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Autore: SHUN DI ANDROMEDA    20/01/2010    1 recensioni
"Un istante dopo, sentì le porte chiudersi alle sue spalle e sentì il tram ripartire, lasciandolo solo in mezzo alla strada; il giovanotto lo guardò allontanarsi sino a scomparire dopo una curva, poi si guardò attorno, tra gli alberi scorgeva l’acqua argentea del fiume Ooi, illuminato dal primo pallido sole, i raggi tiepidi coloravano di una delicata sfumatura dorata i monti circostanti, l’erba bagnata dalla rugiada notturna strisciava contro i suoi jeans a ogni passo, ma non gli diede molto peso."
A poche settimane dal Momizi Matsuri, Jabu ritorna a Kyoto, nel quartiere di Arashiyama. Perchè è tornato? E perchè proprio in questo giorno?
FIC COLLEGATA ALLA MIA PRECEDENTE "MOMIZI MATSURI", per alcuni avvenimenti qui accaduti, riferitevi a quella.
Questa è la mia 100° fanfic! Finalmente ci sono riuscita!!
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Unicorn Jabu
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Momizi Matsuri Saga'
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BE BROTHERS

Il vibrare sonoro e ritmico dell’autobus svegliò il ragazzo profondamente addormentato, rannicchiato sul vecchio sedile in pelle con la testa poggiata contro il freddo vetro del finestrino.

Aprì pigramente un occhio, gettando uno sguardo fuori: la notte e le sue ombre correvano veloci assieme a loro, il cielo rapidamente si schiariva, le sfumature tendevano al rosato, le poche nubi, rosso fuoco, sembravano fenicotteri dalle ali vermiglie, fenici che danzavano tra le fiamme, mitiche creature che volteggiavano leggere nel cielo ormai prossimo all’alba. Con un sorriso stanco e assonnato, il ragazzino, appena adolescente a prima vista, sfiorò coi polpastrelli il vetro freddo, delineando sagome immaginarie come su un foglio di carta.

Stiracchiandosi silenziosamente, scostò la manica della felpa che indossava, l’orologio segnava appena le sette del mattino.

Ormai doveva essere arrivato.

Restò per qualche minuto ad osservare la strada deserta che si estendeva dinanzi all’autobus, ai lati riusciva a distinguere solo terre incolte oppure risaie sterminate, null’altro; con un nuovo sbadiglio, si mise composto, ravvivandosi i corti ciuffi color ebano che cadevano disordinatamente sulla fronte e sugli occhi, cercando di dargli un aspetto più dignitoso, o almeno ci provava visto che l’impresa sembrava più difficile del previsto.

 Con un sospiro seccato, lasciò perdere e afferrò il cappotto buttato malamente sul sedile accanto; curioso, si guardò attorno, era l’unico passeggero a quell’ora, notò, non senza una punta di disagio.

“Ragazzo, la prossima è la tua fermata.”.

La voce dell’autista rimbombò assordante nel silenzio che regnava a bordo del mezzo; il moro annuì e si alzò agilmente, prese uno zainetto poggiato sotto il sedile e si diresse lentamente verso l’uscita, cullato dolcemente dal movimento dell’autobus: “Grazie.” disse.

Sentì il mezzo rallentare sino a fermarsi del tutto, con un sibilo le porte si aprirono, una folata di vento freddo s’insinuò sotto il cappotto facendolo rabbrividire.

Il ragazzino si strinse il bavero, scendendo dall’autobus.

Un istante dopo, sentì le porte chiudersi alle sue spalle e sentì il tram ripartire, lasciandolo solo in mezzo alla strada; il giovanotto lo guardò allontanarsi sino a scomparire dopo una curva, poi si guardò attorno, tra gli alberi scorgeva l’acqua argentea del fiume Ooi, illuminato dal primo pallido sole, i raggi tiepidi coloravano di una delicata sfumatura dorata i monti circostanti, l’erba bagnata dalla rugiada notturna strisciava contro i suoi jeans a ogni passo, ma non gli diede molto peso.

