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Autore: miseichan    31/01/2010    6 recensioni
Sono passati tre anni, ma Marco non è ancora riuscito a dimenticare il tradimento di Chiara, nemmeno dopo che lei è morta in un incidente d'auto. Così, quando decide di andare a trovarla al cimitero, ci va sperando di poter chiudere definitivamente un capitolo della propria vita. Non sa che li, troverà qualcosa ad aspettarlo, e il nuovo inizio in cui sperava, è qualcosa di totalmente diverso rispetto quello che poteva anche solo lontanamente immaginarsi ... [ Storia scritta a quattro mani da Miseichan e Mothintheshell ]
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Lacrime di cristallo'
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Nota introduttiva:

Salve a tutti. 

Questa storia nasce dal desiderio comune di due aspiranti autrici di voler scrivere qualcosa assieme; da quella che inizialmente doveva essere un oneshot di Miseichan, è nato "Il richiamo degli angeli". Sostanzialmente, nessuna delle due è capace a scrivere oneshot xD Entrambe siamo fan delle storie lunghe e articolate. Per questo, una volta scoccata la scintilla, è stato facile ritrovarsi a parlare di Marco e della sua vita. Eravamo con lui, mentre guidava la sua moto e ci conduceva all'inizio della storia. Speriamo che questo racconto possa piacervi, e che possa lasciarvi qualcosa ogni volta che avrete finito di leggere. Noi, da autrici, ce la mettiamo tutta :) A presto! 

 Miseichan e Mothintheshell

 

 1. Ritornare

 

Marco scalò le marce, preparandosi a rallentare.

Quanto tempo era, che stava viaggiando?

Un’ora, due? Non lo sapeva. Aveva perso totalmente la cognizione del tempo da quando era salito sulla moto. Una volta gli succedeva spesso, di dimenticarsi del tempo, ma succedeva sicuramente per motivi meno importanti e più futili. Minuti trascurabili, spensierati, che poteva permettersi di perdere. Era così giovane all’epoca, dopotutto. Se ci ripensava, tutto gli sembrava lontano secoli, come se fosse succeduto una vita prima, a qualcun altro. Non a lui. Non a quel Marco che sulla sua bellissima Harley Davidson, stava finalmente rallentando con quel senso d’angoscia a comprimergli il cuore. Non più adrenalina, ebbrezza, amore per le cose spericolate. Ma semplicemente angoscia e paura, per aver corso a 180km/h incontro una preannunciata verità.

Non gli ci volle molto a trovar parcheggio. Non era mai stato difficile, da quella parti.

Sorrise, ricordandosi di come anche in pieno inverno, la gente preferisse le biciclette. Era il bello delle piccole realtà paesane, di quegli insignificanti ritagli di mondo ancora inebriati delle proprie tradizioni. Quando tolse il casco, per un attimo poté sentire il caratteristico profumo di sale che impregnava l’aria. Quante volte, aprendo la finestra della sua stanza la mattina, lo aveva sentito, mischiato al profumo del pane appena sfornato, mentre le strade si riempivano di rumori.

C’era Vera la fioraia che tirava su le saracinesche e cominciava a strillare. C’era Giordano il salumiere che canticchiava le canzoni d’opera. E poi c’era Ismael, il giovane aiutante straniero del ferramenta, che spazzava il marciapiede.

Tutti lì, come in un quadro dipinto di luce dorata, e adesso bagnato di malinconia. Tutti quei personaggi appartenevano alla sua vita passata, al Marco che era.

Un po’ come Lei.

Sospirò, varcando gli spessi cancelli di ferro battuto. Era quasi buio, aveva poco tempo a disposizione, ma che importava in fondo? Voleva solo vederla, anche solo per un istante. Anche solo per dirle quello che non era mai riuscito a dire prima.

Lei.

Lo faceva pensare un po’ a quella canzone di Masini, Bella Stronza. Gli era capitato di sentirla più volte, dopo la fine di tutto. Per caso alla radio, mentre era imbottigliato nel traffico. Cantata in qualche karaoke, mentre tornava a casa la sera. E tutte le volte pensava a lei, che era davvero una bella stronza. E lo faceva sorridere il fatto che lui e Masini avessero lo stesso nome.

