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Autore: Meggie    14/02/2010    3 recensioni
Valentino e Faustino sono migliori vicini dall'infanzia. Peccato che, dalla suddetta infanzia, siano passati molti, molti anni e alcune cose, beh, si sa, col tempo... cambiano.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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WANT YOUR BAD ROMANCE

 

Note/Disclaimer: Scritta per la prima challenge di FDP. Chiaramente non ci guadagno niente e nulla di quanto riportato è vero.

CAPITOLO UNICO

Capitava di continuo.
Era qualcosa ricollegato a una delle tante frasi cliché che piacevano da impazzire alle vecchie signore che non sapevano mai farsi gli affari propri: “Crescendo si cambia!” (questa era la signora che abitava in fondo alla via. Quella che, insoddisfatta del suo corpo, era passata dal Dottor Bozzi ufficialmente quattro volte. Ma tutti sapevano che in realtà, le volte, erano state almeno sei. Voleva fare la furba, ma l’occhio delle amiche era sempre più attento), “Niente è per sempre!” (oh! Questa era chiaramente della Duchessa, che poi, in realtà, duchessa non lo era per niente. Comunque, questa si era sposata tre volte e con le amiche si vantava sempre di quanto lei conoscesse quei porci degli uomini che non aspettavano altro che mettere le mani sul suo patrimonio, oltre che sulle sue tette – sì, era anche lei una cara amica del Dottor Bozzi, ma non c’era niente di male. No? -) o anche “L’amicizia è un’anima sola che vive in due corpi”.(*) Oh. No. In questa lui ci credeva, non voleva metterla al pari delle altre.
Ma comunque. Il punto era che in un modo o nell’altro, frasi di quel tipo gli erano arrivate alle orecchie, crescendo. Era difficile sottrarsi alle vecchie megere – pace all’anima loro – che si combattevano a suon di malignità sparate verso il prossimo. Era difficile sottrarvisi soprattutto quando tua nonna faceva parte del giro.
Comunque lui non ci credeva troppo, ma sapeva che a volte la realtà si dimostrava veramente un cliché da quattro soldi per cui uno non avrebbe pagato due lire, se fosse stato un film di serie B. Solo che non era un film, era la vita, quindi la faccenda diventava un po’ più triste.
Che poi, lui non avrebbe dovuto realmente lamentarsi.
Aveva tutto. Tutto tutto.
Beh, forse non proprio tutto, ma comunque c’era chi stava peggio. Il fatto era che ogni tanto ripensava al passato. Ai suoi lunghi diciassette anni di vita, e si accorgeva che gli mancavano alcune cose.
Cose semplici.
O persone.
E ogni tanto gli bastava un sms o un’email o, diamine!, FaceBook o qualsiasi social network (che lui amava, perché, insomma, era bello poter essere vicino a tutti quanti anche quando fisicamente era lontano. Lo faceva sentire bene. E amato. Era bello).
A volte, però, niente di tutto quello era sufficiente. A volte non aveva un numero. O l’indirizzo email. Oppure, quella determinata persona (no, non era più un discorso generale. Sì, aveva in mente qualcuno di specifico) non era iscritta a FaceBook ( ebbene sì, esisteva ancora qualcuno del genere – asociali, chiaramente –) – quindi non poteva condividere con lui link anonimi (che anonimi non erano per niente, perché quando uno parla di te, non serve per forza il nome e cognome per accorgersene) e non poteva approvare i suoi, di link, con un bel ‘mi piace’. E oltre al non avere un account su FaceBook, non l’aveva da nessun’altra parte. O almeno, non che lui sapesse.
E il punto stava tutto lì, nel fatto che lui non sapeva più. Non sapeva più un mucchio di cose.
