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Autore: Annina88    12/02/2010    7 recensioni
Una ragazza italiana, appena arrivata in quel di Londra, decide di entrare in un pub per mangiare qualcosa e chiedere indicazioni. Ed è in quel locale che per la prima volta vede...Lui. Il ragazzo più bello, sensuale e sconvolgente che abbia mai incontrato in tutta la sua vita. Chi sarà mai quell'affascinante inglese con gli occhi dalle mille sfacettature di azzurro ed i capelli spettinati dai riflessi ramati?
Genere: Comico, Commedia, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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--LUI--

“Tra cinquanta metri svoltare a destra”

“Ma è la centesima volta che svolto a destra!” urlai contro il piccolo monitor del mio navigatore, che proprio quella sera aveva deciso di dare i numeri.

Ormai era sera. Il buio e la pioggia che scrosciava sul parabrezza erano una barriera quasi insormontabile per la mia vista già poco sviluppata. I miei amati ed odiati occhiali da vista non erano di grande aiuto in questi casi.

“Dovevo prendere un taxi! Chi me l’ha fatto fare di noleggiare la macchina?!”

Non solo non trovavo la strada di quella città sconosciuta, ma dovevo anche far fronte ad una difficoltà forse ancora maggiore: la guida a destra. Io e le mie stronzate sul doversi integrare con l’ambiente…La maggior parte dei londinesi che vivevano lì dai tempi della guerra tra gli York e ed i Lancaster si muovevano con i taxi e la metro. Io no! Io ho voluto fare la brillantona e noleggiare un’auto! Una Mini Cooper, per giunta, per essere “tipicamente british”…Si può essere più deficienti?

Dopo l’ennesima svolta a destra, mi ritrovai sempre al punto di prima, lontana anni luce dalla mia destinazione. Sbuffavo come la ciminiera di un treno a vapore ed imprecavo peggio di uno scaricatore di porto. Ero stanca per le tre ore di volo. Ero più cieca di prima a furia di leggere tutti i cartelli che incontravo per strada. Ero affamata perché mi ero categoricamente rifiutata di mangiare quella sottospecie di tramezzini di plastica che servivano sull’aereo. In più avevo la gola secca. In più, non avevo la più pallida idea di dove fossi. Per quanto ne sapessi, potevo anche non essere più a Londra, a giudicare del tempo che avevo trascorso in macchina. Il fatto che non avessi riattraversato l’oceano, mi assicuravo che almeno era ancora in Gran Bretagna. Non osavo essere certa di trovarmi ancora in Inghilterra, perché c’erano sempre il Galles e la Scozia…

“Mi arrendo.”

Decisi di fermarmi al primo bar che avessi incontrato, per chiedere indicazioni e mettere qualcosa sotto i denti. Anche perché ero abbastanza sicura che in casa non avrei trovato nulla di commestibile, solamente degli scatoloni e tanta, tanta, tanta polvere.

Tra i fiumi di acqua sbattuti qua e là dai tergicristalli, riuscii a intravedere l’insegna luminosa di un locale. Rallentai e parcheggiai nell’unico posto libero, una trentina di metri più avanti, dall’altra parte della strada. Ovviamente, non avevo nemmeno un ombrello…Eh già, chi mai avrebbe pensato che in una città come Londra ne avrei avuto bisogno? La mia solita incapacità di raziocinio, detto in altre parole più consone, la mia solita testa di cazzo. Feci una corsa, ma la pioggia cadeva tanto forte che mi bagnai comunque. Prima di entrare, diedi uno sguardo veloce all’insegna: “The Bloody Mary Pub”. Nome promettente…conoscendo la mia fortuna, morirò accoltellata in qualche rissa di ubriachi. Decisi comunque di entrare, per evitare di morire annegata o di freddo.

Aprii la porta e sentii un tintinnio, una specie di suono di campanelli. Alzai lo sguardo e proprio sopra la porta erano appese delle bacchette metalliche. Giusto per annunciare il mio arrivo…Il posto era decisamente inglese. Tavolini in legno. Sedie in legno. Bancone in legno. Piccoli lampioni con luci soffuse appesi alle pareti, con colori caldi che andavano dal verde muschio al porpora. Musica rock in sottofondo, a volume relativamente basso. Cicaleccio inglese. Risate inglesi. Sguardi inglesi. Tutto in quel pub era inglese. Tutto profumava di Inghilterra, di Londra. Di quella città che mi era bastato vedere una sola volta a 16 anni per innamorarmene. Quella città che sarebbe diventata la mia città per almeno un paio di anni di studio, perché i tre anni di università non mi bastavano.