Sospirò. Quante volte l’aveva baciata, abbracciata, quante volte le aveva passato una mano tra i capelli, l’aveva guardata dormire, presa per mano, quante volte avevano fatto l’amore. A casa di lei, a casa di lui, alla casa al mare, sotto le stelle, in un campo di grano. Nei posti più strani, più impensabili, in quelli che vedi nei film e pensi “ma no, sono posti di nessuno!”. E invece erano stati i loro posti. Frammenti di mondo che coi loro animi girovaghi avevano dissertato in tutte le loro sfaccettature. E poi c’erano state le sere con la chitarra, i suoi vestiti chiari e le sue trecce, Alba Chiara, le feste paesane, i fuochi d’artificio, i progetti per il futuro. E pensare alla casa, ai figli, al cane. Quando aveva sentito gli Zero Assoluto cantare Per Dimenticare aveva pensato che evidentemente, nel mondo della musica qualcuno doveva conoscere la sua storia. O forse, era semplicemente il fatto che si rifletteva in ogni canzone perché malgrado tutto non era ancora riuscito a dimenticarla. Erano passati tre anni, e ancora non era stato capace di gettarsi il passato alle spalle. Continuava a domandarsi perché.

Perché quella sera, rientrando a casa, l’avesse trovata a letto con suo fratello. L’aveva guardato, colpevole. Li aveva visti chiedere scusa, implorare perdono, eppure non era stato capace in nessun modo di reagire. Se ne era andato in silenzio, lui e quella strana sensazione di spaccatura nel petto. E non era più tornato. Non aveva più saputo nulla, fino a tre mesi prima.

Ed eccolo li.

Fermo immobile di fronte ai suoi occhi che sorridevano ancora. Attraverso il tempo, attraverso una foto ingiallita che lui le aveva scattato – questo particolare lo fece sorridere amaramente.

Era una tomba proprio come sarebbe piaciuta a lei. Di marmo bianco, semplice, con la statua di un angioletto a vegliare tutt’attorno, che reggeva una candelina tra le dita.

Angeli … le piacevano, gli angeli. Diceva che ogni volta che suonava un campanellino, uno si avvicinasse a loro. Aveva continuato a pensarci, tutte le volte che sentiva lo scacciapensieri appeso al negozio della libreria dove lavorava part time suonare.

E negli ultimi mesi, si era chiesto se non fosse proprio l’angelo di lei, ad essere venuto a trovarlo annientando le distanze.

Poi quello scampanellio aveva iniziato a tormentarlo, lacerandolo internamente, in maniera quasi assurda. Perché ogni volta che lo sentiva pensava a lei, rendendo ogni momento doloroso e pesante; se davvero era il suo angelo, perché lo opprimeva a quel modo, perché voleva vederlo soffrire? Lui in fin dei conti non aveva colpe, non era giusto rendergli l’esistenza impossibile più di quanto già non fosse, portandolo a essere distratto, quasi incompetente nel proprio lavoro, rovinandogli quello straccio di vita che era riuscito appena a ricostruirsi.

Per un po’ aveva provato ad ignorarlo, a non dar ascolto a quel maledetto scampanellio, a non dar importanza ai suoi sentimenti, a ciò che provava, ma non c’era stato verso: quanto a lungo ci si può controllare, trattenendosi dal fare ciò che si sa di dover fare? Non tanto a lungo aveva scoperto.

Ed ora eccolo lì. Come volevasi dimostrare. Che fissava l’immagine sbiadita di lei.

Marco si passò una mano sul mento, accarezzando quel po’ di barba che gli era cresciuta, quasi inesistente, che si sentiva solo sotto le dita: ispida e pungente. Quel gesto riuscì come a riportalo alla realtà, a tirarlo fuori dal vortice di ricordi in cui stava per cadere ancora una volta.

Fu quella barbetta a fargli ricordare in che anno fosse, dove fosse, e in particolar modo a dimostrargli come non fosse più il Marco di una volta: non avrebbe dovuto essere lì, davanti a lei; ancora una volta in quel paese da cui era fuggito, in cui si era ripromesso di non tornare più… quel paese che aveva amato ed odiato, quello della sua infanzia, quello del suo primo amore, e anche quello del suo vero amore. Lo stesso in cui aveva vissuto le esperienze più belle, quelle che non avrebbe mai dimenticato, così come non avrebbe dimenticato quelle che ancora gli bruciavano dentro, dilaniandogli il petto con fiamme che sembravano impossibili da spegnere.

Eppure lui le promesse non riusciva mai a mantenerle, neppure a sé stesso: era tornato.

“Và dove ti porta il cuore”

Lo aveva fatto, aveva seguito il consiglio di quella frase paurosamente smielata, che gli ricordava quelle dei baci perugina, le stesse che non riusciva a sopportare: troppo false per i suoi gusti, vuote, incapaci di trasmettere reali sentimenti;

Ma aveva fatto bene a tornare? Se lo stava ancora chiedendo mentre con uno sforzo di volontà distoglieva lo sguardo dagli occhi di chi non c’era più. No, molto probabilmente aveva sbagliato, come sempre: a che pro era venuto? Era stata un’azione senza senso, del tutto inappropriata.