E dire che sarebbe bastato fare quattro, forse poteva arrivare a cinque, metri. A piedi. E tutto si sarebbe potuto risolvere. Per lo meno le incombenze di base, sotto la cui dicitura lui amava appuntare il ‘riallacciamo i rapporti, ti va?’.
Però… sì, ok, si vergognava. Erano comunque passati anni. Non così tanti anni da dimenticarsi l’uno dell’altro – anche perché, quattro barra cinque metri di distanza erano effettivamente troppo pochi per potersi effettivamente dimenticare di una persona -, ma abbastanza per non riconoscersi più.
Era triste constatarlo.
Un tempo era il suo miglior vicino, come gli piaceva chiamarlo. Vicino, perché erano sempre stati vicinissimi in tutto. Ma proprio tutto. Tanto per cominciare, diciassette anni prima, avevano deciso di sbucare nel mondo con un solo giorno di distanza. Vicini. Poi, avevano da sempre abitato in quelle case. A quattro barra cinque metri di distanza. Erano cresciuti insieme. Avevano anche avuto la sfiga di avere dei genitori assurdi con la passione per i nomi ancora più assurdi, quindi avevano condiviso anche il peso di essere presi in giro da… beh, da tutti. Non si erano mai considerati migliori amici, anche se sì, ufficiosamente lo erano. Ma i migliori amici erano così inflazionati. Tutti avevano un migliore amico, ma chi poteva vantarsi di avere un miglior vicino?
E poi… e poi era passato il tempo. L’infanzia, l’infanzia bellissima trascorsa a correre, cadere, piangere, scappare dalla Duchessa perché quella donna aveva un rossetto talmente rosso che faceva paura!, rubare gli ovetti Kinder dalla dispensa e mangiarli dietro alla grande quercia che c’era nel parco in fondo alla via. Era tutto passato. Ora che ci pensava, anche la quercia non c’era più.
Con gli anni, erano cambiate tante cose. E quando alle medie erano stati inseriti in due sezioni separate, era stato naturale trovare nuove amicizie. E le nuove amicizie avevano piano piano preso il posto di quelle vecchie.
E adesso si ritrovava così, diciassette anni trascorsi tutto sommato dignitosamente, cercando di avere quanti più amici possibili, prendendosi sbandate sentimentali non indifferenti, innamorandosi seriamente due volte, finendo col cuore spezzato a causa di Marco dell’ex 5H e, successivamente, finendo con lo spezzare a sua volta il cuore a Martina del liceo scientifico. E ora era ad un passo dalla maggiore età. Ad un passo – ok, un passo un po’ lungo, ma se considerava le lunghe distanze della vita, era veramente un passo -  dal finire la scuola. Con un mucchio di amici.
Due cose mancavano nella sua vita. E se ne accorgeva mentre ripensava all’infanzia, ai cliché, alle vecchiette stronze del paese (compresa sua nonna) – pace all’anima loro -.
Primo, gli mancava l’amore. E lui aveva voglia di innamorarsi, di innamorarsi veramente e sul serio e, insomma, aveva diciassette anni (ad un passo dai diciotto), poteva mantenere una relazione stabile a diciassette anni (ad un passo dai diciotto).  
E, secondo, gli mancava il suo miglior vicino. Anche se riconoscere nel bel ragazzo alto dagli occhi verdi , che ascoltava Marilyn Manson a tutto volume nella sua camera, il vecchio compagno di giochi, era oggettivamente difficile. Ma in fondo poteva farcela.
Lui credeva fermamente nell’amore, in ogni sua forma. Se, all’epoca – quando era solo un pischellino pieno di grinta ma privo di reali possibilità – era riuscito a conquistare uno come Marco dell’ex 5H, poteva riallacciare i rapporti col suo vicino di casa.
Il fatto, poi, che Fa’, crescendo, oltre ad allontanarsi da lui, fosse diventato quantomeno bellissimo, non era importante.
Quello era importante per il primo punto: trovare l’amore.  