Rimasi immobile per qualche secondo, ammirando l’assoluta bellezza del locale ed ignorando il fatto che somigliassi più ad un biscotto inzuppato nel latte che ad un’italiana in cerca di indicazioni. Il pub era pieno di ragazzi e ragazze più o meno della mia età o più grandi. Giovani cameriere correvano avanti e indietro con i loro vassoi colmi di boccali di birra. Guinness, a giudicare dal colore. Qualcuno si era voltato a guardarmi, ma gli inglesi sono piuttosto discreti e non fecero molto caso a me. Mi avvicinai a passo svelto al bancone e mi sedetti su uno sgabello libero. Il barista, un uomo alto e piuttosto robusto, con una folta barba castana e nessuna traccia di capelli sulla testa, si avvicinò a me con un sorriso accogliente.

“Dimmi, cosa posso portarti?”

“Un toast con prosciutto e formaggio e delle patatine fritte. Ed una coca.”

“Ok, arrivano”

Il suo tono era insolitamente gentile per un omone che somiglia di più ad un buttafuori.

Iniziai a guardarmi un po’ attorno, quando una risata fragorosa e potente colpì il mio udito. Voltai lo sguardo alla mia destra e notai in un angolo un gruppo di ragazzi, intenti a giocare a freccette. Non badai a quanti fossero, a come fossero, perché solo uno di loro catturò completamente la mia attenzione. Il “proprietario” di quella risata così meravigliosamente accesa e particolare. In quella risata, era racchiuso un sorriso straordinario, dolce e sincero, come quello di un bambino, ma allo stesso tempo il sorriso di chi la sa lunga sulla vita, come quello di un uomo. Potevo vedere bene il suo profilo, notando i lineamenti perfettamente scolpiti come quelli di una statua greca, la pelle candida e senza imperfezioni, le tracce di barba chiara, ed i capelli. Dio, quei capelli…Un colore particolare, un castano chiaro, un biondo non proprio biondo, con riflessi ramati. Mi colpì il fatto che non avessero una forma ma avevo la netta sensazione che, nonostante fossero completamente arruffati, non avrei potuto immaginarmi quel ragazzo con i capelli pettinati. Quel loro disordine era perfetto e si adattava in modo sublime alla forma del suo viso. Il corpo alto e snello di quel bellissimo ragazzo era racchiuso in un abbigliamento molto semplice: un maglione nero con scollo a V sopra una maglietta bianca, jeans blu scuro ed ai piedi un vecchio paio di anfibi neri slacciati. All’apparenza, sembrava piuttosto trasandato, ma ai miei occhi quel suo modo di vestire appariva piuttosto sexy. Non so quale forza sconosciuta e invisibile lo fece voltare verso di me, sta di fatto che quando il suo sguardo incontrò il mio, a dispetto della mia timidezza, i miei occhi accolsero i suoi. E allora mi sentii avvampare come se avessi la febbre. Percepii il rossore crescente sulle mie guance. Ma non mi voltai. Non potevo. Ero abbagliata, immobilizzata, incatenata. E forse lo era anche lui. Non capivo cosa stesse succedendo tra di noi, ma ci guardavamo come se non esistesse null’altro da guardare. Il suo sorriso si era spento in un’espressione indecifrabile, una sorta di stupore incomprensibile. Non ero un fantasma, non ancora almeno. Non ero nemmeno Megan Fox. Perché mi guardava come se fossi il fantasma di Megan Fox? Non lo sapevo, in compenso finalmente potevo godere della vista dei suoi occhi, dei quali non seppi cosa pensare. Perché non erano semplicemente azzurri, né semplicemente blu, né semplicemente verde acqua, né semplicemente turchesi. Non sapevo cosa pensare, perché non avevo mai visto degli occhi così. Occhi che racchiudevano qualsiasi sfumatura dell’azzurro, e del blu, e del verde acqua, e del turchese. Occhi che brillavano di una luce giocosa, e incredibilmente viva. Occhi che, se volevano, sapevano ipnotizzare. Occhi che emanavano ogni sorta di stato d’animo, energia, dolcezza, paura, insicurezza, desiderio, stanchezza, poesia. Non avrei mai potuto dimenticarmeli, quegli occhi. Se fossi uscita da quel pub senza sapere nemmeno il nome di quel ragazzo, avrei passato il resto della vita a cercarli in un altro uomo, pur sapendo che non li avrei trovati. Erano unici, e soprattutto erano i suoi. E mi fissavano. Fissavano me.

