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Autore: aethereally    17/01/2010    5 recensioni
Ho capito di essere scivolato nel baratro della follia quando ormai era già troppo tardi.
E l’ unica certezza che si consolidava giorno dopo giorno nel mio animo era che l’amore faceva schifo.
Uno stupido sentimento fatto di gelosia e rancore.
Fatto di prendere e lasciare.
Di azioni folli e gesti sconsiderati...
[Dedicata a Aredhel Noldoriel]
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Aoi, Kai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi sono resa conto che le mie storie arrivano, all’ incirca, una volta ogni sei mesi. Sono un danno.

Questo frammento di me è dedicato, in primis, alla mia neo nee-chan Jo, meglio conosciuta come Aredhel Noldoriel. Grazie. Grazie davvero perché sei lì e io so che ci sei.
E il tuo pm avrei voluto vederlo prima, ma grazie anche per quello.

E per avermi adottata! xD

Volevo scrivere una storia con un pairing che ti piacesse, ma quando ho aperto il foglio di word, mi sono resa conto che non so qual’ è quello che preferisci.
Quindi, mi è tornata in mente questa folle idea e dato che le mie storie sono così rare, ho sperato ti potessi accontentare anche di un pairing che non è tra i tuoi preferiti.
La storia è dedicata a te prima di tutti, perché volevo scrivere qualcosa per te. Anche se gli argomenti sono tristi o folli.
Spero possa essere di tuo gradimento.

E poi, è dedicata a mia madreH, Archangel Reliel perché è da oggi pomeriggio che sopporta pezzi minuscoli di questa fic mandati in continuazione. E' sua l’ idea del titolo, e suo l' appoggio.
Grazie mutti. ♥

E infine, si. E’ dedicata a me. Perché sentivo il bisogno di scrivere e ci sono riuscita e anche se dubiterò sempre di ciò che scrivo, quando ho messo l’ ultimo punto ero felice.
Perché? Perché finalmente, dopo tanto tempo, sono riuscita a portare a termine qualcosa.
Ed è mia. Mia sentita. Mia tutto.

Ovviamente è dedicata anche a tuttte le altre persone che mi seguono in questa mia incostanza.

Grazie.

Perché non riuscite nemmeno minimamente ad immaginare ciò che scaturite in me con le vostre parole.






deceiver of fools




Ho capito di essere scivolato nel baratro della follia quando ormai era già troppo tardi.

E l’ unica certezza che si consolidava giorno dopo giorno nel mio animo era che l’amore faceva schifo.

Uno stupido sentimento fatto di gelosia e rancore.

Fatto di prendere e lasciare.
Di azioni folli e gesti sconsiderati.


L’ amore non rendeva felici, ma semplicemente schiavi di sentimenti ai quali non si poteva dare libero sfogo.

Un folle come tutti gli altri esseri umani, ero caduto nella ragnatela di quel sentimento, troppo debole per fuggirne, troppo bisognoso per allontanarlo da me.

Così l’ avevo lasciato semplicemente lì, germoglio in fiore della mia rovina, mentre lentamente si nutriva di ogni mia più piccola fibra, intaccando tutto il mio essere.

Ero uno spettatore immobile che silenzioso osservava la ragione tramutarsi in follia.

Folle, si. Perché come tale ero caduto nella trappola della gelosia.
Folle perché avevo lasciato che l’amore si prendesse gioco di me.
Folle perché mi ero innamorato del mio migliore amico...

E lo desideravo. Desideravo lui e il suo corpo in ogni più piccola sfumatura, in ogni riflesso e gioco di luce.

Lo desideravo con la stessa ingenuità con cui un bambino guarda sognate il gioco amato e la stessa forza disarmante di un uomo innamorato.

Bramavo quelle labbra dai tratti definiti e desideravo un bacio.

Cos’ era, alla fine, un bacio? Peccavo forse di avidità desiderandone uno?

