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Autore: Revy_Weillschmidt    10/01/2010    2 recensioni
Un racconto dalle sfumature cruente che pero nasconde il romanticismo di un amore proibito...(?)
Genere: Triste, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La Luce della Luna I piedi nudi avanzavano incerti sopra le foglie autunnali ridipinte del rosso del sangue, scintillanti alla luce della luna piena, più grande del solito. I piedi erano sporchi del sangue calpestato, e le gambe incredibilmente magre tremavano sporche, come di qualcuno che è caduto svariate volte; rosse e marrone, con piccole cicatrici e ferite ancora sanguinanti, dalle quali scorreva scuro il sangue, scendendo lungo la gamba e i piedi, andava a mescolarsi a quello dei morti massacrati creando un ancora più grande lago di liquido ematico. La gonna, un po’ strappata sembrava quella di qualche uniforme chiazzata qua e là di marrone del sangue secco; il blu scuro sembrava ancora più scuro alla chiarore della notte, e la felpa una volta bianca era sporca di terra e macchiata del sangue altrui; qua e là qualche strappo, dalla quale s’intravedeva poco o niente della candida pelle liscia. Da una lunga manica calata completamente sulla mano spuntava oscenamente la lunga lama di un’ascia quasi interamente ricoperta di sangue scarlatto che faceva cadere una goccia di liquido ad ogni passo, come vernice ancora fresca macabramente scintillante al riverbero di luce filtrato dolcemente dagli alberi. Per un attimo s’intravide la mano della ragazza completamente rossa, come se avesse infierito con le mani sui corpi già assassinati crudelmente. Nell’altra mano, anch’essa sporca di sangue stringeva forse una collana, della quale ormai non si distingueva più l’argento del filo che spuntava dal pugno stretto con tutta la forza che possedeva in corpo. Il capo era leggermente chinato di lato e il mento alto, macchiato anch’esso del sangue alieno, gli occhi iniettati d’odio lasciavano tuttavia trapelare un certo terrore; ed erano a contrasto col sadico sorriso stampato sul volto, respirava molto lentamente e dalle scarne labbra simili a quelle di una morta, usciva un’arcana melodia, talmente bella da volerla maledire, e nel suo insieme rassicurante, che tuttavia aveva un tono terribile ed inquietante, cantata da quella strana ragazza dalla pelle talmente candida da sembrare quella di un morto. Dagli occhi vuoti e spenti sembrò spuntare una lacrima che scivolò per la guancia trascinando con sé la sporcizia e il sangue; gli occhi socchiusi si chiusero per un instante e con loro cadde dolcemente un ciuffo di capelli bianchi macchiato di vermiglio, che andò a coprire un occhio, e quelli si riaprirono. I capelli albini ondeggiarono in risposta al sinistro fruscio delle foglie mosse dal vento, per poi ricadere sulle spalle lunghi e sottili. Così lisci e morbidi da sembrare fatti di acqua, lunghi fino alle anche. Da lontano quel esile figura sembrava tanto innocente da mostrarsi incapace di compiere qualsiasi tipo di efferata violenza, come una creatura tanto ignobile da sembrare immacolata; eppure da vicino pareva quasi di comprendere la lucida follia delle sue azioni, l’aura di malvagia vendetta, sinistra e pura, quasi sacra; una giustizia proibita. Una vendetta di cui nessuno all’infuori di lei avrebbe capito il senso. Nessuno avrebbe compreso il suo cuore così coperto da una troppa fitta coltre di nebbia. Una nebbia asfissiante, velenosa. Eppure lei sembrava non fare caso. Lei n’era la causa. Nessuno avrebbe mai potuto liberarla. Era la sua fonte vitale, forse… Neanche io conobbi mai il segreto di quella dolorosa ferita dalla quale non finiva più di sgorgare quella sostanza letale. Neanche lei, era ormai in grado di controllare