“Ecco a te”

La voce del barista ed il profumo delle patatine interruppero i miei pensieri assurdi e poco puliti. Quando distolsi lo sguardo da quel ragazzo, mi sentii strana, come se non avessi più fiato, come se mi mancasse qualcosa. Possibile? Addentai una patatina e non riuscii a trattenere il bisogno di voltarmi ancora verso di lui e fui invasa da una sorta di delusione quando vidi che mi dava le spalle. Aveva una freccetta in mano e stava prendendo la mira. La scagliò e la piccola punta si conficcò precisamente nel mezzo del cerchio. Seguirono grida di esaltazione da parte sua e di quelli che intuii essere i suoi compagni di squadra, mentre altri tre ragazzi lasciarono trapelare il loro sconforto. Gli avversari, i perdenti. Quel ragazzo aveva un’ottima mira, oltre ad una bellezza sconvolgente. Ma chi era? Mentre i suoi compagni lo abbracciavano, vidi il suo sguardo cercarmi nuovamente. Ma questa volta…questa volta la timidezza ebbe la meglio, e mi voltai di scatto, sperando, invano, che non si fosse accorto che lo stavo fissando ancora. Una figura di cacca con un uomo del genere era l’ultima cosa che speravo in quella giornata di per sé stravolgente.

Ritornai a concentrarmi sulla mia cena, ricordandomi che avevo parecchia fame. Perché mentre lo guardavo, mi ero persino dimenticata dei miei bisogni primari. Addentavo il mio toast caldo, bevevo la mia coca cola fresca a frizzante, trangugiavo quelle patatine deliziose. Ma il desiderio di guardarlo ancora era diventato irresistibile. Oramai era necessario. Con la coda dell’occhio, cercando di non farmi notare, lo vidi avvicinarsi al bancone. Cazzo, fu il mio unico e volgare pensiero. Tornai a fissare il mio piatto, mentre percepivo i suoi passi, l’avvicinarsi del suo corpo. Ero talmente drogata della sua bellezza e dal suo fascino che riuscivo a sentirne il calore, perché mi accorsi che la temperatura si era miracolosamente alzata nel momento in cui aveva raggiunto il bancone.

“Mi dai tre Heineken e un po’ di patatine, Jeff?”

La sua voce. Roca, calda, profonda. Perfino quella era sexy in modo diabolico e non volevo altro che sentirlo parlare ancora.

“Chi ha vinto?” gli domandò il barista, Jeff.

“Noi ovviamente”

Dio ti benedica, Jeff.

“E vabè, tu sei un fenomeno a freccette!”

Mentre aspettava, il ragazzo picchiettava le dita sul bancone. Mi resi conto che allo studio anatomico che avevo effettuato su di lui mancavano le mani. Anche quelle…una delizia per gli occhi, una magnifica tortura per qualunque corpo avesse goduto del tocco di quelle dita lunghe e affusolate.

Non osai alzare lo sguardo per ammirare ancora lo splendore del suo viso. Avevo troppa paura che mi cogliesse di nuovo “con le mani nel sacco”, o meglio, “con gli occhi sul bocconcino appetitoso”. Perché lo era davvero, molto appetitoso. Non era da me avere certi pensieri, ma non potevo davvero farne a meno. Quel ragazzo avrebbe scosso anche la mente di una monaca di clausura.

Dovevo andarmene da lì. Dovevo andarmene perché ero stanca. Dovevo andarmene perché non sapevo quanto tempo ci sarebbe voluto per arrivare a casa. Dovevo andarmene perché rischiavo di impazzire. Quando Jeff tornò con il vassoio pieno delle ordinazioni di Mr. Schianto, presi un bel respiro e cercai di parlare evitando che l’emozione mi facesse balbettare.

“Scusa, io non sono di qui, sai dirmi come arrivare in questo posto?”

Porsi al barista il foglietto su cui avevo scritto l’indirizzo. Un sorriso beffardo si dipinse sul suo faccione.

“Accidenti, sei proprio lontana. Soho è da tutt’altra parte!”

Stavo per scoppiare in un pianto disperato, ma una certa voce riuscì a risollevarmi.

“Soho?” domandò Lui, in tono sorpreso ed interessato.

Mi emozionai quando mi resi conto che stava leggendo l’indirizzo della mia nuova casa.

“Non è dove abiti tu?” chiese Jeff.

“Si, infatti!”

Oh mio Dio. Io. Lui. Nello stesso quartiere? Non potevo essere così sfacciatamente fortunata.