Uno sfiorarsi, un fugace contatto umido e ricco di significati nascosti. Era troppo anche per me?

Ero così egoista da desiderare le attenzioni di una persona impegnata? Potevo essere così stronzo da desiderare la loro separazione per averlo, finalmente, mio?

Più i giorni passavano e più mi riscoprivo a spiarlo, a cercarlo con gli occhi, a scovare ogni suo più piccolo movimento fino a conoscerlo a memoria.

Testimone oculare della vita altrui, ne avevo imparato le usanze, le smorfie e i sorrisi.
Li avevo catalogati per intensità e forza con cui ti colpivano, distinguendo quello falso di circostanza da quelli timidi conditi da quei rossori tipici di quando eri imbarazzato.

Eri diventato la mia ossessione e in me divampava sempre più velocemente il fuoco del tormento: ero talmente tanto geloso di te da chiudermi nel mio guscio fatto solo di tue immagini.
Tutto il resto era una pallida sfumatura che fungeva da contorno alla tua figura.

Ci sarei riuscito, sai?
Probabilmente sarei stato in grado di tenere a bada i sintomi dei miei squilibri se tu non avessi pensato di alimentarli così ingenuamente.

Ma eravamo amici. Amici e solo quello.

Quanto quella parola avesse iniziato a darmi ai nervi non potrebbe immaginarlo nessuno.

Falsa alla stregua del concetto di "amore", ci si circondava di persone per ammirarle, desiderarle o invidiarle.
O per poter regredire alla fase di bestie, dando libero sfogo alle pulsioni e ai desideri che così infidamente ti colpivano e ti stringevano una corda al collo con doppio nodo.

Ma non potevi saperlo.
Non potevi sapere il dolore che si celava dietro i miei falsi sorrisi o alle mie pacche bonarie, dietro i miei abbracci e i miei consigli dati dopo una litigata pesante con Uruha.

Non potevi saperlo nemmeno quando –ubriaco fradicio- ti eri presentato alla porta del mio appartamento chiedendo asilo.

Assonnato avevo aperto quell’ ammasso di legno e ferro trovandovi dietro la ragione delle mie nottate insonni, dei miei risvegli bruschi e accaldati –o eccitati-.

Seppur vittima degli effluvi dell’ alcol, l’ unica cosa che riuscii a pensare fu un misero “Sto sognando” mentre ti osservavo mollemente poggiato allo stipite, i capelli scuri come la pece spettinati – tu, tu che eri sempre così ordinato – e quegli occhi lucidi di un pianto trattenuto a stento.

Bello anche nella disperazione totale.


Riuscendo a rimettere in moto i pochi neuroni che ancora alloggiavano nel mio cervello, ero riuscito a staccarti gli occhi di dosso per permetterti di entrare.

Senza una parola ti avevo dato ancora una volta il permesso di calpestare i miei sentimenti per tornare ad indossare la maschera dell’ amico.

Quando si cade in quel baratro oscuro che è l’ amore, riesci davvero a mettere da parte te stesso per vedere chi ami felice.


Ti avevo avvolto un braccio intorno alla vita lasciando che tutto il tuo peso ricadesse su di me, trascinandoti quasi verso il divano in bella mostra al centro del mio salotto.

Non una parola era volata tra di noi mentre lasciavo che ti rannicchiassi fino quasi a sparire tra le pieghe di quel tessuto chiaro.

Avevo mosso un passo per andare in cucina a preparare qualcosa di caldo e, interiormente, sapevo che quella fuga era dovuta solo ad un bisogno di allontanarmi da te il più possibile prima di correre il rischio di saltarti addosso e baciare quelle labbra rovinate dai morsi – sigilli di quell’ argine traboccante fatto di lacrime e dolore- .

Ma ogni buon proposito nasce con l’ intento preciso di essere distrutto e il mio andò a farsi benedire nel momento esatto in cui, timidamente, mi afferrasti il polso in una muta richiesta di compagnia.