La cosa giusta ora sarebbe stata fare immediatamente dietrofront e uscire da quel posto, senza fermarsi, senza guardarsi indietro… senza darsi modo né tempo di pensare. Marco si girò, dando le spalle alla lapide, quando iniziò a soffiare il vento.

Un vento soffocato, una brezza, quasi timida, che gli scompigliò i capelli e gli fece sventolare la giacca. Chiuse gli occhi, come per assorbirla in pieno, concentrandosi sul profumo di salsedine che ora gli arrivava ancora più chiaro, investendolo in pieno; e fu allora che successe: sentì ancora lo scampanellio. Non riaprì gli occhi, conscio di essere stato l’artefice di quell’illusione, responsabile inconsapevole del giochetto che la mente gli stava facendo. Perché era tanto difficile? Perché anche solo l’idea di rimontare in sella alla moto e scomparire nella notte, fingendo che niente quella sera fosse accaduto, gli sembrava totalmente assurda e scorretta, quasi fosse l’ultima cosa da fare, la più lontana in assoluto … girò di nuovo su se stesso e tornò a fissare la foto, quella che lui aveva scattato quando lei non se lo aspettava, riuscendo così ad immortalarla in una posa magnifica: con un sorriso appena accennato sulle labbra, gli occhi fissi in quelli di chiunque osservasse l’immagine, come lo erano stati i loro nell’istante in cui lei doveva ancora realizzare cosa stesse succedendo.

Nessuno tranne lui sarebbe mai andato oltre quell’istante in cui aveva scattato, nessuno avrebbe mai capito come potesse essere doloroso ricordare, anche solo per qualche secondo, a causa di una foto vecchia e consunta che non avrebbe mai reso veramente appieno la bellezza di lei. Quello splendore unico nella sua semplicità, ancora perfettamente vivo nei pensieri di Marco, così come lo era ogni cosa di lei: dal suo modo di giocare con i capelli, attorcigliandoseli attorno ad un dito nei momento di nervosismo, alla  passione per la musica, per le fragole e al suo terrore del sangue, per finire con la sua risata: la risata di cui si era innamorato.

Una risata calda, dolce, morbida, ed al tempo stesso cristallina. Una risata contagiosa, che non si poteva non imitare, che ti trasmetteva gioia, riscaldandoti il cuore, facendotelo battere ogni volta come fosse ancora la prima.

La risata di lei.

Quella stessa di sempre, che non riusciva a dimenticare e che di tanto in tanto gli sembrava ancora di sentire, proprio come stava succedendo in quel momento, mentre non riusciva a smettere di fissare lei.

Ma ora come ora sapeva quanto fosse solo un’illusione. Capiva che era impossibile, e che quello non era altro che un brutto scherzo. Perché per quanto male potesse fare accettarla, la verità era lì davanti ai suoi occhi, dura e fredda nella sua realtà immutabile: non avrebbe più potuto sentire quella risata, perché chi rideva a quel modo non c’era più.

Eppure riusciva ancora a sentirla chiaramente, quasi fosse il vento a portargliela.

La sentì ancora, poi basta: per alcuni minuti vi fu solo il silenzio. Un silenzio pesante, tangibile, che gravava su di lui, riuscendo a fargli sembrare di star quasi soffocando.

Marco allora concentrò per un ultima volta tutta la sua attenzione su quella foto, sempre la stessa, cercando un modo per dirle addio. Sperando di riuscirci per davvero, almeno quest’ ultima volta: di riuscire a voltare le spalle e andare via, senza sentire il bisogno impellente  e perentorio di girarsi per guardarla ancora,  un’ ultima volta… che non sarebbe mai stata davvero ultima, e lui lo sapeva.

Ma non poteva farci niente.

Quasi non si accorse di starla sentendo ancora, di come fosse vivida e vicina, paurosamente reale questa volta. Quella risata. La stessa che non avrebbe più sentito… o meglio che credeva non avrebbe più avuto occasione di sentire.

Si sbagliava.

Non riuscì mai a pentirsi un solo istante di essersi sbagliato anni prima.

Mai errore gli fu più caro e gradito di quello.

La risata che sentiva infatti, era vivida, effervescente, chiara, intensa… perfetta, così che lui non sarebbe mai riuscito a riprodurla, tantomeno nei suoi ricordi.

Come poteva essere possibile?

Marco indietreggiò involontariamente, spaventato da quella situazione inverosimile: non poteva essere vero. Lei non c’era più e con lei era morta anche la sua risata…

Eppure riusciva ancora a sentirla.