Mi guardò e non ci fu una parte del mio corpo che non iniziò a rabbrividire. E non per il fatto che fossi ancora un po’ bagnata. Vidi bene le sue labbra, sottili e rosse, incredibilmente rosse. Perfette, e sicuramente succose.

“Ma per caso sei la nipote della signora Salvati?”

Stava parlando con me. L’uomo più bello del mondo stava parlando con me. E conosceva mia zia! Come faceva a conoscere mia zia?!

“Ehm…si…perché? Tu come…come la conosci?”

Ecco che iniziai a balbettare come un’idiota.

“Abita nel mio palazzo, proprio sotto di me! O meglio abitava…mi aveva detto che si trasferiva e che avrebbe lasciato l’appartamento a sua nipote”

Oh. Mio. Dio. Non. E’. Possibile. Già faticavo a credere che io e quella creatura appartenessimo allo stesso pianeta…come potevo convincermi che avrei vissuto nel suo stesso palazzo, proprio sotto di lui? Non poteva essere vero, non poteva. Stavo sognando. Per tutti i miei 24 anni, la fortuna era stata soltanto un’utopia, un sogno appunto, ed ora cosa stava succedendo?

“Ah…ma guarda le coincidenze…” disse Jeff, in tono palesemente malizioso, interrompendo il silenzio che la mia stupidità aveva prontamente creato.

Il ragazzo lo fulminò con lo sguardo, prima di tornare a concentrarsi su di me.

“Se vuoi ti posso accompagnare! Cioè, per la verità mi accompagneresti tu perché io non ho la macchina…”

Fece un gesto che mi mandò letteralmente in iperventilazione: si passò una mano tra i capelli, arruffandoli ancora di più. Un gesto che ho visto tante altre volte, in tanti ragazzi…ma quello stesso gesto, così normale, così ordinario, mi sembrò nascondere qualcosa di incredibilmente erotico, in lui.

Era arrossito. Non so per quale ragione, ma era arrossito sul serio. Intimidito, imbarazzato. Per cosa? Da cosa? Da chi? Certamente non da me, l’ultima persona capace di intimidire o imbarazzare qualcuno.

“Non so…vedo che sei con i tuoi amici…non ti voglio disturbare…”

“No, non ti preoccupare…lascio queste a loro e arrivo”

“Ehm…ok”

Avrei voluto aggiungere che sarei rimasta lì, ferma, ad aspettarlo. Lo avrei aspettato per tutta la vita.

Pagai il conto e tornai a guardarlo. Non riuscii a sentire cosa disse ai suoi amici, né i loro commenti. Vidi però le loro espressioni stupefatte e le occhiate maliziose che gli lanciarono quando capirono che “si trattava di una ragazza”. Ed era vero, ma non nel modo in cui credevano. E non nel modo in cui speravo. Perché quella creatura era troppo perfetta per una come me.

Si infilò un cappotto marrone, che ormai si ricordava qualche anno, ed un berretto di lana blu. Mi piaceva come gli calzava e come donava una dolcezza quasi infantile al suo viso. Persino il suo modo di camminare possedeva un’insistente carica erotica. Ero giunta ai limiti della follia!

“Andiamo?” mi chiese, risvegliandomi dalla mia ennesima fantasia censurabile.

“Si”

Come un vero e proprio gentiluomo d’altri tempi, aprì la porta del pub e mi lasciò passare. Il freddo mi colpì il collo e le guance e vidi subito il mio respiro diventare una nuvoletta bianca. Pioveva ancora come prima. E lui era sprovveduto quanto me.

“Tu non hai l’ombrello vero?” mi chiese, sollevandosi il colletto del cappotto.

Più che una domanda, era un’osservazione.

“Da cosa l’hai capito?” chiesi scherzosamente, toccandomi i capelli ancora bagnati dall’acqua che avevo acchiappato prima di entrare.

Mi meravigliai per la mia stessa battuta. Come fossi riuscita ad essere sufficientemente lucida ed ironica, rimane tutt’ora un mistero.

Rise. Ed ero stata io, a farlo ridere. Sarei stata disposta anche a camminare a quattro zampe, abbaiando e fingendo di spulciarmi se questo mi avrebbe consentito di ammirare ed ascoltare la sua risata. Quel ragazzo era allo stesso tempo angelo e diavolo, benedizione e dannazione, salvezza e perdizione.

“Be, tanto sono abituato a bagnarmi. Dove hai la macchina?”

“E’ quella laggiù…la Mini verde”

Indicai la mia Mini, arrossendo e sentendomi un’idiota, perché non osai immaginare che idea si stava facendo di me. Una straniera con una Mini in quel di Londra…per di più verde scuro. Molto originale!