Sconfitto ed esultante allo stesso tempo, avevo portato una mano ad accarezzarti il capo sedendomi al tuo fianco.

«Yuu è successo qualcosa?»

Mi odiai il secondo successivo: non ci fu nemmeno il tempo di lasciare alle parole la possibilità di dissolversi nell’ aria che mi ritrovai investito in pieno dalla tua sofferenza.

E le tue lacrime presero a fluire sinuose e infuocate lungo la tua pelle candida.


L’ unico pensiero coerente che riuscii ad elaborare fu quello di abbracciarti, di stringerti a me quanto più possibile. Desideravo potermi fondere con te, dare la possibilità a quelle stille di ghiaccio di abbandonare il tuo cuore e accumularsi sul mio.

Io potevo combatterle, io potevo sopportarle!


Tu no.

Lasciai che i tuoi singhiozzi scuotessero il mio corpo e sfiorassero il mio collo procurandomi stupidi brividi freddi, lasciai che ogni piccola goccia d’ acqua salata - ogni frammento di te - si asciugasse sulla mia maglietta fino a calmarti, fino ad avvertire il tuo respiro nuovamente regolare.

Ore, minuti, secondi, il tempo era solo una costante in quel frangente. Importava solo che tu tornassi a stare bene, il resto poteva aspettare.



Riaprii gli occhi con la consapevolezza di essermi assopito con te al mio fianco.

Stavo così bene in quel mezzo torpore che non poteva essere generato da altri se non da te.

Finalmente dormivi e - anche se quei solchi umidi facevano ancora bella mostra di sé sul tuo volto ricordandomi il motivo per cui eri a casa mia, sul mio divano - sembravi rilassato.

Era possibile per un essere umano essere così attraente anche dopo un pianto durato, forse, ore?

Era possibile, o la mia follia tornava ad imperversare su di me, rendendomi schiavo dei miei stessi pensieri, dei miei stessi desideri?

Non sapevo per quale motivo avessi litigato con Kouyou ma sapevo quanto l’ amavi.

Uruha era anche amico mio ed ero pronto a tradirlo, pronto a inferire il colpo mortale, pronto a mandare tutto a puttane.

Un bacio.


Uno solo.

Una carezza sussurrata con le labbra.

Solo per placare i miei punti interrogativi, i miei “Come sarebbe se…”

Non avrei recato danno a nessuno e tu eri lì e mi tentavi. Il tuo volto a pochi centimetri e il tuo fiato caldo e sereno.

Follefollefolle.


Quanto è facile cedere alle tentazioni. Siamo nati peccatori e peccatori moriremo.

Sfiorai con due dita il tuo mento –liscio- e lo sollevai fino a sopire il desiderio di quell’ incontro tanto bramato.

Niente invasioni, niente forzature: uno sfiorarsi rubato dal sapore dolce e salato.

Ladro.


Un’ azione viene considerata folle quando non è premeditata, quando è frutto di una decisione momentanea.

Dopo restano, però, gli sprazzi di lucidità dati dalla perdita di coscienza che ti indicano, a lettere cubitali e colorate, la cazzata appena fatta.
Come un bambino che gioca con il fuoco: solo quando si brucia ritrae la mano.

Ed è quello che cercai di fare anche io, cercai di allontanarmi il più possibile e il più velocemente da te e sarei riuscito anche in questo se, però, quegli occhi neri e profondi non mi avessero immobilizzato così come mi avevano rapito tempo addietro.

Restai sospeso a mezz’ aria, un braccio a lato del tuo corpo e l’ altra mano ancora sotto il tuo mento: immobile e senza fiato.

Scrutavo quelle profondità oscure e ne rifuggivo allo stesso tempo. Scoperto con le mani nel sacco.

Quando il primo ad interrompere il contatto fosti tu, si radicò in me la certezza e la consapevolezza del danno irreparabile commesso.

