Nota introduttiva:
Salve a tutti.
Questa storia nasce dal desiderio comune di due
aspiranti autrici di voler scrivere qualcosa assieme; da quella che
inizialmente doveva essere un oneshot di Miseichan, è
nato "Il richiamo degli angeli". Sostanzialmente, nessuna delle due è
capace a scrivere oneshot xD
Entrambe siamo fan delle storie lunghe e articolate. Per questo, una volta
scoccata la scintilla, è stato facile ritrovarsi a parlare di Marco e della sua
vita. Eravamo con lui, mentre guidava la sua moto e ci conduceva all'inizio
della storia. Speriamo che questo racconto possa piacervi, e che possa
lasciarvi qualcosa ogni volta che avrete finito di leggere. Noi, da autrici, ce
la mettiamo tutta :) A presto!
Miseichan e Mothintheshell
1. Ritornare
Marco
scalò le marce, preparandosi a rallentare.
Quanto
tempo era, che stava viaggiando?
Un’ora,
due? Non lo sapeva. Aveva perso totalmente la cognizione del tempo da quando
era salito sulla moto. Una volta gli succedeva spesso, di dimenticarsi del
tempo, ma succedeva sicuramente per motivi meno importanti e più futili. Minuti
trascurabili, spensierati, che poteva permettersi di perdere. Era così giovane
all’epoca, dopotutto. Se ci ripensava, tutto gli sembrava lontano secoli, come se fosse succeduto una vita prima, a
qualcun altro. Non a lui. Non a quel Marco che sulla sua bellissima Harley
Davidson, stava finalmente rallentando con quel senso d’angoscia a
comprimergli il cuore. Non più adrenalina, ebbrezza, amore per le cose
spericolate. Ma semplicemente angoscia e paura, per aver corso a 180km/h incontro una preannunciata verità.
Non gli
ci volle molto a trovar parcheggio. Non era mai stato difficile, da quella parti.
Sorrise,
ricordandosi di come anche in pieno inverno, la gente preferisse le biciclette.
Era il bello delle piccole realtà paesane, di quegli insignificanti ritagli di
mondo ancora inebriati delle proprie tradizioni. Quando tolse il casco, per un
attimo poté sentire il caratteristico profumo di sale che impregnava
l’aria. Quante volte, aprendo la finestra della sua stanza la mattina, lo
aveva sentito, mischiato al profumo del pane appena sfornato, mentre le strade
si riempivano di rumori.
C’era
Vera la fioraia che tirava su le saracinesche e cominciava a strillare.
C’era Giordano il salumiere che canticchiava le canzoni d’opera. E
poi c’era Ismael, il giovane aiutante straniero
del ferramenta, che spazzava il marciapiede.
Tutti
lì, come in un quadro dipinto di luce dorata, e adesso bagnato di malinconia.
Tutti quei personaggi appartenevano alla sua vita passata, al Marco che era.
Un
po’ come Lei.
Sospirò,
varcando gli spessi cancelli di ferro battuto. Era quasi buio, aveva poco tempo
a disposizione, ma che importava in fondo? Voleva solo vederla, anche solo per
un istante. Anche solo per dirle quello che non era mai riuscito a dire prima.
Lei.
Lo
faceva pensare un po’ a quella canzone di Masini, Bella Stronza.
Gli era capitato di sentirla più volte, dopo la fine di tutto. Per caso alla
radio, mentre era imbottigliato nel traffico. Cantata in qualche karaoke,
mentre tornava a casa la sera. E tutte le volte pensava a lei, che era davvero
una bella stronza. E lo faceva sorridere il fatto che lui e Masini avessero lo
stesso nome.
Sospirò.
Quante volte l’aveva baciata, abbracciata, quante volte le aveva passato
una mano tra i capelli, l’aveva guardata dormire, presa per mano, quante
volte avevano fatto l’amore. A casa di lei, a casa di lui, alla casa al
mare, sotto le stelle, in un campo di grano. Nei posti più strani, più
impensabili, in quelli che vedi nei film e pensi “ma no, sono posti di
nessuno!”. E invece erano stati i loro posti. Frammenti di mondo che coi
loro animi girovaghi avevano dissertato in tutte le loro sfaccettature. E poi
c’erano state le sere con la chitarra, i suoi vestiti chiari e le sue
trecce, Alba Chiara, le feste paesane, i fuochi d’artificio, i
progetti per il futuro. E pensare alla casa, ai figli, al cane. Quando aveva
sentito gli Zero Assoluto cantare Per Dimenticare aveva pensato che
evidentemente, nel mondo della musica qualcuno doveva conoscere la sua storia.