“Ok, andiamo!”

Iniziò la corsa e sperai con tutta me stessa di non scivolare sull’asfalto o inciampare nei miei stessi piedi. Perché ne sarei stata capace, oh si…Mi confortò il fatto che anche Mr. Schianto non sembrava molto a suo agio in quella corsa. Non aveva proprio le movenze di un’atleta di prima categoria, tutt’altro. Questo mi sollevò il morale e me lo fece apparire più umano e reale di quello che era. Se non altro, anche lui almeno un difetto lo aveva…

Ci fiondammo dentro l’auto, io al posto dell’autista e lui del passeggero. Avevamo entrambi il fiatone e per quanto la situazione fosse a dir poco imbarazzante – eravamo sempre due sconosciuti all’interno di un’auto, completamente bagnati -, non riuscimmo a trattenere le risate. Forse per il nervosismo, forse per l’imbarazzo, forse per la semplice ed assurda comicità del momento.

“Benvenuta a Londra!” esclamò in modo solenne.

I miei occhiali erano appannati, ma mi concedetti ugualmente qualche secondo per accompagnare con lo sguardo il percorso di alcune gocce d’acqua lungo il suo viso. Mi sembrava assurdo, completamente folle e a dir poco disdicevole, ma improvvisamente mi tornò la sete…e avrei tanto voluto dissetarmi con quelle stesse gocce…

“Tutto bene?” mi domandò, accortosi della mi espressione da pesce lesso…ed eccitato.

“Si si…andiamo”

Prima di mettere in moto la macchina, dovetti fare una revisione mentale delle mie capacità di autista. Ero talmente agitata che sarei stata capace di dimenticarmi di ogni lezione di guida e di ogni secondo passato al volante. Fortunatamente, non successe e mi immersi nuovamente nel traffico londinese con sufficientemente tranquillità.

Non parlammo molto. Anzi, per la verità non parlammo quasi per niente. Lui era troppo occupato a darmi le indicazioni attraverso quella specie di labirinto urbano, ed io ero troppo occupata a seguirle e a non fare figuracce perdendomi in quel suo incantevole accento inglese. Impiegammo quasi mezz’ora ad arrivare a destinazione. La mezz’ora più tesa e breve di tutta la mia vita.

“Eccoci qua. Puoi parcheggiare lì, è dove la metteva sempre tua zia”

Miracolosamente, la mia manovra fu eccellente e non ebbi difficoltà ad intrufolarmi in quel buco. Merito anche delle scarse dimensioni dell’auto. Scendemmo e sollevai il mio sedile per poter prendere le mie due valigie, accatastate in malo modo sul sedile posteriore. Non avevo nemmeno tentato di metterle nel bagagliaio, uno spazio di circa un metro di altezza e poco più che dieci centimetri di larghezza.

“Ti aiuto io” mi disse.

“No, non fa niente”

In realtà, le valigie pesavano, ma non volevo approfittare della sua gentilezza.

“No insisto, lascia che ti aiuti”

Quando mi strappò i bagagli di mano, fui costretta ad accettare. Ed immaginai che intraprendere una discussione alle dieci di sera e sotto l’acqua non fosse il miglior modo per instaurare un buon rapporto di vicinato.

“Grazie…”

Bello. Sfacciatamente e diabolicamente bello. E gentile. Gentile sul serio. Il mio vicino. Forse mi ero addormentata sull’aereo e stavo sognando il mio ideale benvenuto a Londra.

Presi le chiavi dalla borsa ed aprii il portone.

“Siamo fortunati, proprio ieri sono venuti a ripararlo” disse, mentre apriva il cancelletto a sbarre metalliche che proteggeva l’ascensore.

Lo spazio all’interno della cabina era sufficiente ad accogliere sia noi che le valigie. Ma non così sufficiente… Mi ritrovai praticamente a due centimetri dal suo corpo da favola. I bottoni del cappotto erano slacciati, e riuscivi ad intravedere la maglietta bianca attraverso la trama nera del maglione. E chissà cosa c’era oltre…Eravamo talmente vicini che potevo sentire il suo respiro sulla mia fronte. Eccitante, a dir poco eccitante. La mia postura era tesa e rigida come il manico di una scopa, immobile per evitare un contatto con il suo corpo, cosa che mi avrebbe mandata letteralmente al manicomio.

“Scusami…” sussurrò, prima di allungare il braccio per premere il pulsante 4.

