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Autore: grace88    08/07/2005    4 recensioni
Per chi aspetta la svolta sentimentale di Grissom, un Grissom sensibile, accorato, pieno di pietà per il dolore degli altri e pieno di amore per chi lavora al suo fianco... (nota: qualche errore corretto)
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sara Sidle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rischiare tutto

L'unico momento in cui tocchiamo gli altri è quando portiamo i guanti in lattice. Un giorno ci svegliamo e ci accorgiamo che per 50 anni non abbiamo vissuto. Ma poi ad un tratto ci capita una seconda chance. Si presenta una donna giovane e bella, una per cui proviamo qualcosa. Ci offre una vita insieme a lei. Ma abbiamo una grande decisione da prendere. Perchè dobbiamo rischiare tutto quello per cui abbiamo lavorato per averla. Io non ce l'ho fatta, ma lei sì. Lei ha rischiato tutto. E Debbie le ha mostrato una vita stupenda, vero? Ma poi se l'è ripresa e l'ha data a qualcun altro, e lei si è sentito perso. Così le ha preso la vita. Li ha uccisi entrambi e ora non ha niente".


°°°

(I MASCHI COME NOI) - L’hanno trovata a qualche passo da un albero. Impiccata forse. Segni sulla gola, sotto le orecchie. I capelli corti e un po’ ricci. Ma la corda dov’è? Tra poco sarà l’alba, mi metto i guanti. Avrà forse sedici anni. Mi chino sul corpo disteso sull’erba secca e ghiacciata. Un ragazzina. Chi ti ha portato fino a qui? Le gambe composte, le braccia chiare lungo i fianchi magri. Guardare in alto: i rami dell’albero, neri e più scuri del buio. La torcia. Cercare, lentamente. Eccolo: qualcosa è rimasto anche dietro questa morte. Forse un pezzo di corda, forse della stoffa. Intorno i soliti rumori. Il perimetro, le pattuglie. Ancora più lontano l’autostrada che ronza sorda a tutte le ore. Morta da poco, con i piedi nudi. Chi si è tenuto le tue scarpe? E come ti chiami? La bocca socchiusa, i segni sulla tua gola. Non so più come si fa a non guardare. Le luci rosse e blu che lampeggiano intorno. È quasi l’alba. E sei la prima persona con cui parlo oggi.

(L’UNICO MOMENTO IN CUI TOCCHIAMO GLI ALTRI) - Dentro i pugni chiusi, graffi sulle palme, tra le dita. Residui sotto le unghie. Un piccolo orologio d’argento, un altro crimine passionale. I gomiti un po’ ruvidi, già come quelli di tutte le donne. Le spalle magre; la corda ha tirato su ossa delicate, è scivolata in un attimo alla nuca, stringendo dietro le mandibole, sotto i lobi. L’orecchino destro strappato via. Cercarlo, qui da qualche parte. Un naso da bambina. Qualcosa di strano. Residui. I soliti gesti meccanici per non buttar via niente: strappo l’adesivo, sigillo una busta trasparente. Cocaina di sicuro. Il vestito è perfetto, non ci sono segni, né macchie, neanche uno strappo. Un vestito semplice e bello, un po’ costoso, due strati leggeri di stoffa chiara. Se Dio vuole niente stupro. L’autopsia ci dirà tutto, tra poco, più tardi. Tocco un ginocchio, distendo le dita fino a scendere sul lato, dove si incava. Sei morta, non ti hanno lasciato niente.

(MA POI) - Una macchina. Non guardo.

(AD UN TRATTO) - E un filo di vento che allontana il rumore dell’autostrada.

(UNA SECONDA CHANCE) - Ventisette minuti dal tuo telefono su un comodino che non ho mai visto fino a quest’erba ghiacciata, a queste pietre dove ci hanno chiamato stanotte. Sono quasi le cinque. Nel buio. Cammini a passi larghi, un po’ pesanti, con la tua fronte rabbuiata e lo sguardo stanco, lucido. L’agente ti fa passare, ti saluta con una specie di sorriso, di quelli che non si fanno a un collega o al capitano.