L’aria frizzante gli restituiva energia, il passo si fece via via più svelto quanto più si avvicinava al fiume.

Tutto era come se lo ricordava, si sentiva felice anche se erano passate poche settimane dalla sua prima visita, tutto gli sembrava nuovo e affascinante come se gli avvenimenti a seguito del Jidai Matsuri non fossero mai accaduti.

Si ritrovò improvvisamente sull’argine del corso d’acqua che scorreva sotto il tocco leggero del sole, sentiva gli angoli della bocca alzarsi leggermente e un sentimento intenso  esplodergli nell’animo, il desiderio impellente di saltare lo aggredì con forza ma si trattenne, non sarebbe stato onorevole per un Saint.

Si limitò ad abbassare lo sguardo e a stringere il bavero, celando un dolce e spontaneo sorriso, era così simile al fratello in quel momento...

Il cuore si gonfiò di gioia alla vista del ponte sul fiume, per un momento gli era anche parso di udire le risate dei bambini intenti a raccogliere le foglie, quasi gli sembrava di vederli sguazzare nell’acqua fredda, i kimono colorati zuppi.

Mosso da una forza invisibile, si ritrovò sul sentiero che portava verso il Santuario Nonomiya, la ghiaia rumoreggiava sotto il suo passo svelto e impaziente; tutto era ancora avvolto nel silenzio, rari cinguettii di uccellini erano l’unico rumore che, timido e cristallino, riecheggiava nell’aurora.

Imboccò risolutamente il sentiero che si snodava dentro il silenzioso e millenario bosco di bambù, i rami degli alberi facevano cupola sopra la sua testa, il caldo colore smeraldo che tingeva tutto lo rilassò un poco, senza che se ne fosse accorto si era improvvisamente irrigidito.

Continuò a camminare per un tempo indefinito sino a giungere finalmente a destinazione.

Il Santuario Nonomiya, con la sua grande porta in legno dipinto, si ergeva dinanzi a lui.

Cominciò a correre, saltando a due a due i gradini che lo separavano dal piazzale acciottolato, e poi si fermò, esattamente al centro.

Tutto era tranquillo e silenzioso.

Tra le fronde delle betulle che cingevano in un verde abbraccio il tempio, riusciva a scorgere il cielo fiammeggiante, solcato da nuvolette rosate, un vento leggero gli scompigliò la frangetta spettinata, strappandogli una tenue risata.

Dalla tasca, estrasse un’armonica a bocca e cominciò a suonare qualcosa, era una melodia stentata, incerta, segno della poca esperienza del suo esecutore, però aveva un ritmo allegro e divertente, somigliava a una marcia; e il ragazzino batteva il tempo con il piede, rompendo quell’irreale silenzio che il sonno aveva portato.

Le dita corte e affusolate sfioravano il metallo freddo del piccolo strumento musicale, spostandosi impercettibilmente ora qua ora là, per mantenere salda la presa.

 “Da lontano non riuscivo a riconoscerti, piccolo. Cosa ci fai qui? Ti sei di nuovo perso?”

Una voce scherzosa interruppe l’esecuzione del pezzo, il fanciullo fece una mezza giravolta su sé stesso, scorgendo una sagoma curva, umana, seduta sul gradino più basso della scalinata che introduceva all’edificio principale del complesso templare, una lunga veste bianca svolazzava alla leggera brezza.

Jabu smise di suonare e ripose l’armonica nella tasca del cappotto, poi si avvicinò al vecchio sacerdote con un inchino rispettoso: “Non proprio, sono venuto sin qui per mia iniziativa, volevo parlarle.” replicò a voce bassa; per tutta risposta, l’altro afferrò un lungo e nodoso bastone poggiato accanto e si tirò in piedi, scacciando la polvere dalla veste, “Sono tutto tuo!” soggiunse con un sorriso paterno, “Forza, entriamo, non è bene restare qua fuori per i miei reumatismi!”.