l’odio che le nasceva dentro. Non capii mai se questo le doleva. Più avanti, dove finiva il boschetto si trovava un gruppo di liceali pressappoco della mia età, che scherzavano e bevevano birra. Notai il simbolo della marca. “Asahi” pensai. Non che andassi matto per la birra, l’avevo bevuta poche volte, nelle solite uscite con gli amici. Ma quello che catturò la mia mente completamente non fu né la birra né le battute da bulli del gruppetto di liceali, ma il fatto che il più grosso, probabilmente il “boss” si stesse dirigendo verso un albero del boschetto. Mi pareva di averlo già visto, in giro per la mia scuola. “Credo che stia andando a fare pipì” pensai suppergiù. Improvvisamente rabbrividii violentemente. La ragazza stava venendo da quella parte; ormai era molto vicina, anche se coperta dal buio notturno. Vide il ragazzo che si avvicinava e arretrò di un passo nascondendosi dietro lo stesso albero verso il quale puntava il bulletto. Quello sparì nel buio, in breve tempo ai piedi della pianta si creò un lago di liquido vermiglio che poco a poco si allargava sempre più. Gli altri, non vedendo tornare il capobanda gli andarono incontro facendo insulse battutine che io trovai assolutamente prive di gusto, eppure loro ridacchiavano. Quando furono vicini la ragazza bianca, uscì dall’ombra con un’espressione ingenua. I ragazzi sulle prime non seppero come comportarsi, qualcuno indietreggiò, sulle prime, qualcun altro stette fermo e confuso, la ragazza alzò il viso e ridacchiò sommessamente, quelli che avevano indietreggiato riuscirono a fuggire, gli altri purtroppo finirono sotto la lama affilata dell’ascia che la ragazza stringeva. Iniziò a piovere. La pozza di sangue si allargò ulteriormente e lei scoppiò in una risata macabra e sadica. Una volta smesso di ridere si leccò la mano dal sangue. Poi spostò gli occhi rossi dalla mia parte. Impallidii, feci per scappare, ma inciampai in un ramo caduto per terra. Il mio cane iniziò ad abbaiare, io mi trovavo ancora a terra, strisciai all’indietro, cercando di allontanarmi, e quando ripresi le forze tentai di alzarmi ma ricaddi schermendomi il viso con le braccia. Ero inciampato sul suolo fradicio di pioggia. Mi rialzai di nuovo, ma era troppo tardi, lei era di fronte a me. Rimasi allibito. Le guance erano completamente rigate dalle lacrime. Mollai la presa sul guinzaglio del mio cane. La Ragazza Bianca mi abbracciò e pianse. Io non potei fare altro che rispondere al suo abbracciò, lei affondò il viso nel mio petto. Era calda e pianse singhiozzando e facendo cadere l’ascia su una pozza d’acqua. La stessa che avrebbe segnato il mio destino. Non potei fare altro che portare la ragazza con me. Ormai abitavo da solo, e non avevo problemi. Lei sembrava una bambina. Aveva scordato anche come si parla. Dovetti insegnarle molte cose, finché lei non riacquistò la capacità si parlare e tutto il suo passato, del quale tuttavia non me ne parlò mai. Non voleva neanche dirmi il suo nome. Un giorno, il primo nel quale riacquistò la memoria notò il Butsudan, l’altare buddista che tenevo in soggiorno in onore della mia sorella gemella defunta prima di nascere. Notai che lo osservava come a studiarlo, imprimerselo nella memoria per sempre, quindi le domandai se non n’aveva mai visto uno. Lei scosse i suoi lunghi capelli bianchi e lisci. Mi disse solo che la sua era una famiglia cristiana. I suoi occhi erano spenti, come Quel giorno; per tutta la giornata fu taciturna e con lo sguardo spento, occhi socchiusi e pensierosi. Era l’estate dei miei 17 anni. Lo ricordo perfettamente. Il sole splendeva forte, nonostante fosse la stagione delle piogge. Il caldo era sempre più afoso. Quel giorno glielo chiesi. Gli chiesi il suo nome, un errore che non avrei mai dovuto