*

Mancava un passo al suo diciottesimo compleanno. Quindi mancava anche un passo al diciottesimo compleanno di Fa’. E un passo significava, rispettivamente, dieci e undici giorni.
Se fossero stati nello stesso circolo di amicizie,  sarebbe stato sensato organizzare un unico super mega party e festeggiare entrambi alla grande. Però, a meno che in dieci o undici giorni, non si fosse accorto dell’assurdità di andare in giro con magliette rigorosamente nere con inquietanti individui stampati sul davanti e altrettanto inquietanti nomi di band stampate sulla schiena, la vedeva grigia. Certo, avrebbe sempre e comunque potuto tentare di organizzare una festa unica. Ma già si immaginava il caos. Lui odiava litigare e odiava quando le cose non avevano uno stato armonico assoluto. Conciliare anche solo i gusti musicali sarebbe stato impossibile.
Mailyn Manson si sarebbe mangiato a colazione la sua Lady Gaga. Magari condita da un etto o due di Madonna, che tanto pesava poco e come contorno ci stava sempre bene.
Alzò lo sguardo, puntando gli occhi sull’enorme poster che aveva creato lui stesso in omaggio al suo musical preferito, RENT.
“There's only now, There's only here, Give in to love, Or life in fear” si mise a cantare, leggendo la grande scritta gialla che svettava sullo sfondo nero.
Doveva rischiare se voleva ottenere qualcosa. Aveva solo dieci o undici giorni di tempo. Un passo. Un passo e sarebbe diventato maggiorenne. Un passo e anche Fa’ sarebbe diventato maggiorenne. E si sapeva cosa portava la maggiore età: divertimento a non finire, sballo, droga, alcool. L’avrebbe perso!
Era una corsa contro il tempo, in nome di una vecchia amicizia. E degli occhi verdi e bellissimi di Fa’, accidenti a lui.
Era deciso. Avrebbe rischiato la vita di Lady Gaga. Era sicuro che lei avrebbe capito.

*

Aveva valutato più volte la strategia da utilizzare.
Inizialmente aveva pensato al comodo FaceBook. Avrebbe potuto creare un evento e mandare l’invito a tutti. Poi, però, si era ricordato dei suoi seicentotrentuno amici, e aveva ipotizzato che non fosse poi un’idea così brillante.  
Così aveva optato per un classico invito vecchio stile. Ultimamente non si utilizzavano più, ma lui li trovava terribilmente carini.
Il cartoncino rosso per realizzarli era d’obbligo. Così come d’obbligo sarebbero state le decorazioni e i palloncini. Ne voleva tantissimi, da mettere ovunque.
E lì, nel preciso istante in cui la sua mente già si immaginava tra luci ad intermittenza argentate, pareti rosso fuoco, musica della Divina Gaga, intere tavolate di dolci al cioccolato e bombolette di panna montata, gli erano piombati addosso i problemi.
E quando i problemi si presentavano a bussare alla sua porta in più di uno, allora era arrivato il momento di numerarli. Perché la numerazione dei problemi era il primo passo per affrontarli. E sconfiggerli.  

*

Il problema numero uno consisteva nel fatto che Claudia aveva saputo da Giulia che il fratello metallaro sarebbe andato a festeggiare il diciottesimo compleanno di Fa’. Venerdì diciannove.  
Questo, sostanzialmente, mandava a quel paese -  e quel paese, ne era sicuro, era pieno di puttane. Pace all’anima loro – il suo progetto di realizzare una festa comune.
“Non ce la farò mai!” mormorò afflitto, con la fronte appoggiata al banco di scuola costellato da citazioni di canzoni, disegnini creati per ingannare il tempo e piani di conquista appuntati per non essere dimenticati.
“Andiamo!” lo consolò Claudia, massaggiandogli una spalla. “Qui se c’è qualcuno che può tutto, sei tu!”
“Non sono Dio…”
“… appunto!”
Vale sollevò appena la testa, giusto per vedere Claudia sorridergli dolce.
Sapeva cos’era quel sorriso. Lo sapeva da… da quando Claudia aveva iniziato a rivolgerglielo e lui aveva iniziato ad impanicarsi e a farcirsi del suo panico come fosse stato un panino. Ne era pieno. Quando era vicino a lei aveva sempre paura di fare qualcosa che potesse urtare i suoi sentimenti.
… e le aveva appena raccontato di come non sarebbe mai riuscito a portare Fa’ alla sua festa .
Era una merda schifossissima. Ecco cos’era.
“Claudia, io-“
“Senti!” lo interruppe lei, continuando a sorridergli “Ok, non puoi organizzare una festa unica. E allora? Organizza la tua festa e invitalo! Non vedo il problema”
Vale la guardò. E se non fosse stato cotto di Fa’ – e non fosse stato farcito di panico – l’avrebbe baciata lì, al momento.
Il problema uno era stato risolto.