Mi voltai di qualche millimetro e sfiorai con la punta del naso la manica del suo cappotto marrone. Se avesse spostato di poco il braccio, avrebbe potuto abbracciarmi…E Dio solo sa quanto lo avrei desiderato. Quando l’ascensore partì, un leggero scossone provocò una lieve oscillazione del mio corpo che costrinse il mio seno contro il suo petto per un paio di secondi. Cazzo. Cazzo. Cazzo. Brividi. Caldi. Bollenti. Come la temperatura all’interno di quella cabina. Il punto è che nemmeno lui mi sembrava indifferente…Non riuscivo a guardarlo in faccia, ma sentivo scorrere elettricità tra di noi. Attraverso i nostri respiri trattenuti. Attraverso il battito accelerato di nostri cuori. Attraverso le sensazioni. Ed i miei occhiali si stavano appannando nuovamente. Avrei voluto allungare una mano e poggiarla sul suo petto, per poi risalire lungo il collo, fino alla sua guancia. Sfiorare poi quelle labbra dolci, inumidirmi le dita e…

Plin. Le porte dell’ascensore misero fine all’ennesima fantasia sessuale. L’atmosfera tesa sembrò svanire nel momento in cui Lui aprì il cancelletto. Uscimmo da quello spazio angusto e finalmente ritornai a respirare.

“E’ questo” disse, indicando l’appartamento 4A.

Inserii la chiave nella toppa e la girai. Chissà quante volte ancora avrei ripetuto quel gesto. Lasciai che anche lui entrasse, portando dentro le valigie. Il fatto era che sentire la sua presenza nella mia nuova casa mi dava sicurezza, e mi piaceva. Molto.

Diedi uno sguardo in giro e rimasi a dir poco di stucco. A parte la cucina alla mia destra, il resto dell’arredamento mancava totalmente. Sapevo che mia zia aveva portato tutto con sé – tranne il bagno - e che l’impresa di arredamento avrebbe dovuto portare e sistemare tutti i mobili qualche giorno prima del mio arrivo. Ma dei mobili non c’era alcuna traccia. C’erano solo gli scatoloni con il resto della mia roba, un comodino su cui era appoggiato il telefono ed un materasso a terra, in quello che dovrebbe essere il soggiorno. E quintali su quintali di polvere.

“Ma…non dovevano portare i mobili l’altro ieri?” mi chiede Lui, sorpreso quanto me.

“Si, così mi aveva detto zia…”

“Forse c’è un messaggio in segreteria”

Guardai il telefono e notai che una lucina lampeggiava. Premetti il pulsante per ascoltare i messaggi. Ce n’era uno, proprio di mia zia.

“Ciao tesoro! Ho cercato di chiamarti ma avevi sempre il cellulare spento! Volevo dirti che quelli dei mobili hanno avuto un contrattempo e non arriveranno prima di domani. Mi dispiace per questo inconveniente, sapessi quanto mi sono incazzata con loro! Scusami cara. E comunque, ben arrivata! Ciao!”

Nonostante l’inconveniente, la voce di mia zia mi fece sorridere e mi rassicurò.

“Queste imprese…non sono mai affidabili…”

“Be, fortunatamente sono una che si adatta...E comunque almeno il materasso ed il bagno ci sono, perciò per stanotte mi arrangerò…”

“Ok, se hai bisogno di qualcosa non ti fare problemi, chiedi pure”

Avrei voluto dirgli tante cose. Avrei voluto dirgli “ti prego, rimani qui”. Avrei voluto dirgli “anche se non ti serve del sale, bussa pure alla mia porta”. Avrei voluto dirgli “posso prepararti un bel piatto di spaghetti una di queste sere? Sai per sdebitarmi…”. Ma dalla mia bocca uscì solamente non timido e stupidissimo “grazie”.

Mr. Schianto si portò una mano dietro la nuca. L’altra la teneva nella tasca dei jeans. Sembrava nervoso e proprio non riuscivo a comprenderne il motivo. Quella nervosa dovevo essere io. E infatti lo ero. Non avevo nulla di speciale che lo potesse intimidire. Sicuramente i miei sguardi ed i miei silenzi erano sufficientemente eloquenti da fargli capire che da me poteva ottenere qualunque cosa volesse.

C’era qualcosa di strano, nella stanza. Una strana tensione, la sensazione che qualcosa potesse succedere da un momento. Un presentimento, così simile a desideri mai avuti. Chimica. Fisica. Elettricità. Semplice biologia. Non lo sapeva, ma c’era tutto questo. Lo sentivo in ogni cellula del mio corpo.

