CAPITOLO 24
Sei tu la parte
migliore di me stesso,
il limpido
specchio dei miei occhi,
il profondo del
cuore,
il nutrimento,
la fortuna,
l’oggetto
di ogni mia speranza,
il solo cielo
della mia terra,
il paradiso cui
aspiro.
William
Shakespeare, poeta e drammaturgo
inglese, 1564-1616.
Il sole
giocava sulle increspature dell’acqua, e sembrava essere
passato un secolo
dall’ultima volta che i miei occhi avevano visto quella
spiaggia. Sorrisi,
scuotendo appena il capo.
Che cosa
ridicola,
pensai. E’ strano
come la vita possa cambiare in pochi giorni, come tutto ciò
che hai, tutto ciò
che difendi in pochi attimi sia sbaragliato ai quattro venti, senza
reali
perché, solo per curiosità, solo per lavoro.
Ma esiste
sempre una soluzione, un motivo per cui valga la pena stringere i denti
e continuare ad andare avanti, anche se i tuoi più intimi
segreti… beh, non
sono più intimi come una volta. Ed io avevo la mia ragione
per infischiarmene
del resto del mondo, la mia ragione per crearmi un piccolo angolo di
paradiso
illuminato perennemente dal sole. Era lui, il mio posto, il luogo in
cui ero
semplicemente me stessa, solo Kristen Stewart. E valeva la pena,
lottare e
tenere duro, perché la vita, regalo più grande
non poteva farmi.
Scesi
dall’aiuto, infilandomi gli occhiali da sole e scrutando la
spiaggia. E
lo vidi. Jackson lanciava un bastone, il cane glielo riportava. Sorrisi
e
correndo mi avvicinai a lui.
Jackson
era di spalle, quando Napoleone si bloccò guardandomi e
rizzando le
orecchie. Mi corse immediatamente incontro, e in pochi attimi me lo
ritrovai
addosso. Inevitabilmente, ridendo, caddi sulla sabbia, schiacciata
dall’enorme
peso del Golden Retriever.
«Si,
mi sei mancato anche tu.» dissi ridendo, cercando di
rialzarmi mentre il
cane scodinzola davanti a me. Alzai lo sguardo e vidi Jackson
avvicinarsi,
sorridendo con fare dolce. Un sorriso che mi era mancato, mancato da
morire.
«Ciao!»
esclamai avvicinandomi, sorridente.
«Ciao.»
rispose lui, una strana luce
negli occhi color del mare.
«Posso
abbracciarti?» chiesi in un risolino.
Lui
scosse il capo, ridacchiando, e afferrandomi per un braccio mi
attirò a sé,
stringendomi contro il suo petto.
«Mi
sei mancata, Kris.» mormorò e nella vice una nota
di tristezza.
Amichevolmente picchiettai con la mano sulla sua spalla, prima di
allontanarmi
e guardarlo in volto.
«Tutto
okay?» chiesi allarmata dal tono della sua voce,
«è… successo qualcosa?»
chiesi mentre una ruga d’apprensione mi solcava la fronte.
Lui
sorrise. «Nah, è tutto okay. Sono solo molto
stanco. Non ho dormito molto
negli ultimi giorni… ho fatto da balia a mia sorella che ha
preso la febbre.»
Sorrisi e
fermai i capelli, spostati dal vento, alzandomi gli occhiali sulla
fronte. Sbattei le palpebre non ancora abituata alla forte luce del
sole.
«Sicuro?»
chiesi corrugando la fronte.
Lui
sorrise, annuendo flebilmente col capo. «E’ tutto
okay. Dai, nanerottola,
ti offro un caffè.»
L’uno
a fianco dell’altro ci dirigemmo verso il bar più
vicino.
Nell’angolo
più appartato dello starbucks, Jackson beveva il suo
caffè,
fissando le sue mani che circondavano il bicchiere di cartone. Il suo
sguardo
era indecifrabile.
Con le
mani, poggiate sulle gambe, torturavo un lembo della mia maglia, in
attesa
che parlasse.
«Così,
parti?» chiese senza alzare lo sguardo, prima di bere un
sorso di liquido
nero.
«Si.»,
la mia voce era pari ad un sussurro perso nella tempesta.
«Quando?»
«Fra
un paio di giorni.»
Annui
piano col capo, prima di bere ancora un sorso di caffè.
Poi alzò gli occhi su di e
l’intensità del suo sguardo ebbe la potenza
di una slavina, scosse il mio animo, colpendomi al cuore. Qualcosa
nello
sguardo, mi costrinse a chinare il capo, quasi colpevole.
«Sono
felice per te, Kris.»