*

Il problema due consisteva nel fatto che lui aveva dato per scontato di poter fare la sua festa a casa.
Il punto era che, per quanto volesse loro bene e li amasse e bla bla bla, era ancora obbligato a vivere con i suoi genitori fuori di testa. Quindi la casa, quella a quattro barra cinque metri dalla casa di Fa’, non è che fosse proprio sua sua.
“Ti prego ti prego ti prego!”
Sua madre lo guardò alzando un sopracciglio. “Valentino, ti senti bene?”
Ecco. Sua madre era l’unica persona al mondo a chiamarlo in quel modo. Neppure sua nonna, quella del circolo delle vecchie pettegole megere, lo chiamava così. Perfino sua nonna aveva compassione di lui!
“Mamma, mi hai ascoltato mentre parlavo?”
Sua madre lo guardò per un istante, prima di sorridergli, colpevole. “Oh… stavo pensando ad altro!”
… e poi i suoi seicentotrentuno amici di Facebook gli chiedevano perché considerava i suoi genitori fuori di testa.
In momenti come quelli avrebbe voluto registrarli e mostrarli al mondo intero – ok, ai suoi seicentotrentuno amici. Non condivideva mai link personali agli amici degli amici, non era una cosa sicura -.  Le conclusioni erano facili da trarre.
Vale sospirò, ormai abituato a scene del genere. “Ti ho chiesto se posso fare una festa per il quattordici sera… senza te e papà…”
Sua madre sbatté le palpebre un paio di volte, prima di tornare a sorridere. “Ma certo tesoro! Ma non devi neppure chiederlo!”
Vale si trattenne dall’esultare, ma…
Il problema due era stato risolto!

*

Il problema numero tre era nato quando si era ritrovato tra le mani gli inviti da consegnare. E si era accorto che avrebbe dovuto darlo anche a Fa’.
Dapprima aveva pensato di infilarlo nella cassetta della posta… ma faceva un po’ troppo amore segreto anche per lui.
Quindi aveva deciso di consegnarglielo in mano. A scuola. Dove erano presenti abbastanza persone e le possibilità della sua morte potevano essere ridotte drasticamente.
Così, non appena la campanella dell’intervallo aveva emesso il suo allegro trillo, si era precipitato fuori dalla classe con il cuore che batteva a mille e tra le mani il prezioso invito.
Quando arrivò alla classe di Fa’ respirò profondamente, salutando praticamente tutti quelli che stavano uscendo dall’aula e non sorprendendosi quando non vide Fa’ tra di loro. Lui non usciva mai dalla classe durante l’intervallo. Questo perché i suoi amici non frequentavano quella scuola… e Vale capiva che la prospettiva di girovagare da solo e senza meta non fosse delle migliori.
Così, quando entrò nell’aula, non si stupì di trovare una figura vestita di nero spalmata sul banco, intenta ad ascoltare l’iPod. Vale strinse il biglietto tra le mani e fece l’ennesimo respiro profondo.
Pace, calma e armonia. Pace, calma e armonia. Andiamo…
Si diresse con ampie falcate verso il fondo dell’aula e, senza battere ciglio, picchiettò con un dito sulla spalla di Fa’. Quando questo alzò gli occhi, però, la sua sicurezza e spavalderia svanirono in un fumo.
Puff.
E non c’era più niente. Neppure Vale.
Rimase ipnotizzato dagli occhi verdi che lo guardavano interrogativi, mentre i capelli neri e scompigliati creavano una nuvoletta morbida attorno alla sua testa.
Non se lo ricordava così bello.
Sì. Se lo ricordava. Ed era il motivo per cui si trovava lì. Uno dei tanti, ecco. Ma non così tanto bello.
Sarebbe morto giovane. Non sarebbe neppure arrivato ai diciott’anni.
“Beh?” borbottò alla fine Fa’, passandosi una mano sugli occhi.
Vale non sapeva cosa rispondergli. Beh cosa?
“Beh… beh… io…” Sveglia! Sembri una pecora! Vale scosse la testa, inspirando. “Volevo darti questo e dirti che se vuoi venire ne sarei molto felice e che se vuoi portare un tuo amico puoi farlo, o anche più di uno, non importa, puoi portarne quanti ne vuoi. Beh, sì, non troppi, altrimenti diventa un po’ un casino, comunque ecco… sì. Questo. E niente, scusami se ti ho disturbato, torna pure a dormire e, ciao, ok? Grazie. Ciao! Sì. Ciao!”
Quando vale si ritrovò fuori dalla porta con il fiatone e un’aria sconvolta, decise che avrebbe spuntato anche il problema numero tre, ma che, vista la figura di merda che aveva appena archiviato, non avrebbe in alcun modo festeggiato.  

