiglia di Kurapika, da Karin a Kazuhiko, è puramente di
mia invenzione, perciò ogni personaggio appartiene a me. Kurapika appartiene a Yoshihiro Togashi, purtroppo. XD
Il titolo è
chiaramente riferito al personaggio di Edipo, protagonista della tragedia
sofoclea Edipo Re. Edipo, avendo
visto troppe cose nel suo mondo, decide di accecarsi. Parallelamente, Kurapika
vaga al buio nella foresta, poiché solo la cecità è in grado di alleviare il suo
dolore.
Ja ne,
Akami/AtegeV