O forse, era semplicemente il fatto che si rifletteva in ogni canzone perché
malgrado tutto non era ancora riuscito a dimenticarla. Erano passati tre anni,
e ancora non era stato capace di gettarsi il passato alle spalle. Continuava a
domandarsi perché.
Perché
quella sera, rientrando a casa, l’avesse trovata a letto con suo
fratello. L’aveva guardato, colpevole. Li aveva
visti chiedere scusa, implorare perdono, eppure non era stato capace in nessun
modo di reagire. Se ne era andato in silenzio, lui e quella strana sensazione
di spaccatura nel petto. E non era più tornato. Non aveva più saputo nulla,
fino a tre mesi prima.
Ed
eccolo li.
Fermo
immobile di fronte ai suoi occhi che sorridevano ancora. Attraverso il tempo, attraverso
una foto ingiallita che lui le aveva scattato – questo particolare lo
fece sorridere amaramente.
Era una
tomba proprio come sarebbe piaciuta a lei. Di marmo bianco, semplice, con la
statua di un angioletto a vegliare tutt’attorno, che reggeva una
candelina tra le dita.
Angeli
… le piacevano, gli angeli. Diceva che ogni volta che suonava un
campanellino, uno si avvicinasse a loro. Aveva continuato a pensarci, tutte le
volte che sentiva lo scacciapensieri appeso al negozio della libreria dove
lavorava part time suonare.
E negli
ultimi mesi, si era chiesto se non fosse proprio l’angelo di lei, ad
essere venuto a trovarlo annientando le distanze.
Poi
quello scampanellio aveva iniziato a tormentarlo, lacerandolo internamente, in
maniera quasi assurda. Perché ogni volta che lo sentiva pensava a lei, rendendo
ogni momento doloroso e pesante; se davvero era il suo angelo, perché lo
opprimeva a quel modo, perché voleva vederlo soffrire? Lui in fin dei conti non
aveva colpe, non era giusto rendergli l’esistenza impossibile più di
quanto già non fosse, portandolo a essere distratto, quasi incompetente nel
proprio lavoro, rovinandogli quello straccio di vita che era riuscito appena a
ricostruirsi.
Per un
po’ aveva provato ad ignorarlo, a non dar ascolto a quel maledetto
scampanellio, a non dar importanza ai suoi sentimenti, a ciò che provava, ma
non c’era stato verso: quanto a lungo ci si può controllare,
trattenendosi dal fare ciò che si sa di dover fare? Non tanto a lungo aveva
scoperto.
Ed ora
eccolo lì. Come volevasi dimostrare. Che fissava l’immagine sbiadita di
lei.
Marco
si passò una mano sul mento, accarezzando quel po’ di barba che gli era
cresciuta, quasi inesistente, che si sentiva solo sotto le dita: ispida e
pungente. Quel gesto riuscì come a riportalo alla
realtà, a tirarlo fuori dal vortice di ricordi in cui stava per cadere ancora
una volta.
Fu
quella barbetta a fargli ricordare in che anno fosse, dove fosse, e in
particolar modo a dimostrargli come non fosse più il Marco di una volta: non
avrebbe dovuto essere lì, davanti a lei; ancora una volta in quel paese da cui
era fuggito, in cui si era ripromesso di non tornare più… quel paese che
aveva amato ed odiato, quello della sua infanzia, quello del suo primo amore, e
anche quello del suo vero amore. Lo stesso in cui aveva vissuto le esperienze
più belle, quelle che non avrebbe mai dimenticato, così come non avrebbe
dimenticato quelle che ancora gli bruciavano dentro, dilaniandogli il petto con
fiamme che sembravano impossibili da spegnere.
Eppure
lui le promesse non riusciva mai a mantenerle, neppure a sé stesso: era
tornato.
“Và
dove ti porta il cuore”
Lo
aveva fatto, aveva seguito il consiglio di quella frase paurosamente smielata,
che gli ricordava quelle dei baci perugina, le stesse
che non riusciva a sopportare: troppo false per i suoi gusti, vuote, incapaci
di trasmettere reali sentimenti;
Ma
aveva fatto bene a tornare? Se lo stava ancora chiedendo mentre con uno sforzo
di volontà distoglieva lo sguardo dagli occhi di chi non c’era più. No,
molto probabilmente aveva sbagliato, come sempre: a che pro era venuto? Era
stata un’azione senza senso, del tutto inappropriata.
La cosa
giusta ora sarebbe stata fare immediatamente dietrofront e uscire da quel
posto, senza fermarsi, senza guardarsi indietro… senza darsi modo né
tempo di pensare. Marco si girò, dando le spalle alla lapide, quando iniziò a
soffiare il vento.