conoscere. Eppure sapevo che avrebbe spezzato per sempre quella falsa tranquillità che regnava in casa, che la sua sottile serenità sarebbe morta. Avrei dovuto farlo per lei, perlomeno. Ma quelle parole uscirono da sole. Letali. Come frecce avvelenate nate e destinate a colpire il bersaglio. Ci trovammo entrambi fuori nel nostro giardino. Ormai quella casa apparteneva ad entrambi. Come due amanti segreti. Non so perché ma il destino, quel giorno, decise di tendere l’arco. Lei si sedette a riposare dal lavoro di giardinaggio, canticchiava allegra, non l’avevo mai vista finalmente così serena e tranquilla. Una farfalla svolazzava intorno e lei le porse il dito dove ella si posò. “Anche tu hai il diritto di riposare, eh?” le chiese senza pretendere risposte. Lei era così, non pretendeva mai niente. Ma dava tanto. Mi sedetti di fianco a lei, la ragazza si voltò e mi sorrise serenamente. Così il destino scoccò la freccia. “Qual è il tuo nome?” Chiesi di colpo. Il sorriso svanì dal suo volto. Il cielo si oscurò di colpo. La freccia aveva colto nel segno. Mai una volta che sbagliasse mira. Si alzò di colpo e si girò come per andarsene, “Mitsuki Hikari”. Luce di Luna Piena. Il suo nome intero significava Luce di Luna Piena. Iniziò a piovere. “Lo sapevo…era troppo caldo perché alla fine non piovesse…” Mi sembrò di sentirla dire quelle parole. Ma non capii se le avesse dette veramente oppure era la mia immaginazione. E soprattutto, a cosa si riferiva? Si avviò dentro casa, e io rimasi fuori sotto la pioggia. Le gambe non rispondevano, non volevano saperne, di inseguirla. Sapevo che non l’avrei più vista. Almeno non a breve. Il Destino sapeva essere crudele. Odia la pioggia. Con le mille cose che potevo odiare quel momento odiai proprio la pioggia. E se non avesse piovuto? Avrebbe continuato ad essere caldo? Passò un anno intero. Dopo essere tornato dagli esami d’ammissione per la Todai, la famosa Università di Tokyo, decisi di passare dal cimitero cristiano. Avevo intenzione di scoprire qualcosa di più su Mitsuki, almeno chi erano i suoi genitori. Se non avessi trovato le tombe di qualche suo parente a Tokyo ero deciso a cercare qualcosa in più su di lei. Qualsiasi cosa. Anche se sapevo che era improbabile che sarei riuscito a rincontrarla. Sospirai. Ero ancora deciso a togliere la freccia scagliata. Anche se avrebbe fatto male… Fu così che la trovai. Stavo facendo il giro tra le tombe più recenti di almeno cinque anni, ma non trovai niente, all’improvviso passò una farfalla nera, di quelle che, secondo la teologia buddista, conduce le anime nell’al di là. La seguii con lo sguardo rabbrividendo un poco. Iniziava a far freddo? Eppure non pioveva neanche. Volsi lo sguardo al cielo. Era bianco. I rumori erano svaniti. Il silenzio così intenso da fare paura. Un mondo nel quale vivo solo io. Una coltre nebbiosa scese di colpo, indietreggia un po’, “tanto”, pensai “dietro c’è solo il muro” ma urtai contro qualcosa. Era una lapide. Il mio sguardo fui colto dalle lettere ormai sbiadite. Scritto non in kanji ma in lettere latine si distinguevano i nomi, Beatrice Scarano, un’elegante donna con i capelli raccolti, sembravano quasi bianchi, di una nordica, di fianco un altro nome, Shinnosuke Hikari; tremai un poco, il mio sguardo fu forzato verso il terzo nome. Mitsuki Hikari. Il marmo una volta bianco ma ora ingiallito incorniciava un’antica foto in bianco e nero, quasi sulle tonalità seppia, riconobbi la bambina che ritraeva, quegli occhi leggermente all’ingiù una volta pieni di speranza, che purtroppo io potei ammirare solo vacui o nostalgici, le labbra erano leggermente più scure rispetto alla porcellanea pelle, curvate in un timido sorriso, l’elegante naso piccolo e dritto, tratti da sembrare ben poco giapponese. Mi sorprese l’aspetto così vecchio, piuttosto che il fatto che fosse morta. In fondo dentro di me me lo aspettavo. Lessi la data, scritta in numeri romani. 