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Autore: Shichan    27/01/2010    9 recensioni
Alcuni dicevano che se andavi ad Auschwitz, si sentiva qualcosa nell’aria.
Forse pensavano che fosse solo qualcosa dettato a livello di subconscio, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo.
C’era un giorno, lo stesso di ogni singolo anno, in cui Lituania non vedeva mai Feliks.
Polonia stava sempre male, chiuso in una stanza nel completo silenzio e nella penombra.

[Scritta per la Giornata della Memoria]
Genere: Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Polonia/Feliks Łukasiewicz
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Disclaimer: i personaggi rappresentati sono di Hidekaz Himaruya

Disclaimer: i personaggi rappresentati sono di Hidekaz Himaruya.

Wordcount: 500

Note: scritta per la Giornata della Memoria, perché certe cose penso non debbano essere dimenticate.

Avrei potuto scriverla (sarebbe stato forse più sensato o ovvio) con un pov di Germania; ma avrei sicuramente fatto più caos che altro, credo. Inoltre, ho preferito questo modo di analizzare un tema a dir poco delicato che va trattato davvero con i guanti.

E in questo senso ho collegato istintivamente Polonia, nazione che ospitava e ospita appunto il campo di concentramento di Auschwitz.

Infine, il titolo è “senso di colpa” in polacco (o così dice google).

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Alcuni dicevano che se andavi ad Auschwitz, si sentiva qualcosa nell’aria.

Forse pensavano che fosse solo qualcosa dettato a livello di subconscio, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo.

C’era un giorno, lo stesso di ogni singolo anno, in cui Lituania non vedeva mai Feliks.

Polonia stava sempre male, chiuso in una stanza nel completo silenzio e nella penombra; nessuno di quegli atteggiamenti era da lui, ma Toris aveva sempre rispettato in silenzio la scelta del biondo.

Il malore di Feliks era sempre qualcosa di fisico e psicologico insieme.

Casa sua, innevata e preda spesso del vento freddo, sembrava da fuori un paese fatato; un paese con una spolverata di zucchero a velo che aveva sotterrato l’infanzia di mille e mille bambini.

Polonia quel giorno d’inverno taceva tra le mura di casa, che non si scaldava mai e rimaneva gelida.

Sentiva le grida alzarsi nel cielo, e spingere contro i vetri delle finestre chiuse: laceravano l’aria senza pietà, terribili e strozzate e disperate.

Aveva provato a combatterle, Polonia.

Aveva aperto le finestre, e gridato contro le urla che gli perforavano i timpani con violenza, sbattendo nella sua testa da un parte all’altra; non erano mai cessate.

Guardando fuori, aspettandosi scioccamente una folla rabbiosa, non aveva trovato nulla; solo la neve che cadeva, e il vento che entrando gelava la sua stanza.

La prima volta era stata terribile.

Prendendo fiato per urlare di smetterla a persone che non erano lì e che al tempo stesso non se ne erano mai andate, Polonia aveva inspirato aria, ed era stato orribile.

C’era stato odore di sangue, di alcool, di carne in decomposizione e terra rivoltata più volte; c’era stato odore di insetti sui corpi, di lacrime miste al fango.

C’era stata puzza di gas fino a far soffocare, di cenere e letame e fuoco.

C’era stato odore di morte.

E le immagini di tutte quelle cose solo sentite e solo dette e sempre reputate una realtà troppo lontana lo avevano investito senza la minima pietà: la disperazione dell’abbandono, di madri e padri separati dai figli, di fratelli costretti a seppellire altri fratelli ancora vivi, un fucile puntato alla testa come migliore opzione per morire.

Camici bianchi e arnesi da lavoro, e l’estrazione di organi per pura follia – perché non era scienza, quella.

Terrore negli occhi scuri che fissavano una porta, le docce impietosamente mascherate come l’innocuo oggetto che potevano sembrare – ma da lì non sarebbe uscito altro che morte, morte e ancora morte, con la sensazione della vita che non arrivava più dentro di te e bocche verso l’alto in cerca dell’aria che non arrivava più.

E Polonia si era ritrovato a terra, boccheggiante anche lui e la sensazione di dover tirare tutto fuori in qualche modo; e così anno dopo anno rimaneva lì, ad ascoltare in silenzio le urla ritrovandosi ancora una volta ad annusare quegli odori terribili.

Espiazione, l’aveva chiamata una volta; perché lì dov’era lui, c’era stato il campo del terrore.

 

Dicono che se vai ad Auschwitz, si sente qualcosa nell’aria.

Polonia lo ha chiamato senso di colpa l’unica volta che ne ha parlato a Liet.

Il mondo lo chiama orrore.

 

   
 
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