Ma quando furono le tue labbra a riallacciare un contatto con le mie, mi sentii completamente svuotato di ogni certezza, di ogni punto cardine nella vita di una persona.

Si annullò, semplicemente, tutto.


«Fallo ancora.»

Due sole parole possono cambiare un’ intera prospettiva e le sue aizzarono la mia follia: al diavolo ogni cosa. La curiosità e il desiderio spingono le persone ad agire e anche le più sane di mente si lasciano corrodere dal desiderio di conoscere ciò che sempre gli è stato proibito.

Quel fugace bacio si tramutò in qualcosa di più profondo e istintivo, quasi famelico quando mi lasciò la libertà di fare della sua bocca ciò che volevo.

«Non-fermarti.»

Il pensiero di allontanarmi da lui, ora che avevo assaporato il frutto proibito, il mio male incarnato, non mi sfiorò minimamente. Non feci altro che accogliere la sua richiesta con ancora più impeto, lasciandomi ricadere sul divano, trascinandolo sopra di me.

Le mani iniziarono a viaggiare senza una meta precisa sul suo corpo, mi rifiutavo di credere che appartenessero a me dato che su di loro, non avevo più alcun controllo. Ogni mia fibra era protesa verso Aoi.

Ancora dubitavo di non essere preda di uno dei miei sogni che per tante volte mi avevano strappato dal torpore in calde e afose giornate di solitudine e fredda monotonia.

Eppure riuscivo a sentire la consistenza del suo corpo sopra di me, il suo peso. Riuscivo a saggiare il sapore della sua pelle mentre avido mi appropriavo del suo collo.

Avvertivo l’ eccitazione crescere in me quanto in lui che restava attaccato al mio torace come se fosse la cosa più naturale al mondo.

Tra i pesanti drappeggi calati sulla mia sanità mentale riuscii a ricordarmi che, per quanto comodo potesse essere il mio divano, per quelle occasioni non era il posto adatto.

Con un suo mugolio di dissenso e con tutta la forza di volontà che riuscii a mettere in quel gesto tanto semplice quanto difficoltoso, mi alzai lasciando che si aggrappasse a me, trascinandolo nella mia camera.

Pazzo. Continuavo a ripetermelo ma nonostante ciò continuavo a lasciare a quel veleno la possibilità di entrarmi dentro fino a corrodermi le ossa.

Lo osservavo e il ricordo dei suoi occhi lucidi di pianto mi sembrava così lontano confrontati a quelle pozze languide e umide di desiderio.

Perché? Perché? Perché? Perché non mi fermava?

«A cosa stai pensando?»

Hai sbagliato! Non è questo che dovresti chiedermi. Non quando dentro di me lotto tra follia e disperazione.

«Perché?»

«Perché cosa

«Perché mi stai permettendo tutto ciò.»

Mi ritrovai quasi a sussurrare, come se lo stessi pregando di non far caso a ciò che dicevo, alle baggianate che la mia bocca continuava a formulare. Volevo che ignorasse il tutto e non cambiasse idea e allo stesso tempo volevo sapere.

«Non vuoi?»

Quando, nei miei pensieri, lo paragonavo ad un diavolo sceso in terra, minimizzavo la sua potenza, i suoi effetti su di me. Lui era di più.

Un diavolo, un assassino della mia coscienza e della mia ragione di essere, un tentatore, un angelo.

Era tutto e niente allo stesso tempo.


Scossi la testa riluttante al sol pensiero di dovermi allontanare da lui ora.

«Dimmi solo perché.»

«Non lo so…»

Chinai il capo. Deluso forse? Amareggiato? Speravo in un qualcosa di più?

«…ma so che il motivo delle liti tra me e Uruha sei tu

Sbarrai gli occhi.

E solo quello mi fu concesso prima di ritrovarmi nuovamente attaccato a lui.