Fu un caso, o forse il destino, ma in quel momento successe una cosa inaspettata: in Marco tornò improvvisamente a prevalere il vecchio sé stesso, quello che credeva ormai scomparso. Il Marco coraggioso e impetuoso, quello che mai si sarebbe tirato indietro, scappando in un frangente del genere, comportandosi da codardo.

Il Marco che si fermò, saldo sulle gambe, a pochi metri dalla lapide di lei.

Lo stesso che chiuse gli occhi, non per paura, ma per ascoltare meglio il vento, il vento che gli portava quella risata.

La sentiva sempre più vicina, sempre più accostata a lui; era così reale, così vera che sembrava quasi che Lei fosse esattamente li, in piedi vicino a lui. Poteva quasi percepirne la presenza.

Possiamo quindi immaginare quale scatto fece, quando si sentì tirare la manica del giacchetto. Aprì gli occhi, spostandosi rapidamente sulla sinistra, e investì un vaso di ortensie posate sulla tomba del vicino.

“ Ma che … “ cominciò a dire, quando si accorse che la fonte del suo terrore in realtà si trovava ancora li in piedi, sorridente, e lo guardava con occhi brillanti.

Una bambina. Una bambina per inciso parecchio piccola, di massimo tre anni, coi boccoli scuri e gli occhi grandi, con un buffo vestitino con la gonna larga e un paio di scarpine rosse. Sembrava fuori luogo, in quel cimitero. Ma la cosa che sconvolgeva Marco, sostanzialmente, era l’incredibile somiglianza che aveva con Lei.

Non solo nella risata, che ormai aveva appurato essere la sua, ma anche nei tratti del viso, nella piccola fossetta sulla guancia destra, nelle sopracciglia arcuate. Si sentì stringere il cuore, quando vide che, malgrado fosse piccolissima, aveva persino la stessa espressione bonaria, fiduciosa tipica di Lei. Si avvicinò, accostandosi alla bimba; lei non si scansò di un passo ma anzi, continuò a sorridere. Lui, invece, si piegò sulle ginocchia per far si di trovarsi alla sua stessa altezza, in modo di poter parlare meglio.

“ Ciao. ” la salutò, sforzandosi di sorridere.

ao ” rispose lei, dondolando le spalle, e ficcandosi le dita in bocca per nascondere il sorriso.

“ Come ti chiami? ” le domandò lui, gentile.

Ia! ” certo, non era un grande indizio. C’erano almeno dieci nomi che finivano con Ia, ma Marco sorrise lo stesso.

“ Bene … e sei qui da sola?

Onna! ” rispose quella. Marco lo prese come un no. Cominciò a guardarsi intorno, cercando di individuare se ci fossero altre persone oltre a lui, nella piccola area ristretta tra i cespugli. Ma non c’era nessuno. Com’era possibile, perdersi una bambina in un cimitero. Quella tirò Marco per la manica, e gli indicò la tomba vicino alla quale si era fermato il ragazzo.

“ Ara! ” disse, agitando la manina verso la foto. A quel punto, il ragazzo spalancò gli occhi. Che fosse una coincidenza, anche quella?

“ Chiara? Conoscevi Chiara? ” disse, indicando alla piccola la foto. Quella annuì, continuando a dondolare sui propri piedini. Marco stava per chiederle qualcos’altro, quando all’improvviso sentì una voce preoccupata dietro di se.

“ Giulia, sei qui!

La bambina sgusciò via, correndo incontro alla voce. L’uomo, invece, si rialzò, pulendo i jeans con due colpi di mano, per poi voltarsi.

Per la seconda volta in un giorno rimase interdetto. La donna che teneva Giulia tra le braccia aveva cinquantasei anni, i capelli scuri striati di bianco, e qualche ruga in più di quelle che si ricordava, attorno alle labbra e agli occhi. Era ancora magra, e aveva conservato quella sua morbidezza sui fianchi e attorno al seno, che contribuivano a rendere la sua figura ancora più dolce. Lo guardava stupita, con una faccia che conosceva bene; era la stessa faccia che aveva il giorno in cui si era risvegliato in un letto d’ospedale, dopo esser stato operato d’urgenza per una meningite. Addolorata, stanca, con le lacrime agli occhi, eppure con un fondo di selvaggia gioia ruggente. In più, c’era solo un accenno di sorpresa, piuttosto comprensibile.

“ Marco, che ci fai qui? ” disse, con voce incrinata.

“ Ciao, mamma. ” rispose lui, evitando di rispondere.

 

 

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