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“Parla liberamente, gli allievi e gli altri sacerdoti sono ancora a riposare, prima di qualche ora non saranno in piedi.” lo rassicurò il vecchio prete, sedendosi a gambe incrociate su un grande cuscino blu notte, un vassoio con una teiera e due tazze era posto al centro sul pavimento di legno lucido, la prima luce del giorno che entrava dalla porta scorrevole aperta permetteva al più giovane di distinguere le venature del legno sul parquet.

Jabu prese la tazza più grossa e la diede all’anziano religioso, poi prese l’altra, portandosela alle labbra, la fragranza del tè gli giunse sino alle narici, inghiottì un sorso della tisana, che andò a sciabordare nello stomaco vuoto, riscaldandolo sino alla punta delle dita.

“Toglimi una curiosità figliolo,” interloquì improvvisamente l’uomo, guardandolo fisso negli occhi, “Tu sei di Tokyo, giusto?” domandò; Jabu annuì, evitandone lo sguardo, sapeva cosa stava per chiedergli: “Sono appena le sette del mattino, a che ora sei partito da casa?”.

Unicorn scrollò imbarazzato le spalle, ma non rispose, si limitò a tenere ostinatamente lo sguardo basso, disegnando immaginarie figure circolari nell’aria; il vecchio non fece altre domande, “Da questo tuo silenzio, ne deduco che tu sia partito molto presto.. Per quale ragione? Non credo ci fosse tutta questa fretta.” disse pacato, facendogli alzare il viso.

 Il moretto si tormentò le mani: “Oggi è il mio compleanno…” sussurrò, “E avevo bisogno di sapere una cosa importante, solo lei è in grado di aiutarmi.”.

Nella piccola stanza cadde un silenzio improvviso.

“Dimmi pure, se hai bisogno di me sono a tua disposizione.” disse tranquillo il sacerdote, guardandolo negli occhi rassicurante, “Poi se vuoi potrai riposare un po’ prima di ritornare a casa, saranno preoccupati per te” gli sorrise.

Con un sospiro, Jabu prese coraggio e afferrò lo zainetto abbandonato contro la porta scorrevole, ne trasse fuori una fragile foglia d’acero, perfettamente essiccata.

Su c’era scritto qualcosa.

“Quel giorno scrissi la mia frase su due foglie, una la lascia sul fiume, l’altra la portai a casa. È da allora che ci penso su…” incominciò, “In quel momento, la scrissi senza pensarci su, lei però c’era qualcosa che a me sfugge tuttora, e che sono sicuro che lei ha compreso sin dall’inizio.” affermò il moro, sfregandosi con insistenza l’occhio sinistro; il vecchio lo guardò dubbioso, “Cosa intendi figliolo?” chiese interessato, poggiando sul vassoio la tazza ormai vuota.

“Fino a quel momento, non mi ero mai soffermato sul fatto di avere fratelli, sui legami che possono esistere, sulle emozioni che si possono provare quando si è legati dal sangue come solo dei fratelli possono essere. Non mi ero mai concentrato sul rapporto che avevo con loro, eppure, all’improvviso, è successo. E io non so come comportarmi.” ammise infine.

Dalla finestra aperta entrò come un raggio di sole un profumato refolo di vento, la foglia, tenuta in mano dal ragazzino, sfuggì alla sua presa come fumo, volteggiando nell’aria per qualche istante, prima di cadere sul parquet; il sacerdote la prese tra le dita con delicatezza, riconsegnandogliela: “Ascolta piccolo…” incominciò, intrecciando le dita in grembo, “credo di aver capito cosa ti tormenta, ma vorrei che fossi tu a dirmelo.” asserì serio, fissandolo nei profondi occhi scuri, “Riuscire a capire cosa ti tormenta così è già un buon inizio.” assicurò.

Unicorn socchiuse gli occhi, respirando a pieni polmoni l’aria profumata di terra bagnata e di fogliame, frugò a fondo dentro di sé, alla ricerca di qualcosa, quel qualcosa che il suo interlocutore aveva già identificato tempo prima.