Mi feci bastare quella risposta. Seppur solo per una volta, per una sera, mi sarei fatto bastare quell’ occasione. Anche se le vie di mezzo non mi avevano mai soddisfatto –io ero per il bianco o il nero, il grigio non esisteva-, anche se sapevo che una volta sfiorato, una volta provata la mia droga non sarei più riuscito a farne a meno, mi accontentai.

Ripresi a baciarlo con ancor più foga e a sfilargli quei pochi vestiti che aveva ancora indosso.

Nemmeno mi ero accorto di avergli già tolto qualcosa, come ancora non mi ero accorto di essere, pressappoco, nelle sue stesse condizioni a livello di abbigliamento.

Quando finii, il contatto tra i nostri corpi nudi mi fece sussultare. Vibravamo come corde di un basso e il cuore nel mio petto rimbombava come la cassa della mia batteria.

Se cercavo di trovare un minimo di lucidità per darmi una regolata, per calmarmi, per cercare di rendere il tutto più pacato, lui la spazzava via con la rapidità di un fulmine.

Solo quando affondai in lui –l’ avevo preparato? Non l’ avevo fatto?- e il suo gemito roco e basso mi riportò alla realtà, riuscii a ritrovare un minimo di quella compostezza che mi aveva sempre caratterizzato, ridando ai miei movimenti dei ritmi più fluidi e meno frammentari.

L’ orgasmo mi colpì con una pesante scossa elettrica che mi smorzò il fiato in gola.

Non so quale parte di me – razionale o irrazionale- riuscì a portare anche Aoi all’ apice, non ero in grado di percepire più niente se non i nostri respiri affannati e il suo cuore che pulsava forte contro la sua gabbia toracica.

Avvertii le sue braccia salire appesantite lungo i miei fianchi per poggiarsi alla base della mia schiena in quello che doveva sembrare un abbraccio. E kami ci stavo bene in quel piccolo mondo creato da quell’ unione così effimera.

Ma per quanto bene ci potessi stare, dentro di me avvertivo ancora quella voce che mi urlava: “Pazzopazzopazzo. Non è te che sceglierà. Cosa credi di aver ottenuto?”

«Tornerai da lui?»

Senza fiato e senza guardarlo, rovesciai quelle parole sulle mie labbra ancora piene del suo sapore.

Vigliacco.


Non hai nemmeno il coraggio di guardare la tua sconfitta negli occhi.

«Devo.»

In quel preciso istante, come una doccia gelata, calò su di me la schifosissima consapevolezza che in quel baratro c’ ero finito davvero e che da lì non sarei mai più uscito.

Avevo toccato il mio fondo.


Per quello stupido sentimento chiamato amore, sarei sempre rimasto lì per lui, nascosto dietro la decisione di stare con un’ altra persona.

Folli non erano solo i gesti che mi avevano portato a condividere il letto con lui come uno sporco amante.

Folle era tutta quella situazione.



Ende.




Chiarimenti sulla storia? Non ce ne sono molti.
Forse i personaggi sono un po’ OOC, ma questa shot è nata con un desiderio quasi folle di Kai. C’ era lui sin dall’ inizio ed è andata avanti con lui fino alla fine.
Per una volta, non so cosa dire su un mio scritto.
So che dopo la prima ora passata a rileggere sempre le stesse frasi, ho iniziato a scrivere animata da non so cosa. Vedevo le parole che nascevano sotto il mio sguardo attonito e stupido. Ho scritto le ultime due pagine in meno di mezz’ ora. Mai successa una cosa simile.

Spero possa piacere anche a voi perché io amo ciò che prova e dice Kai qui.

Ultime cose: il titolo è preso da una canzone dei Within Temptation.
E, tra le righe, c’ è una minuscola citazione a Schiller.
Ecco cosa si impara dalla letteratura tedesca.

Ja ne~♥

Ps. Non disperate per Taste.
   
 
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