1940. Indietreggiai. Com’era possibile? Eppure io l’avevo conosciuta. Che mi fossi sbagliato? Che non fosse lei? Oppure mi aveva mentito rispetto al suo nome? Eppure io lo sapevo, qualcosa me lo diceva, lei non mi aveva mai mentito. Un nobile giapponese, derivante da un casato d’antichi Samurai, viaggiando per vari paesi europei si era innamorato di una ragazza italiana, dalle origine nordiche. Lei aveva deciso di seguirlo scappando da casa. Una volta giunti in Giappone lui si era convertito completamente alla religione della giovane sposa. Pochi altri erano cristiani, al tempo, quindi i due vissero sotto gli occhi accusatori dei loro vicini. Ma vivendo il loro amore di giorno in giorno, e dalla loro felicità nacque una creatura, albina e con i tratti della madre, e lo stesso sguardo sereno, in grado di guardare lontano del padre. Così loro allevarono la giovane e bella bimba con tutto l’amore che fino a poco fa era stato dispensato solo tra i due. I tre erano sempre più felici, vivevano del loro amore e del frutto del loro orto. Ormai nessuno li guardava più come esseri umani. Ma a loro non importava. Fu così che un giorno successe. La felicità non può mai durare a lungo… Una notte la bambina, ormai grande, sentì dei rumori provenienti dalla cucina, curiosa si affaccio dalla porta di camera sua, sfilandosi lentamente dal futon. Vide tre uomini che aveva già visto nei paraggi del loro giardino, di quelli che li guardavano male. Presa dalla paura la bambina si precipitò lentamente in cucina, dove trovò un gran coltello, di quelli che la sua mamma usava per tagliare il pesce. La lunga lama brillava. Era pesante ma la bambina lo strinse con tutta la sua forza. Un uomo, il più giovane, rimase a far da guardia, mentre gli altri due uomini avanzarono con in mano una katana verso la stanza dei due sposi. Fecero scorrere la porta e compirono il massacro. I due ancora giovani consorti in un lago di sangue, lui con la gola squarciata e lei con un pugnale ficcato in pancia, quando uscirono i due trovarono uno spettacolo raccapricciante. Una bambina singhiozzante che stringeva in una mano un coltello insanguinato, e nell’altra una testa. Quella del ragazzo che era rimasto fermo fuori a far da guardia. Il sangue continuava a colare giù dal collo. Il viso del ragazzo ormai era esangue, simbolo che ormai aveva perso tutto il sangue che aveva in corpo. Poco più indietro il suo corpo dal quale sgorgava sempre meno il liquido vitale. La bambina dai capelli bianchi si asciugò le lacrime con la manica dello yukata, il kimono estivo, ottenendo, però l’unico risultato di sporcarsi il viso di rosso. I due uomini indietreggiarono tremando e chiamando la povera creatura mostro, demone e altre offese. La bambina singhiozzava e chiedeva loro cosa fossero. Continuava a ripetere una frase. Muovendo appena le labbra, e poi la urlò: “Che cosa avete fatto a mamma e papà? Chi siete? Demoni cattivi?” alzò il coltello facendolo brillare alla luce che riverberava dal fuori. Quando lo scagliò sul primo il sangue schizzò a fiotti, macchiando la creatura completamente, ella si guardò le mani e ridacchiò girandosi di colpo, il capo chino guardavo l’altro dal basso in alto, gli occhi completamente vuoti, mise un piede davanti all’altro, avvicinandosi al dannato che cercava di scappare ma che non riusciva ad avanzare, spostò un braccio dietro di sé e prese un fermaglio della donna di argento, che ficcò nel ventre della bambina, sputò del sangue se lo pulì dalla bocca e scagliò col sue ultime forze il coltello verso l’uomo, che cadde a terra, dissanguato. La bambina cadde priva di forze urtando il mobiletto, dal quale cadde una piccola catenella. La bambina la prese con le ultime forze che le rimanevano e la strinse, osservò il cammeo risplendente. “Alla nostra piccola Mitsuki, quando compirà 16 anni”. “perché…” pensò “perché non lo vidi mai?”