(UNA DONNA) - Non alzo gli occhi. Non mi volto neanche mentre ti chini accanto a me, sopra il corpo di questa ragazzina senza scarpe. Non abbiamo l’abitudine di salutarci, siamo troppo abituati a questo lavoro. Non mi volto neanche. All’inizio qualcuno scherzava, dicevano che eri la mia allieva favorita. Sì, a volte è capitato, che ti insegnassi qualche trucco, ho vent’anni più di te. Ma no, sei tu che ne hai venti di meno. Perché intanto tu mi rifilavi ogni giorno la tua intelligenza un po’ rabbiosa, la tua padronanza di te, del metodo, dei dettagli; e ogni tanto il tuo sarcasmo alla fine di una frase. Le tue occhiate alla fine di una frase. I tuoi orari da trincea. La tua rapida simpatia alla fine di una frase. Le tue decisioni, le tue scoperte, le tue spalle da nuotatrice; perfetta e scontrosa. Sì, io ti ho abituato a questo lavoro, ma non è giusto: tu ti ci sei ritrovata subito; poche parole, soltanto l’essenziale, senza guardare mai l’orologio. Senza contare le ore che ci sarebbero per dormire, per mangiare, per partire un week-end, per fare quello che fanno gli altri prima dell’alba, nel buio. Il telefono squilla in mezzo al silenzio; il chilometro 31 sulla 7 in direzione nord, un bel fossato di pietre subito sulla destra, un albero. E tu arrivi, prima possibile. Con la tua maglietta blu, i capelli che sfuggono lungo le guance. Ventisette minuti e sono quasi le cinque. Non male per venire a chinarti su una morta a sedici anni, spalla a spalla con uno come me, che non ti saluta neanche. Che non si volta neanche. Che non alza nemmeno gli occhi. Tu arrivi, ti sei chinata qua vicino a me. La tua voce:
“Grissom. Impiccata?”.
E poi la mia:
“Meno di due ore fa”.

(UNA PER CUI PROVIAMO QUALCOSA) - Non batti ciglio. Impassibile ma ansiosa. Rimani di ghiaccio. E io lo ammetto: mi piacerebbe capirti e mi piacerebbe baciarti.

(CI OFFRE UNA VITA) - E tu come se lo sapessi. Ti giri verso di me solo per un attimo. Come per assicurarti di qualcosa, o per rassicurarmi. L’hai fatto mille volte e non mi basta. E dura forse meno di un secondo. E lo fai anche adesso: interrompi tutto e io allora ti guardo: e trovo i tuoi occhi un po’ sorpresi, e mi sembrano calmi, tristi e obbedienti, tutte queste cose insieme, come quando qualcuno viene a dirci che non vuole che soffriamo più.

(DOBBIAMO RISCHIARE) - Tutti i giorni. L’hai fatto mille volte. Io rimango fermo, tre ore, sei ore, otto, una giornata intera, aspettando che succeda di nuovo. Rimango zitto e immobile con i gomiti sulla scrivania, tra i barattoli di vetro, i dossier da firmare. Aspetto che succeda di nuovo. E lo so: non faccio nulla. Non parlo, non ti dico nulla. Ti aspetto. Ma quando ci sei non ti trattengo mai. Mai, neanche una volta. Quello che tu mi dai, non te lo chiedo. È perché non so cosa vorrai in cambio. Forse nulla o forse non me. Rimango immobile con i gomiti sulla scrivania perché so solo una cosa: che non posso perdere questo. Questo aspettarti vicino alla lampada accesa, su quest’erba ghiacciata nel buio. Che tutta la giornata vale quell’istante, che tutti gli altri momenti vanno verso quello, quell’unico momento in cui arriverai, interromperai tutto, ti guarderò e tu mi guarderai come per dirmi qualcosa di importante. E quel momento diventerà questo. E io non posso rischiare di perderti, neanche per averti. Nessuna vita vale questo: io che alzo gli occhi e tu che sei là, ferma sulla soglia di una porta, e stai per darmi la soluzione del problema.

(PER AVERLA) - E tu sei qua, vicino al mio braccio. Nell’erba ghiacciata, davanti ai nostri piedi, c’è una ragazzina morta da un paio d’ore. È vero, ti ho abituato io a questo lavoro impossibile; ma sei tu che mi hai ricordato che era impossibile. E infatti adesso avrei voglia di stringerti, di coprirti gli occhi, di farti alzare per portarti via da qui. Fare a ritroso il percorso che conosciamo a memoria: il nastro del perimetro, i lampeggianti, il bordo dell’autostrada. Metterti in macchina vicino a me. Guidare lentamente e andare da qualche altra parte. E intanto pensare per una volta di non lasciarti più.