Alzai di
scatto lo sguardo e, lo vidi, sereno. Uno sguardo che mi aveva
rassicurato durante i giorni delle riprese, giorni in cui il mio cuore
era in
perenne tumulto, in cui il mio cuore cercava solo parole rassicuranti,
qualcuno
che mi dicesse che tutto si sarebbe sistemato, che tutto sarebbe andato
per il
meglio… ed in fondo, alla fine, era così.
«Meriti
tutta la felicità di questo mondo, nanerottola.»
mormorò sorridendo
dolcemente. «E Robert è davvero
fortunato.»
Aprii la
bocca per replicare, ma la voce mi morii in gola quando il mio
cellulare prese a squillare.
Sorrisi,
imbarazzata. «Scusami.»
Afferrai
il telefono dalla borsa. Robert.
«Ehi.»
dissi voltando appena il capo, guardando il pavimento accanto a me.
«Dove
sei?», nella sua voce una nota d’impazienza.
«Ehm…
sono con Jackson.»
«Ah.
Sul serio?»
«Si,
te l’ho anche detto, prima che andassi via. Soffri per caso
di perdita di
memoria a breve termine?» ridacchiai.
«Ah-ah,
divertente. Devo parlarti.» disse ancora con una traccia
d’impazienza
nella voce.
Sbattei
le palpebre e corrugai al fronte, confusa. «Mi sta
spaventando.» dissi
sentendo il mio corpo irrigidirsi.
«Tranquilla,
non è nulla di grave, ma ho urgenza di parlarti.»
si affrettò a
spiegare.
«Okay.
Arrivo.» risposi confusa.
«Ricorda
a Jackson che sei mia.»
Feci un
risolino. «A dopo, idiota.» e riappesi.
«Robert?»
chiese Jackson con l’ombra di un sorriso sul volto.
Annuii,
imbarazzata, col capo.
«E
devi andare.» continuò sempre fissandomi in volto.
Annuii
ancora col capo.
Sospirò.
«Allora ci vediamo, Kris.»
«Mi
mancherai, Mr Hyde.» dissi sorridendo, con cuore ricolmo di
nostalgia per
pomeriggi passati nella mia roulotte a guardare film.
«Mi
manchi già, Dott. Jackill.» rispose con occhi
luminosi. Mi sposi sul
tavolo, per stringerlo a me.
«Ti
voglio bene.» mormorai.
«Ti
voglio bene, anch’io.»
Poi mi
allontanai, salutandolo con la mano, rinfrescando la scatola dei
ricordi
contente l’immagine dei suoi occhi limpidi e chiari.
Jackson
Rathbone osservò Kristen Stewart
uscire dal locale poco affollato.
Osservò i capelli di lei mossi dal vento, accarezzati dalla
brezza del mare.
La osservò allontanarsi, entrare in auto e scomparire.
Quanto le sarebbe mancata?
Forse troppo, per essere quantificato. Era la sua migliore amica, in
fondo, o
forse… qualcosa di più che mai avrebbe voluti
ammettere.
L’aveva vista, durate i mesi delle riprese, innamorarsi di
Robert. Un amore
che, ora, la legava a lui incondizionatamente, attraverso un filo
invisibile
impossibile da spezzare. E Jackson Rathbone lo sapeva, lo sapeva bene.
Gli mancava. Gli mancavano le lunghe chiacchierate, le risate, i
sorrisi, gli
abbracci. Gli mancava Kristen, e lei non lo avrebbe mai saputo. La sua Kristen…
Non
avrebbe mai saputo come sarebbe potuto essere, ma ormai non gli
importava.
Lei era felice, e questo gli bastava.
Jackson
si passò una mano fra i capelli castani, sospirando e
poggiando il
mento su una mano.
…
e lei non lo avrebbe mai saputo.
Ma la
vita cambia e va avanti, Jackson ignaro sedeva a quel tavolino.
D’un
tratto qualcosa cambiò. Jackson scattò in piedi
mentre liquido marrone gli
veniva rovesciato sulla camicia celeste, stirata alla perfezione.
«Ma,
cavolo!» ringhiò allontanandosi e cercando di non
far aderire la camicia
impregnata di liquido bollente al suo addome scolpito.
«Mi
perdoni!» si affrettò a scusarsi una voce sottile.
Jackson chiuse un momento
gli occhi, cercando di calmarsi, mentre il sangue gli ribolliva nelle
vene.
«Mi
perdoni, sul serio! Non era mia intenzione.»
esclamò ancora quella voce
mentre delle mani, impacciate passavano un fazzoletto di stoffa sulla
sua
camicia bagnata.
Istintivamente,
rosso di rabbia, Jackson aprì gli occhi, per zittire ed
allontanare la ragazza che cercava invano di rimediare al danno fatto,
ma non
ci riuscì. Quando i suoi occhi incontrarono iridi color
cioccolato, dolci come
miele mescolato a zucchero, sentì la rabbia scemare.