“Credo di non essere in grado di essere un buon fratello. Cioè, non è che non voglia loro bene, ma siamo troppo diversi, la nostra vita è stata più dura e ingarbugliata di quanto lei possa pensare. Eppure, per alcuni di noi, è stato più facile trovarsi, sentirsi affini… ma per gli altri, no. Anche se c’è l’affetto, non c’è quella complicità che, devo ammetterlo, invidio un po’ a Seiya e agli altri…” sussurrò timidamente, non riusciva a crederci, era veramente lui quello che stava parlando? Si sentiva così fragile che quasi non si riconosceva.

“Quanti fratelli siete?” domandò per prima cosa l’anziano religioso, “Dieci, me compreso.” rispose Jabu prontamente, riponendo la foglia dentro lo zaino, “E, da quello che ho capito, alcuni di voi sono riusciti a instaurare un rapporto di cui tu sei invidioso.” affermò con un sorriso gentile sul viso coperto di rughe, “Adesso devi ascoltarmi bene, perché è una cosa importante. Non esiste una ricetta segreta, né un metodo infallibile per essere buoni fratelli. Io ero il più anziano di una famiglia composta da cinque bambini, e tra me e gli altri non sempre c’era comprensione, anzi, tutt’altro, abbiamo passato l’infanzia e l’adolescenza a farci una sorta di guerra.” rise nostalgicamente, “Eppure, una volta cresciuti, quelle liti che noi reputavamo importantissime e giuste, quei torti che pensavamo essere tremendi, invece non erano altro che semplici litigi di bambini. Sei ancora giovane per capirlo, ma so che ne sei in grado, hai tutta la vita davanti; dici che hai timore di non essere un buon fratello per loro, ma non è vero, l’importante è pensare col cuore. Tu vuoi bene a loro? Allora non c’è alcun problema, se c’è l’amore e l’affetto, c’è tutto e neanche le litigate più violente possono scalfirli.” spiegò serio, poggiandogli le mani sulle spalle tremanti, i grandi occhi azzurri dell’uomo nei suoi,  “Hai compreso ragazzo mio?”.

Il moretto sentì la testa girargli per quella mole di parole che il vecchio sacerdote gli aveva detto, ma le aveva afferrate e capite, sentiva come se un puzzle si fosse appena completato dentro di lui, come se qualcosa di sbagliato fosse finalmente tornato al suo posto.

Annuì debolmente: “Si.. Credo di si…” rispose con un filo di voce, alzandosi in piedi e muovendo qualche passo in giro per la stanza, nel tentativo di riordinare le idee…

…Quando all’improvviso, la sua attenzione venne attratta da una fotografia, ingiallita dal tempo, poggiata su una mensola accanto alla porta d’ingresso.

Una bambina, graziosa, dai lunghi capelli color del rame, vestita di un lungo abitino nero, sedeva su una panca in legno grezzo sotto un ciliegio; sorrideva allegra, le gambe colte in un lento movimento ondulatorio. Jabu la prese in mano, sfiorando il visetto pallido e con una sfumatura di tristezza della bambina, di circa sette anni, quei lineamenti gli erano così familiari…

“Saori-san… Athena-gami…”

Un sussurro spontaneo gli uscì dalla bocca, perdendosi nel vento.

L’ anziano si alzò in piedi a sua volta, avvicinandosi a lui: “Conosci questa bambina?” chiese stupefatto, facendolo voltare, “Si.. Certo… è mia sorella adottiva… Cioè, è una storia lunga da spiegare, ma lei è una persona fondamentale nella vita mia e dei miei fratelli, il nostro stesso essere è legato indissolubilmente a lei.” mormorò, rimettendo la cornice al suo posto, “Quando fu scattata?” chiese poi.

Il volto del vecchio si contrasse in una espressione pensosa: “Uhm, fammi pensare, è passato tanto tempo e la memoria è alquanto difettosa!” ridacchiò allegro, accarezzandosi il mento, “Credo che sia dopo la morte di suo nonno, anzi, sono quasi certo di non sbagliarmi, erano passati due anni, era venuta con il suo tutore per l’Obon*.” spiegò lui gentilmente.

