Disclaimer:
i
personaggi rappresentati sono di Hidekaz Himaruya.
Wordcount: 500
Note:
scritta per
la Giornata della Memoria, perché certe cose penso non debbano essere
dimenticate.
Avrei
potuto scriverla (sarebbe stato forse più sensato o ovvio) con un pov di
Germania; ma avrei sicuramente fatto più caos che altro, credo. Inoltre, ho
preferito questo modo di analizzare un tema a dir poco delicato che va trattato
davvero con i guanti.
E
in questo senso ho collegato istintivamente Polonia, nazione che ospitava e
ospita appunto il campo di concentramento di Auschwitz.
Infine,
il titolo è “senso di colpa” in polacco (o così dice google).
________________________________________________________________________________________________
Alcuni
dicevano che se andavi ad Auschwitz, si sentiva qualcosa nell’aria.
Forse
pensavano che fosse solo qualcosa dettato a livello di subconscio, ma nessuno
aveva il coraggio di dirlo.
C’era
un giorno, lo stesso di ogni singolo anno, in cui Lituania non vedeva mai
Feliks.
Polonia
stava sempre male, chiuso in una stanza nel completo silenzio e nella penombra;
nessuno di quegli atteggiamenti era da lui, ma Toris aveva sempre rispettato in
silenzio la scelta del biondo.
Il
malore di Feliks era sempre qualcosa di fisico e psicologico insieme.
Casa
sua, innevata e preda spesso del vento freddo, sembrava da fuori un paese
fatato; un paese con una spolverata di zucchero a velo che aveva sotterrato
l’infanzia di mille e mille bambini.
Polonia
quel giorno d’inverno taceva tra le mura di casa, che non si scaldava mai e
rimaneva gelida.
Sentiva
le grida alzarsi nel cielo, e spingere contro i vetri delle finestre chiuse:
laceravano l’aria senza pietà, terribili e strozzate e disperate.
Aveva
provato a combatterle, Polonia.
Aveva
aperto le finestre, e gridato contro le urla che gli perforavano i timpani con
violenza, sbattendo nella sua testa da un parte all’altra; non erano mai
cessate.
Guardando
fuori, aspettandosi scioccamente una folla rabbiosa, non aveva trovato nulla;
solo la neve che cadeva, e il vento che entrando gelava la sua stanza.
La
prima volta era stata terribile.
Prendendo
fiato per urlare di smetterla a persone che non erano lì e che al tempo stesso
non se ne erano mai andate, Polonia aveva inspirato aria, ed era stato
orribile.
C’era
stato odore di sangue, di alcool, di carne in decomposizione e terra rivoltata
più volte; c’era stato odore di insetti sui corpi, di lacrime miste al fango.
C’era
stata puzza di gas fino a far soffocare, di cenere e letame e fuoco.
C’era
stato odore di morte.
E
le immagini di tutte quelle cose solo sentite e solo dette e sempre reputate
una realtà troppo lontana lo avevano investito senza la minima pietà: la
disperazione dell’abbandono, di madri e padri separati dai figli, di fratelli
costretti a seppellire altri fratelli ancora vivi, un fucile puntato alla testa
come migliore opzione per morire.
Camici
bianchi e arnesi da lavoro, e l’estrazione di organi per pura follia – perché
non era scienza, quella.
Terrore
negli occhi scuri che fissavano una porta, le docce impietosamente mascherate
come l’innocuo oggetto che potevano sembrare – ma da lì non sarebbe uscito
altro che morte, morte e ancora morte, con la sensazione della vita che non
arrivava più dentro di te e bocche verso l’alto in cerca dell’aria che non
arrivava più.
E
Polonia si era ritrovato a terra, boccheggiante anche lui e la sensazione di
dover tirare tutto fuori in qualche modo; e così anno dopo anno rimaneva lì, ad
ascoltare in silenzio le urla ritrovandosi ancora una volta ad annusare quegli
odori terribili.
Espiazione,
l’aveva chiamata una volta; perché lì dov’era lui, c’era stato il campo del
terrore.
Dicono
che se vai ad Auschwitz, si sente qualcosa nell’aria.
Polonia
lo ha chiamato senso di colpa l’unica volta che ne ha parlato a Liet.
Il
mondo lo chiama orrore.