«No,
no… ferma.» riuscì a balbettare
fermando le mani di lei, afferrandola per
i polsi.
«E’
solo una camicia.» sorrise, sorpreso da se stesso.
La
ragazza, alta, snella, dai lunghi capelli color dell’oro,
sorrideva rossa
d’imbarazzo, mordicchiandosi nervosa le labbra piene.
«Gliela
porto in tintoria!» esclamò d’un fiato.
Jackson
scosse il capo, in un risolino, ogni traccia di rabbia, scomparsa.
«Mi
permetti almeno di lavargliela, signor Rathbone.» disse lei
recuperando il
vassoio su cui erano poggiati due cappuccini.
Jackson
sospirò. «Solo se mi chiami Jackson,
signorina...»
«Holly.»
sorrise flebilmente lei.
«Holly.»
ripeté, sorridendo. Ignaro delle meraviglie che il futuro
gli
riservava.
Entrai
nell’albergo, senza sfilarmi gli occhiali da sole, mantenendo
un profilo basso,
cercando di passare inosservata alla coppia che leggeva il giornale sui
divani
della hall.
Non
attesi l’ascensore, salii al terzo piano, prendendo
direttamente le scale.
Con la
mente vagai, cercando di immaginare cosa volesse dirmi Robert con tanta
urgenza, ma la mia testolina non ne ricavò assolutamente
nulla. Innervosita da
me stessa, e dalla mia limitatezza mentale, dal fatto di non possedere
una
sfera magica che mi svelasse tutti i
segreti del mondo, mi diressi lungo il corridoio, bussando poi sulla
porta
bianca, ormai stanca di dovermi vedere ogni giorni.
Mi resi
conto che il caffè, a quell’ora del pomeriggio,
mischiato
all’impazienza dovuta al “segreto oscuro”
di Robert, mi mandava fuori di testa.
Ed addio alla mia sanità mentale.
Scossi il
capo, ridendo con leggere isteria, del mio momento di pazzia e crisi
mentale.
Bussai e
due secondi dopo la porta si aprì. Tutto accadde
repentinamente, tanto
che mi ci volle qualche secondo per capire cosa stesse succedendo.
Robert mi
afferrò per un polso, trascinandomi dentro, baciandomi a
fiori di labbra e
chiudendo la porta con un piede. Poi si diresse verso il letto sul
quale era
adagiata la sua valigia e mille carte erano gettate in modo
confusionario sul
copriletto.
Guardai
quel caos, confusa e interdetta. Corrugai la fronte, prima di
avvicinarmi piano a lui e poggiargli una mano sul braccio.
«Rob… che mi sono
persa?»
«Mi
son informato sui voli. Si parte domani.» esultò,
e nella sua voce era
ricolma di felicità, sincera felicità. I suoi
occhi brillavano come Venere nel
cielo notturno. Sorrisi, involontariamente a quella vista.
«Domani?»
chiesi corrugando la fronte.
Annuì
col capo, ma un istante dopo la sua espressione cambiò e il
suo corpo si
irrigidì. «Se per te non è un
problema.»
Lo
guardai, come avesse appena detto la bestemmia più ignobile
di questo mondo,
poi un sorriso colorò il mio viso e, per me, inevitabile ed
incontrollabile
gettargli le braccia al collo e saltargli addosso, circondando la sua
vita con
gambe. Roteò su stesso, i suoi l’azzurro dei suoi
occhi fuso al verde dei miei.
«Sul
serio?» cinguettai intrecciando le mie dita ai suoi capelli
chiari e
setosi.
«Sul
serio.» confermò lui, fermandosi. Con una mano gli
carezzai il viso,
sfiorandogli con l’indice le labbra.
«Sarai la mia
scelta involontaria,
l’unico capace di
ascoltare le mie
inquisizioni più profonde… potresti
essere colui che amerò, per sempre. Forse
è un po’ esagerato, lo ammetto,
ma dona poeticità alla mia dichiarazione, non
credi?» mormorai.
Sorrise,
baciandomi il polpastrello. «La mia sciocca Kris. »
«Tua…
mi piace sentirtelo dire.»
«Mia,
mia, mia, mia, mia… mia.»
E poi mi
baciò.
*
Ebbene,
gente, eccomi qui con una cattiva – o buona, dipende dai
punti di vista- notizia: questo è
l’ultimo capitolo, prima
dell’epilogo.
Non ho molto tempo per
ringraziare tutti a modo, sono sommersa dai compiti e da
montagne di definizioni sui limiti e derivate. Perciò
ringrazio di cuore: Broken
Heart, Nessie93,
KeLsey, Xx_scrittrice_xX e doddola93,
con la promessa di rifarmi nel prossimo capitolo.
Con
immenso affetto, Panda.