“Bene allora…sarai stanca, ti lascio sola. Ci si vede”

Da perfetta imbecille che ero, invece di insistere, invece di dirgli che non ero assolutamente stanca, mi limitai ad annuire.

“Buonanotte”

“Notte” riuscii a dire, prima di vederlo uscire dal mio nuovo appartamento.

Mi tolsi il cappotto e lo appoggiai sul tavolo in cucina. Non c’era nemmeno l’appendiabiti. Feci un veloce giro per le altre stanze. La casa era completamente diversa da come la ricordassi, probabilmente per la totale mancanza di arredamento. Come avevo immaginato, il bagno era completo di tutto. Tornai in soggiorno, che per quella notte sarebbe stato la camera da letto. La stanchezza mi catturò improvvisamente tra le sue braccia. Mi gettai sul materasso, sbuffando, perché sapevo che non avrei dormito sogni tranquilli sapendo che Lui era al piano superiore. Dovevo conoscerlo, dovevo trovare il modo di conoscerlo. Non sapevo nemmeno il suo nome, e probabilmente lui non sapeva il mio. Ci siamo accompagnati a vicenda a casa, l’ho fatto entrare a casa mia, abita esattamente sopra di me e non gli ho nemmeno chiesto il nome…Stavo per addormentarmi, quando sentii suonare il campanello. Mi sollevai a sedere di scatto, forse perché sentivo che era Lui. E chi poteva essere? Mi alzai e mi avvicinai alla porta, lentamente. Volevo godermi il momento dell’illusione che fosse lui, prima di cadere nella delusione di scoprire che era solo il portiere che voleva darmi il benvenuto. Aprii la porta senza nemmeno guardare dallo spioncino. E come una angelo disceso dal cielo, mi apparve Lui. Indossava ancora il cappotto. Indossava ancora il cappello. Indossava ancora quell’aurea di incredibile bellezza ed erotismo. Le sue labbra erano dischiuse, ma non parlava. E nemmeno io riuscivo a dire nulla. Le parole mi morivano in gola, incantata com’ero dal suo sguardo. I suoi occhi, fissi nei miei, comunicavano solo una cosa: desiderio. Mi sembrò incredibile, non potevo credere che quello sguardo fosse proprio per me.

Indietreggiai di due passi, quando lo vidi avanzare. Non respiravo, ma il mio cuore era come impazzito. Con quello sguardo avrebbe potuto uccidermi. Con un gesto lento e delicato, mi tolse gli occhiali e li appoggiò sul comodino, accanto al telefono. Mi sentii scoppiare.

“Ecco…adesso riesco a vederli bene” bisbigliò, in un modo che definirlo sensuale è troppo riduttivo.

Non riuscii più a mettere freno alle mie pulsioni. Gli gettai le braccia al collo e lo baciai, con una foga che non pensavo di avere. Mi strinse a sé, con una presa forte e sicura. Dischiuse subito le labbra, permettendo alle nostre lingue di incontrarsi e dare inizio alle danze. Sapeva di menta, di tabacco, di birra, di zucchero, di uomo. Sapeva di buono, e profumava di buono. E baciava come un dio. I nostri respiri erano già affannati quando gli strappai letteralmente il cappello e lo aiutai a togliersi il cappotto. A nessuno dei due sarebbe bastato quel bacio. Lo volevo, volevo tutto di lui. E lui voleva tutto di me. E poco mi importava che mi sembrasse impossibile. Poco mi importava che fino ad un’ora fa non sapevo nemmeno che esistesse. Poco mi importava che non sapessi neanche il suo nome. Ero stregata, e lo desideravo in modo doloroso e viscerale.