. Sorrise. E morì così, sorridente. Fui attraversato da un lungo brivido lungo la schiena e un forte mal di testa, piano piano si fece più intenso, mi accasciai a terra dal dolore, credetti che la testa mi sarebbe scoppiata; successivamente vidi tutto nero, di un nero così intenso da contrastare il bianco puro del cielo. La sognai, era avvolta in una candida tunica, che mi guardava benevolmente e mi sorrideva, il suo bellissimo sorriso, le fossette sulle guance, gli occhi leggermente a mandorla mi davano una bellissima sensazione di benessere, mi porse le mani, completamente insanguinate. Mi risvegliai di colpo, mi passai una mano tra i capelli bagnati di pioggia. Pioggia? “Meno male, ti sei risvegliato! Come ti chiami, giovanotto?” Mi chiese un’anziana donna, sulla novantina “eh… Kai, signora…?” risposi “Toshiko, giovanotto” Confermò ella, “Scusi per il disturbo, signora Toshiko-san… E mi scusi per il disturbo che le ho arrecato…” Pronunciai mortificato, chissà che fatica aveva fatto per portarmi nella sua casa… Lei scosse la testa, i capelli legati dietro la nuca con un fermaglio d’argento, le morbide rughe le conferivano una sana aria da saggia, vestiva con un colorato kimono che ritraeva i fiori dei ciliegi, si alzò dalla sua postazione lentamente lamentandosi in silenzio dei dolori causati dall’età ormai avanzata, sorrisi. “Preparerò del tè, ne gradisci?” Mi chiese gentile, con la dolce voce rauca di una vecchia, quando ormai anche le corde vocali iniziano a decadere. Si avviò fuori dalla porta scorrevole, camminando sugli zoccoli, senza quasi far rumore. Per un secondo credetti che in passato fosse stata una geisha. Ma, non so perché ma trovai quest’ipotesi abbastanza assurda. Dopo pochi minuti mi alzai e mi avviai a cercare la sala, l’intera casa era in stile antico Giappone, eppure come struttura credo che fosse piuttosto moderna, nella sala c’erano due piccoli vasi con dentro i fiori. Non c’era neanche un Butsudan, magari non era mai stata sposata. Non mi era neanche passata per la testa l’idea che non fosse buddista. La signora Toshiko arrivò con un vassoio con su la teiera ancora fumante e due piccole ciotole da tè. Ci sedemmo sui cuscini del tavolino che dava nel giardino, molto fine, con una piccola fontanella di ninfee e i pesci rossi. Gli alberi di ciliegio giapponese verde intenso. Tranne uno, rosa… Che fosse un albero impazzito? Notai che l’intera casa e il giardino che la circondava era completamente in stile giapponese, la signora Toshiko servì il tè, con un piccolo inchino ringraziai scusandomi ancora per il disturbo, e lei, come la prima volta, scosse la testa dicendo che non era per nulla un disturbo. “Signora Toshiko-san… Come mai l’intera casa è in stile Giappone antico?” Chiesi riservatamente, “Mi ricorda i miei anni più felici… Tu, invece, Kai-kun? Dove abiti?” Domandò a sua volta, volendo sorpassare sul suo passato. Fu in quel momento che mi accorsi di aver perso gran parte della memoria di quelli due anni. Ricordavo solo gli esami alla Todai e che ero stato al cimitero cristiano. Ma a fare cosa? Così la signora mi accolse in casa sua, in cambio le facevo ogni lavoro pesante. Inizia il corso all’università, ero stato ammesso alla Todai con un punteggio piuttosto alto. La salute della signora Toshiko iniziò a peggiorare, e io non ricordavo ancora nulla degli ultimi due anni e mezzo. Tuttavia avevo l’impressione di aver dimenticato qualcosa importante. Qualcuno importante. Fu così che un