(NON CE L’HO FATTA) - “Hai già dato un’occhiata qui intorno?... Grissom?”.
Ti ritrovo qua a guardarmi un po’ sorpresa, già un po’ stanca. Ti sei messa i guanti. E io ti rispondo con la voce che mi riesce meglio: il capo, uno specialista, uno esperto in lavori impossibili. Ti mando più in là, dove c’erano delle tracce. Dalla tu un’occhiata. Cerca una corda o qualcosa di simile. Ah, e poi chiama un agente per la segnalazione... Cosa fai ancora là? Vai, non abbiamo tempo da perdere… E tu mi credi, perché non hai scelta.

(IO NON CE L’HO FATTA) - E ti allontani come se niente avesse più importanza o non ci fosse in realtà nulla da capire. E un vuoto immenso mi cade nella gola, con uno schianto terribile, che mi lascia senza fiato. Tu ti allontani e io vorrei chiudere gli occhi.

(TRISTE VERO?) - Tu ti allontani nel buio ingrigito dell’alba e io rimango solo con una ragazzina che non dirà più niente a nessuno.

(UNA DONNA GIOVANE E BELLA PER CUI PROVIAMO QUALCOSA) - Ma: mi hai chiamato. Sono passati solo pochi secondi. Eppure: sei ancora qua, qua dietro di me, da qualche parte. Mi hai chiamato, sei vicinissima. Mi alzo lentamente e mi giro, sì, più lentamente possibile. Ed eccoti: era vero, sei tornata indietro, adesso sei a mezzo metro da me. Sei proprio tu: i tuoi capelli sfuggiti sulle guance, le tue spalle da adolescente, la tua bocca arrabbiata. E non so dove l’hai trovato questo sguardo un po’ preciso e po’ dubbioso in quegli occhi che poco fa erano soltanto stanchi e neanche dispiaciuti. In fondo sono passati solo pochi secondi.
“Grissom. Va tutto bene?”.

(RISCHIARE) - Va tutto bene? Non so. Non mi ricordo. Ma sì, certo, va tutto bene: per mezzo minuto al giorno. Sai, come poco fa, quando sei arrivata; o adesso che mi hai chiamato. O quando ti fermi sulla soglia del mio ufficio, con quasi un sorriso, che sì, cosa saranno? Dieci secondi? Quindici? Ma ti avevo mai detto che io, sai, io mi aggrappo a quei secondi? No? Non ti eri accorta? Anzi ti farà ridere, ma io li aspetto. Sì, io vivo, come dire? Aspettandoli!... Stupido, eh?... Ma sì, ridi, anche a me fa ridere… Sai, io ci vivo, in quei dieci secondi, e me li occupo, con tutta calma. Come una camera d’albergo che speravamo fosse più grande, ma siamo stanchi, è tardi, e ci va bene lo stesso, e anzi tutto sommato sembra più confortevole, così, non troppo grande… Li rigiro tra le mani, come uno dei barattoli che sono sulla mia scrivania… Li conto, uno a uno, come se fossero infiniti. E qualche volta… Li accarezzo… Così, sai, per sentire… Come sono… Io… E intanto chiudo gli occhi e sogno… Di contare te, e di accarezzare te. La tua testa, le tue braccia, i tuoi fianchi. Dio mio, contare il tuo nome su tutto il tuo viso... Stringerti, nasconderti… Per tenerti solo per me… Aspettando che il tempo passi, che sia passato: ventuno, ventidue, ventitrè… Hai detto se va tutto bene? Ma sì, bene, benissimo… benissimo. Se solo… Se solo per una volta durasse di più quel momento perfetto… Quel momento in cui tu arrivi, interrompi tutto, e io ti guardo finalmente. E tu mi guardi come adesso, come per dire qualcosa di importante. Oppure no: come se fosse importante comunque… Importante per te… Come adesso: che sei qua, ferma a mezzo metro da me, e non posso fare a meno di sperare che stai per darmi la soluzione del problema. Come fai? Vorrei chiedertelo. Perché ho sempre voglia di capirti. E ho voglia di baciarti. E…

(AVERLA) – “Non sai quanto ho voglia di amarti”.
  
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