Mi tolse la maglia e mi costrinse contro una parete. Sentivo le sue labbra e la sua lingua sul mio collo, ed ero talmente eccitata che questo bastò a farmi sentire bagnata. Le mie mani presero coraggio e gli sfilai il maglione insieme alla maglietta ed il corpo che mi apparve non poteva essere reale. I muscoli erano perfettamente delineati, ma non sul punto di esplodere. Erano forme delicate ed armoniose, magnifiche. Le mie dita vagavano su ogni centimetro della sua pelle scoperta, e le sue labbra erano scese sul bordo del mio reggiseno. Improvvisamente, le sue mani scivolarono sulle mie gambe e mi sollevarono senza sforzo. Continuai a baciare quelle sue labbra magiche, mentre mi portava sul materasso. Stavo per fare l’amore su un materasso nudo appoggiato a terra, tra quintali di polvere, con l’uomo più bello, e più uomo, che potesse esistere sulla faccia della Terra. Esiste qualcosa di più eccitante? Mi slacciò i pantaloni e li fece scivolare lungo le mie gambe. Il suo sguardo eccitato e desideroso era la cosa più meravigliosa che avessi mai visto. I suoi pantaloni giunsero presto a far compagnia ai miei. Volevo sentirlo dentro di me, ero pronta. Volevo sentirlo dentro. Avevo bisogno di sentirlo dentro. Non ebbi alcuna vergogna quando mi tolse gli slip. Non ebbi alcuna vergogna quando gli tolsi i boxer. Non ebbi alcuna vergogna quando dalla mia bocca uscì un forte gemito nel momento in cui entrò dentro di me. Mi aggrappai a lui, alle sue forti spalle, assecondando i suoi movimenti, le spinte desiderose, passionali ma gentili. Come se avesse paura di farmi male, come se volesse prolungare il piacere per entrambi. Era un sogno. Prima di lui, c’era stato un solo uomo, che nemmeno in 5 anni era riuscito a farmi provare le stesse sensazioni che stavo provando ora. Non mi ero mai sentita così donna, non mi ero mai sentita così desiderata, non mi ero mai sentita così desiderosa. E non avevo mai provato un piacere tanto forte, così forte da farmi urlare, insieme a lui. Cosi forte da farmi quasi male. Quasi. Dio, era il paradiso. Eravamo in paradiso. Non era sesso. Era qualcosa di più. Perché nessuno dei due era stato egoista. Nessuno dei due ha voluto dare piacere solamente a se stesso. Noi…ci siamo amati. Non abbiamo fatto sesso, abbiamo fatto l’amore. Ci siamo completati. L’ho letto nei suoi occhi quando stava per raggiungere l’apice. L’ho sentito nelle sue mani quando hanno stretto le mie, poco dopo. L’ho udito nel suo respiro affannato e nel suo gemere passionale.

Si abbandonò accanto a me, con gli occhi ancora chiusi, come a voler assaporare ancora quel momento. Era bellissimo, semplicemente bellissimo. Sarei rimasta a guardarlo per tutta la vita. Aprii gli occhi e non so per quale motivo assurdo, iniziammo a ridere entrambi.

“Oh Dio…scusami…” disse, passandosi una mano sopra il viso.

“Di cosa?”

“Di solito non faccio…non faccio queste cose…di solito preferisco conoscere una persona prima di…”

“Non credere che per me sia tanto diverso”

Mi sorrise, in modo dolce, e mi accarezzò teneramente il mento e poi la guancia. Questo ragazzo, quest’uomo, era perfetto.

“Però è stato…bellissimo” ammise, arrossendo.

Il cuore mi si riempì di orgoglio. Gli era piaciuto, molto. Forse quanto era piaciuto a me. Cosa significava?

“Io…io ho sentito…qualcosa. Non so spiegarti cosa sia successo, ma quando ti ho vista, quando ti ho guardata in quel pub ho sentito qualcosa. E quel qualcosa l’ho sentito anche poco fa…Non so dirti che cosa… Scusami, forse sto delirando…”

Avevo ragione. Avevo ragione a pensare che anche lui sentiva qualcosa, nei miei confronti. Il punto è che non poteva essere semplice attrazione fisica. Per quanto un uomo mi potesse attrarre da quel punto di vista, non ci sarei mai andata a letto senza nemmeno conoscerlo. Con lui è stato tutto diverso. Tutto.

“Avrai già capito che è stato così anche per me…forse…forse abbiamo solo bruciato le tappe, saltato alcuni passaggi…”

Bella cazzata ero riuscita a sparare. “Forse abbiamo solo saltato alcuni passaggi”…Pessima! Infatti il suo sguardo incerto e un po’ confuso fu la dimostrazione di quanto l’avevo detto grossa…

“Scusami, era solo una cazzata”

“No no! Mi piacciono le tue cazzate…” disse, in tono serio.

E ridemmo ancora. Era così facile, ridere con lui. Anche nelle situazioni più assurde, illogiche e imbarazzanti.

“Be, forse alcuni passaggi dovremmo riprenderli, che ne dici?” propose.

“Mmm…mi sa che hai ragione. Io mi chiamo Anna, Anna Romano.”

Gli porsi la mano. Tranne che per il reggiseno, ero completamente nuda, e mi stavo presentando ad un uomo altrettanto nudo, porgendogli la mano, dopo aver fatto l’amore. Be, l’educazione prima di tutto no?

“Piacere Anna. Io sono Robert, Robert Pattinson.”

  
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