giorno, lo stesso in cui la signora Toshiko se n’andò, mi raccontò la sua storia. Una storia molto triste, e simile ad una storia che avevo già sentito da qualche parte. Dove non lo ricordavo ancora. Mi racconto di un amore clandestino, del suo viaggio dall’Europa fino al Giappone, guidata dal suo amato. << Beatrice! Sbrigati, faremmo tardi alla presentazione della signora Maria! >> Urlò dal piano dabbasso della casa una giovane donna. << Arrivo, madre! >> Urlò in risposta una bella ragazza che si stava raccogliendo i capelli con un elegante ed elaborato fermaglio d’argento. La ragazza, avvolta in un lungo abito di seta rosa corse giù per le scale, dove ad aspettarla erano i suoi genitori. Il padre, elegante come sempre, portava orgogliosamente una corta barba bianca, a contrasto con l’abito nero. La donna al suo fianco, ancora giovane vestiva anche lei con un lungo abito azzurro, i capelli raccolti in un capello ornato di piccoli fiori turchesi, sul viso spuntavano dei ciuffi biondi. << Ma cos’è quel rossetto? Beatrice! >> urlò la giovane donna vestita d’azzurro << Mamma! A me piace, e poi mi sta bene, no? >> Rispose con un sorriso luminoso. << Per carità, Beatrice, sono quelli i modi che ti abbiamo insegnato? Va’ subito a lavarti quella porcheria dalla faccia! >> Disse il signore dalla barba bianca. Beatrice sbuffò, ma non andò a lavarsi. La macchina ormai era arrivata. Anche se era già passato il dopoguerra pochi potevano permettersi una macchina, la famiglia di Beatrice possedeva una fabbrica di munizioni, per cui nella guerra, al contrario di molte persone, si era arricchita sempre di più. L’Italia n’aveva risentito, ma non loro. Non la famiglia di Beatrice. Così si avviarono verso il palazzo nel quale si sarebbe tenuto il raduno. Tra l’altro Beatrice neanche sapeva di cosa parlasse, questo raduno, e soprattutto, non aveva la minima voglia di assistere ad un raduno di soli adulti. Perddio, lei aveva da poco compiuto i diciott’ani! Ma secondo il padre quella era l’età in cui avrebbe dovuto interessarsi alle “cose importanti”, il lavoro, la fabbrica, l’istruzione… Ah! E avrebbe dovuto trovarsi un marito! Perbacco! Per il padre l’unica cosa di cui aveva più bisogno la figliola nel fior degli anni era un marito, al quale fare ereditare il patrimonio di famigli. Ma non uno qualsiasi! Doveva essere già ricco, istruito, bello, educato e soprattutto europeo. In quel periodo Hitler era appena salito al potere e stava enunciando le sue idee. Quando suo padre tornò dal viaggio in Germania si era già lasciato influenzare dalle parole del dittatore tedesco. La riunione ebbe iniziò, una donna iniziò a parlare, o meglio, a blaterare, secondo Beatrice, delle leggi Razziali emanate dal Fuhrer, e dicendo che di lì a poco anche l’Italia ne sarebbe stata influenzata (in bene), e che, quando Benito Mussolini avrebbe preso completamente il potere dell’Italia… E qui Beatrice smise di ascoltare tutte quelle parole assurde sulle differenze tra le razze. Per lei gli umani erano solo umani e basta, tutti uguali. Ed era sicura che, quando avrebbe avuto figli, avrebbe fatto di tutto per indurre anche in loro le sue idee di uguaglianza. Piano piano cercò di uscire dalla stanza. La breva le accarezzò le guancia dolcemente. Così lo conobbe. Si avviò verso il mare. Era di un blu tanto intenso, lei non lo aveva mai visto nero. Quando, da piccola, sua madre la portava al mare di notte, lei le chiedeva di che colore fosse, lei rispondeva sempre “nero”. E anche le altre persone che aveva portato… Tutte rispondevano “Nero”. Si sedette sulla riva, si lasciò cullare dal dolce rumore delle onde. Un dolce vento le accarezzò i capelli e il viso. Chiuse gli occhi. << Non è bene, che una signorina tanto graziosa prenda