Un
vento soffocato, una brezza, quasi timida, che gli scompigliò i capelli e gli
fece sventolare la giacca. Chiuse gli occhi, come per assorbirla in pieno,
concentrandosi sul profumo di salsedine che ora gli arrivava ancora più chiaro,
investendolo in pieno; e fu allora che successe: sentì ancora lo scampanellio.
Non riaprì gli occhi, conscio di essere stato l’artefice di
quell’illusione, responsabile inconsapevole del giochetto che la mente
gli stava facendo. Perché era tanto difficile? Perché anche solo l’idea
di rimontare in sella alla moto e scomparire nella notte, fingendo che niente
quella sera fosse accaduto, gli sembrava totalmente assurda e scorretta, quasi
fosse l’ultima cosa da fare, la più lontana in assoluto … girò di
nuovo su se stesso e tornò a fissare la foto, quella che lui aveva scattato
quando lei non se lo aspettava, riuscendo così ad immortalarla in una posa
magnifica: con un sorriso appena accennato sulle labbra, gli occhi fissi in
quelli di chiunque osservasse l’immagine, come lo erano stati i loro
nell’istante in cui lei doveva ancora realizzare cosa stesse succedendo.
Nessuno
tranne lui sarebbe mai andato oltre quell’istante in cui aveva scattato,
nessuno avrebbe mai capito come potesse essere doloroso ricordare, anche solo
per qualche secondo, a causa di una foto vecchia e consunta che non avrebbe mai
reso veramente appieno la bellezza di lei. Quello splendore unico nella sua
semplicità, ancora perfettamente vivo nei pensieri di
Marco, così come lo era ogni cosa di lei: dal suo modo di giocare con i
capelli, attorcigliandoseli attorno ad un dito nei momento di nervosismo,
alla passione per la musica, per le fragole e al suo terrore del sangue,
per finire con la sua risata: la risata di cui si era innamorato.
Una
risata calda, dolce, morbida, ed al tempo stesso cristallina. Una risata
contagiosa, che non si poteva non imitare, che ti trasmetteva gioia,
riscaldandoti il cuore, facendotelo battere ogni volta come fosse ancora la
prima.
La
risata di lei.
Quella
stessa di sempre, che non riusciva a dimenticare e che di tanto in tanto gli
sembrava ancora di sentire, proprio come stava succedendo in quel momento,
mentre non riusciva a smettere di fissare lei.
Ma ora
come ora sapeva quanto fosse solo un’illusione. Capiva che era
impossibile, e che quello non era altro che un brutto
scherzo. Perché per quanto male potesse fare accettarla, la verità era lì
davanti ai suoi occhi, dura e fredda nella sua realtà immutabile: non avrebbe
più potuto sentire quella risata, perché chi rideva a quel modo non c’era
più.
Eppure
riusciva ancora a sentirla chiaramente, quasi fosse il vento a portargliela.
La sentì
ancora, poi basta: per alcuni minuti vi fu solo il
silenzio. Un silenzio pesante, tangibile, che gravava su di lui, riuscendo a
fargli sembrare di star quasi soffocando.
Marco
allora concentrò per un ultima volta tutta la sua
attenzione su quella foto, sempre la stessa, cercando un modo per dirle addio.
Sperando di riuscirci per davvero, almeno quest’ ultima
volta: di riuscire a voltare le spalle e andare via, senza sentire il bisogno
impellente e perentorio di girarsi per guardarla ancora, un’
ultima volta… che non sarebbe mai stata davvero ultima, e lui lo sapeva.
Ma non
poteva farci niente.
Quasi
non si accorse di starla sentendo ancora, di come fosse vivida e vicina,
paurosamente reale questa volta. Quella risata. La stessa che non avrebbe più
sentito… o meglio che credeva non avrebbe più avuto occasione di sentire.
Si
sbagliava.
Non
riuscì mai a pentirsi un solo istante di essersi sbagliato anni prima.
Mai
errore gli fu più caro e gradito di quello.
La
risata che sentiva infatti, era vivida, effervescente,
chiara, intensa… perfetta, così che lui non sarebbe mai riuscito a
riprodurla, tantomeno nei suoi ricordi.
Come
poteva essere possibile?
Marco
indietreggiò involontariamente, spaventato da quella situazione inverosimile:
non poteva essere vero. Lei non c’era più e con lei era morta anche la
sua risata…
Eppure
riusciva ancora a sentirla.