“Perché qui?” chiese stupito Unicorno, “Anche Saori-san è di Tokyo, non ha senso.” aggiunse.

 Ora era il turno dell’anziano di restare sorpreso: “Non lo sai?” domandò sottovoce, “Mitsumasa Kido, suo nonno, è sepolto qui, dove è nato tanto tempo fa.”.

§§§§§§§§§

Crescere senza una famiglia.

Jabu sapeva benissimo cosa voleva dire.

Non ricordava il viso della madre, di lei era rimasto solo lo sguardo triste e allo stesso tempo saccente che lo contraddistingueva a sua volta, e i capelli neri; il padre invece, era come se non fosse mai esistito.

E forse, non lo sarebbe mai stato.

A tutto questo pensava il ragazzo mentre, col viso esposto al fresco vento d’autunno, stava ritto davanti a un semplice tumulo, sotto un acero alto e slanciato, le braccia mollemente incrociate dietro la schiena, lo sguardo asciutto e privo di qualunque emozione.

Non poteva piangere per un padre che non aveva mai avuto.

Di lui, era rimasto solo un vago ricordo, appena ingentilito dal, all’epoca lo aveva definito generoso, gesto di accogliere in quella grande casa un così grande numero di orfani, un ricordo di una persona sempre assente e lontana, tremendamente lontana, e il legame di sangue che lo legava con un filo indissolubile a quel fantasma sfuggente.

Non poteva piangere per Mitsumasa Kido.

E neppure voleva.

Le dure lotte affrontate lo avevano temprato e reso più forte, una sorta di guscio lo proteggeva, ma dentro era rimasto sempre fragile come un bambino, una fragilità nascosta dalla baldanza e da una buona dose di superbia.

Ma era giunto infine il tempo di crescere, di lasciarsi alle spalle quel passato doloroso, quel passato che lo aveva così duramente segnato, isolandolo dagli altri suoi fratelli, che lo aveva in un certo senso reso qualcosa che, in realtà, non era affatto.

E doveva farlo quel giorno.

Sentiva che era giusto così.

Senza versare nemmeno una lacrima, fece una mezza piroetta, trovandosi dinanzi al vecchio sacerdote, l’uomo lo fissava con affetto; il più giovane si profuse in un profondo inchino: “Grazie di cuore, non dimenticherò le sue parole, credo di potercela fare da adesso in poi” sorrise dolcemente, sistemandosi meglio lo zaino sule spalle, “Buon viaggio figliolo, e buon compleanno.” disse, abbracciandolo e baciandolo sulle guancie rosse, “E ricorda sempre, quando sei giù, sorridi.” aggiunse, scompigliandogli la selva disordinata di ciuffi neri.

Jabu sbuffò, imbronciandosi: “Non sono un bambino!” esclamò, calandosi il cappuccio sul capo, per poi esibirsi in una gran risata, “Spero di rivederla presto, padre! Arrivederci! E grazie di tutto!” salutò il fanciullo, spiccando una leggera corsa verso il paese.

§§§§§§§§§

Il viaggio di ritorno a Tokyo non lasciò molti ricordi nella mente del giovanissimo guerriero.

Prese distrattamente il primo autobus che lo avrebbe portato rapidamente alla stazione, salì sullo Shinkansen strapieno e si rassegnò a passare alcune ore pigiato tra corpi umani caldi e pesanti, tra respiri affannosi e imprecazioni colorite.

Ma i suoi pensieri erano altrove.

Giunto a Shibuya, infine, scese dal veloce mezzo e s’incamminò nei lunghi e affollati corridoi della stazione, sino a sbucare davanti alla statua di Hachiko; si fermò brevemente davanti al muso dolce del bronzo raffigurante il leggendario cane, lo accarezzò brevemente, con calore, e si diresse a passo svelto verso casa.

Era autunno, eppure il piacevole tepore del sole non lo faceva presumere, anzi, pareva che fosse perfino tornata la primavera.