freddo. Soprattutto che sia da sola di notte, non sa lei, quanti pericoli può incontrare… >> Quando la ragazza aprì gli occhi trovò davanti a sé un ragazzo di poco più grande, dapprima fece fatica a riconoscere se fosse uomo o donna, tant’era bello e dai tratti delicati, di sicuro non era italiano << Non è bene che un signore compaia davanti a una donna giovane e indifesa di notte… >> Replicò lei con l’intento di scherzare << Permette? >> Disse lui sedendosi di fianco << … Beh, se mi posso permettere, lei non mi sembra tanto indifesa, giovane sì, indifesa no… >> Rise. Lo seppe solo Beatrice quanto era bello, sorridente e alla luce della luna. C’era la luna piena, notò. << No, non si può permettere… >> Rise lei << Oh, beh… Allora mi perdoni >> Disse togliendosi il capello e portandoselo al petto. Credo che abbia imparato da poco, le nostre usanze… Notò, << Senta, signore… Posso farle una domanda? >> Chiese Beatrice << Lei di che colore vede il mare? >> Azzardò, credendo che la risposta sarebbe stata, come al solito, “nero”. << Oh… Oggi, come sempre, il mare è di un blu tanto intenso che avrei paura a perdermici dentro… >> Rispose col suo tipico sorriso. Fu così che la notte passò velocemente, parlando del più e del meno, e quando fu l’alba Beatrice tornò di corsa a casa, dando appuntamento al bel ragazzo, il giorno seguente, stessa ora, stessa spiaggia… Tornò che a casa tutto taceva ancora. Aveva le guance in fiamme per la corsa, ma era felice. Da fuori una finestra si vedeva il sole mentre sorgeva, i raggi erano filtrati dalla finestra. Mentre saliva le scale di corsa le venne in contro sua madre << Dove sei stata? Tuo padre è arrabbiato, lo sai? Ti abbiamo cercato tutta la sera! Va’ subito a letto! >> Le ordinò la donna. Lei ubbidì. Nella tarda mattinata incontrò suo padre, era rosso di rabbia e le vene della fronte erano tutte in evidenza, la mise in punizione. Per tutta la settimane le era vietato uscire da casa. Per qualsiasi cosa. Ma lei, quella sera voleva rivedere il giovane, del quale non sapeva neanche il nome, e la curiosità fu tanto forte da indurla a scappare. Così, quando i suoi genitori dormivano, fuggì dalla casa. Così iniziarono i loro incontri segreti. Ma arrivò il giorno in cui lui dovette dirle che doveva partire. Fu in questo modo che Beatrice decise di andare con lui. Cambiando nome in Toshiko. Non si sposarono mai veramente. Nelle vicinanze non c’era nessuna chiesa cristiana, la nuova religione anche del marito. Dopo circa un anno, Toshiko diede alla luce una bellissima bimba, albina. Decisero insieme di chiamarla Mitsuki, come quel giorno in cui il destino decise di farli incontrare. In fondo, gli uomini chiamano destino ciò che non possono evitare… Destino fu anche quel giorno, in cui uccisero suo marito e la bambina. Lei sopravvise per poco alla strage, rischiò di morir dissanguata… Il trauma fu tanto forte. Nascose la piccola e fine collana sotto un’asse del pavimento, e non si staccò mai più dal fermaglio con il quale era stata uccisa la sua piccola figliola. Stabilì che lei avrebbe vissuto. Per i suoi unici amati ormai morti. Visse e soffrì ancora, ma oltre la sofferenza trovò la luce. Cambiò anche casa, sempre, però identica a quella di prima. La ragione fu che temeva che non avrebbe resistito, un giorno ad alzare quell’asse e di riprendersi la collana riportandole alla mente tutto quell’orrore di quella notte… Kai ricordò improvvisamente qualche scena. Ma non “quella persona”. Vide morire la anziana donna proprio poco dopo aver raccontato la sua storia. Come in un film. Tornavo dall’università. Ormai era il mio compleanno. 