Fu un
caso, o forse il destino, ma in quel momento successe una cosa inaspettata: in
Marco tornò improvvisamente a prevalere il vecchio sé stesso, quello che credeva
ormai scomparso. Il Marco coraggioso e impetuoso, quello che mai si sarebbe
tirato indietro, scappando in un frangente del genere, comportandosi da codardo.
Il
Marco che si fermò, saldo sulle gambe, a pochi metri dalla lapide di lei.
Lo
stesso che chiuse gli occhi, non per paura, ma per ascoltare meglio il vento,
il vento che gli portava quella risata.
La
sentiva sempre più vicina, sempre più accostata a lui; era così reale, così
vera che sembrava quasi che Lei fosse esattamente li, in piedi vicino a lui.
Poteva quasi percepirne la presenza.
Possiamo
quindi immaginare quale scatto fece, quando si sentì tirare la manica del
giacchetto. Aprì gli occhi, spostandosi rapidamente sulla sinistra, e investì
un vaso di ortensie posate sulla tomba del vicino.
“
Ma che … “ cominciò a dire, quando si accorse che la fonte del suo
terrore in realtà si trovava ancora li in piedi,
sorridente, e lo guardava con occhi brillanti.
Una
bambina. Una bambina per inciso parecchio piccola, di massimo tre anni, coi
boccoli scuri e gli occhi grandi, con un buffo vestitino con la gonna larga e
un paio di scarpine rosse. Sembrava fuori luogo, in quel cimitero. Ma la cosa
che sconvolgeva Marco, sostanzialmente, era l’incredibile somiglianza che
aveva con Lei.
Non
solo nella risata, che ormai aveva appurato essere la sua, ma anche nei tratti
del viso, nella piccola fossetta sulla guancia destra, nelle sopracciglia
arcuate. Si sentì stringere il cuore, quando vide che, malgrado fosse piccolissima,
aveva persino la stessa espressione bonaria, fiduciosa tipica di Lei. Si
avvicinò, accostandosi alla bimba; lei non si scansò di un passo ma anzi,
continuò a sorridere. Lui, invece, si piegò sulle ginocchia per far si di
trovarsi alla sua stessa altezza, in modo di poter parlare meglio.
“ Ciao. ” la salutò, sforzandosi di
sorridere.
“ ‘ao ” rispose lei,
dondolando le spalle, e ficcandosi le dita in bocca per nascondere il sorriso.
“ Come ti chiami? ” le
domandò lui, gentile.
“
Ia! ”
certo, non era un grande indizio. C’erano almeno dieci nomi che
finivano con Ia, ma Marco sorrise lo stesso.
“
Bene … e sei qui da sola? ”
“ Onna! ”
rispose quella. Marco lo prese come un no.
Cominciò a guardarsi intorno, cercando di individuare se ci fossero altre
persone oltre a lui, nella piccola area ristretta tra i cespugli. Ma non
c’era nessuno. Com’era possibile, perdersi una bambina in un
cimitero. Quella tirò Marco per la manica, e gli indicò la tomba vicino alla
quale si era fermato il ragazzo.
“ Ara! ” disse, agitando la manina
verso la foto. A quel punto, il ragazzo spalancò gli occhi. Che fosse
una coincidenza, anche quella?
“ Chiara? Conoscevi Chiara? ” disse,
indicando alla piccola la foto. Quella annuì, continuando a dondolare
sui propri piedini. Marco stava per chiederle qualcos’altro, quando
all’improvviso sentì una voce preoccupata dietro di se.
“ Giulia, sei qui! ”
La
bambina sgusciò via, correndo incontro alla voce. L’uomo, invece, si
rialzò, pulendo i jeans con due colpi di mano, per poi voltarsi.
Per la
seconda volta in un giorno rimase interdetto. La donna che teneva Giulia tra le
braccia aveva cinquantasei anni, i capelli scuri striati di bianco, e qualche
ruga in più di quelle che si ricordava, attorno alle labbra e agli occhi. Era
ancora magra, e aveva conservato quella sua morbidezza sui fianchi e attorno al
seno, che contribuivano a rendere la sua figura ancora più dolce. Lo guardava
stupita, con una faccia che conosceva bene; era la stessa faccia che aveva il
giorno in cui si era risvegliato in un letto d’ospedale, dopo esser stato
operato d’urgenza per una meningite. Addolorata, stanca, con le lacrime
agli occhi, eppure con un fondo di selvaggia gioia ruggente. In più,
c’era solo un accenno di sorpresa, piuttosto comprensibile.
“ Marco, che ci fai qui? ” disse,
con voce incrinata.
“ Ciao, mamma. ” rispose lui, evitando
di rispondere.
*