Il percorso in autobus verso il quartiere residenziale dove si trovava Villa Kido fu tranquillo e silenzioso, era l’unico passeggero a bordo a quell’ora, e quasi se ne rammaricò, ma cercò di non pensare al silenzio che lo avvolgeva, concentrandosi sulla strada.

Scese dinanzi a casa, l’imponente edificio gli parve più austero e cupo che mai.

Facendosi coraggio, frugò nello zaino e ne trasse fuori due chiavi lucidissime, legate assieme da una semplice cordicella blu: senza fare rumore, apri il cancello e si inoltrò nel grande parco deserto e muto, percorrendo a passo svelto il vialetto ben curato che conduceva al portone lucido; fece appena in tempo a rifugiarsi sotto il loggione che una voce imperiosa bloccò ogni suo movimento, si voltò, incrociando il viso del maggiordomo della Dea: “Dove diamine sei stato, razza di incosciente?!” gridò Tatsumi, comparso improvvisamente al suo fianco, “la signorina Saori era molto preoccupata per te, sei scomparso improvvisamente, non ti si riusciva a trovare!” sbraitò il servitore col viso rosso per la rabbia, “roba da pazzi, dai più rogne te che quel moccioso di Seiya…” sbuffò, armeggiando con la serratura della porta.

Un attimo dopo, il ragazzino fu spinto con discreta violenza dentro casa: “Forza! Saori-sama è nel suo studio, ci sono anche tutti gli altri mocciosi. Comincia ad avviarti mentre io avverto che sei finalmente tornato.” sbottò il servitore senza mezze misure, dirigendosi verso il salotto; Jabu si levò lo zaino dalle spalle e lo poggiò in un angolo assieme alla giacca, poi cominciò a salire le scale a discreta lentezza, misurando attentamente ogni passo.

Il suo ingresso nello studio fu accolto da reazioni contrastanti, tra gli affettuosi abbracci e auguri di Shun, le battutine più o meno velate di Nachi e Ichi, i borbottii di Ikki e le linguacce che Seiya gli rivolgeva, seccato, i regali che Geki e Shiryu si erano incaricati di raccogliere per consegnarglieli.

E poi, il grazioso e gentile sorriso della sua Dea.

Era una scena molto familiare e conosciuta, eppure aveva come un sapore nuovo, qualcosa che non aveva mai provato prima gli esplose nel cuore, qualcosa che lo rendeva immensamente felice.

Non era necessario chiedersi cosa fosse.

Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, e lo avrebbe saputo sempre.

E anche se non lo avrebbe mai ammesso, era una sensazione stupenda essere fratelli.




POSTFAZIONE

Ennesima postfazione, ammetto che mi piace molto scriverle.

Questa notte sono qui per celebrare moltissime cose.

Questa fan fiction, BE BROTHERS, ha un significato importante per me per svariate ragioni, primo fra tutti che si tratta del mio primo vero, serio traguardo come scrittrice: la CENTESIMA MIA OPERA.

Ora, lo so che sembra stupido, ma è una cosa davvero importante per me. Il mio percorso nel mondo delle fan fiction cominciò proprio con i Saint, in quel lontano 2007 e, benché tuttora io stia lavorando su molti progetti, ho deciso di scegliere questa come mia centesima, per celebrare questo connubio che prosegue ormai da 3 anni.

BE BROTHERS è anche un regalo, il regalo di compleanno per Unicorn Jabu, un personaggio che spesso viene erroneamente disprezzato ma che io invece apprezzo particolarmente per la sua personalità così strana.

BE BROTHERS è una sorta di minestrone, che raccoglie alcune delle occasioni più importanti per me e mostra come, in questi anni, io sia cambiata, sia, in un certo senso cresciuta.

Ho lottato duramente per giungere sino a qui, ho incontrato persone, ho fatto amicizie, ho sofferto e ho riso.

Queste cento fan fiction raccontano un pezzo di me, raccontano una me che non è ancora giunta alla fine di un percorso, ma è solo all’inizio.

Quindi grazie a tutti, è stato solo grazie a voi se sono riuscita ad arrivare sin qui.

GRAZIE.

Charlie

   
 
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