20 anni. Entrai per la prima volta in circa un anno nella mia vecchia casa. Avevo ancora le chiavi. Aprii la porta, tutto era come lo avevo lasciato, un anno prima… Forse un po’ più polveroso. Mi ripresi tutte le cose più importanti, anche i ricordi. Tuttavia c’era qualcosa che mi sfuggiva, una cosa, o meglio, una persona importante. Sarebbe bastato un volto,un nome. Ma neanche quello… Sotto un comodino, nella stanza stile giapponese notai un piccolo rilievo nelle assi. Mi avvicinai, sotto l’asse sembrava esserci qualcosa, un oggetto piccolo. Sollevai l’asse, estrassi piano una piccola collana. Era deliziosamente elaborata nell’argento, davanti notai una piccola rosa intagliata in un ciondolo a forma di Luna… Me la rigirai nella mano… Notai che nella parte posteriore presentava una scritta. In italiano. Alla nostra piccola Mitsuki, quando compirà 16 anni. Non so come mai, ma compresi il significato di quella frase. Mitsuki. D’improvviso ricordai tutto. Mi girai. Dietro di me c’era una figura. Esile, dai capelli bianchi. Era lei. Sorrideva, come non aveva mai fatto. “Tieni, è tua” Dissi d’impulso porgendogliela, lei scosse la testa sorridendo e facendomi segno di tenerla “Finalmente ti ho compresa, sai? Eri così innocente… Che colpa avevi, tu se ti avevano portato via la felicità? Ma sai… tua madre e tuo padre ti amavano davvero… Anch’io…” Arrossì, mi sentivo così stupido… Com’era possibile? Di un fantasma? Ma continuai “Avevi diritto anche tu a ricevere amore, eh?” Lei sorrise con un pizzico di tristezza, sapevo bene che non poteva parlare, ma sapevo altrettanto bene quello che lei avrebbe detto, se sarebbe stata in grado di parlare… “Ma tu mi aspetterai, vero? Io ti raggiungerò! Aspettami… Per favore…” Chiesi. Sembravo un bambino. Ora il suo sorriso era contento. Così come mio padre ha aspettato mia madre, vero? Avrebbe detto… Ne sono sicuro. Le porsi la mia mano, e lei la sua, si sfiorarono in un tocco sordo. Un tocco di cui solo noi due n’eravamo al corrente. Solo noi l’avevamo sentito. Il suono sordo di due mani che si congiungono. La dolcezza dello sfioramento delle nostre dita. Qualcosa di caldo mi scivolò giù per la guancia. E lei se n’andò. Quella sera brucia quella casa, avrei vissuto nella casa della madre di Mitsuki, Beatrice… Osservai le fiamme che illuminavano il mio viso. La osservai finché non ci fu più nessun segno dell’abitazione. Lì vicino passò un ragazzo in giacca e cravatta. I capelli ben tirati all’indietro, dall’aria seria di un funzionario di banca. Un ragazzo che fino a circa 4 anni fa era bullo ed andò a far urina dietro un albero, nel parco insieme ai suoi amici. Nota: I suffissi –kun, -san e –chan; sono usati in giappone tra persone che non si conoscono bene. Kun per i ragazzi o i subordinati, -san per le persone più grandi o sconosciuti, -chan è un vezzeggiativo, per bambini o ragazze. I futon sono i tipici letti giapponesi tipo sacco a pelo. I Butsudan sono i piccoli altari buddisti volti a onorare i defunti, nella religione buddista, specie in giappone e molto di uso venerare gli antenati defunti, quasi come delle “divinità”. In giappone il periodo tra la metà di giugno e la metà di luglio piove tanto, per questo è chiamata “stagione delle piogge” o “fuyu”; è per questo che nel racconto piove spesso. L’anno scolastico finisce a Maggio e inizia ad Aprile, per l’università gli esami d’ammissione sono d’estate. La Todai (da Tokyo Daigaku, Università di Tokyo) è la più prestigiosa università del giappone, è pubblica, tuttavia, a differenza del liceo (che solo quelli privati, quindi “buoni”, hanno gli esami d’ammissione), ci sono gli esami. In particolare, gli esami della Todai sono piuttosto difficili ed è necessario un certo punteggio standard per potervi accedere, ultimamente oscilla intorno al 69, cioè 100 punti. N.d.A. © Fuyuka Yagami 2009
  
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