*

Alla fine, ce l’aveva fatta.
Sì, ok, aveva dovuto affrontare anche il problema numero quattro, ovvero: i palloncini erano stati eliminati a causa dell’inconsistente paura di sua madre che qualcuno potesse rompere uno dei suoi preziosi soprammobili. Vale aveva dovuto accettare, pena la revoca dell’autorizzazione alla festa.
Quindi ok, niente palloncini rossi. Però c’era tutto il resto.
E poi, dopo aver risolto il problema numero tre, tutto era filato via liscio come l’olio.
Fino a quella sera.
Perché la festa era già iniziata e Fa’ non si vedeva. E lui era preoccupatissimo. Non aveva rischiato l’infarto per niente. Non poteva!
Afferrò la seconda birra della serata, quando vide la porta d’ingresso aprirsi. E non ebbe neppure bisogno di osservare l’intera figura per capire che quei piedi appartenevano a Fa’. Chi altri avrebbe potuto andarsene in giro con degli anfibi chiodati, ad una festa del genere?
Arrivò di corsa all’ingresso, rischiando di accogliere Fa’ con un bagno alla birra, e ridacchiò, felice.
“Hey!”
Fa’ lo guardò come se fosse stato piccolo, marrone e puzzolente.  
“Sei venuto!” continuò lui, imperterrito, già leggermente su di giri a causa delle birre.
Fa’ chiuse gli occhi per un istante, prima di sospirare. “Senti, io non ci volevo venire. I miei amici neppure. Mia madre, però, sostiene che può comandarmi almeno fino alla mezzanotte, quindi mi ha costretto. Ora, facciamo un patto. Tu lasci in pace me e io lascio in pace te. Ciao!” detto questo, si diresse spedito verso il tavolo su cui erano appoggiate le birre, mentre Vale lo guardava a occhi aperti.  
Ok. Era venuto alla sua festa.
Ok, non gli importava del regalo.
Però… non gli aveva fatto neppure gli auguri.
Vale sospirò, bevendo un altro sorso di birra e osservando la figura vestita di scuro poco distante da lui.
Era un compito difficile, ma lui poteva farcela.
Oh, sì.

*


Aveva perso di vista Fa’ quando aveva iniziato a cantare per la terza volta Bad Romance. Della Divina Gaga, ovviamente. Aveva pensato che fosse una buona idea trasmettere uno dei suoi tanti messaggi per l’amico – amico barra conoscente barra futuro amore barra vicino di casa. In quel momento, più vicino di casa che tutto il resto -, ma forse si sbagliava. Forse aveva sbagliato canzone. Ma romanticismo e personaggi inquietanti portati in giro con orgoglio sulle t-shirt non si sposavano bene.
Decise di fare un giro di perlustrazione, alla ricerca di Fa’, sperando che non se ne fosse tornato a casa. Non avrebbe dovuto lasciarlo da solo, probabilmente. In balia di nastri rossi appesi un po’ ovunque, torte al cioccolato e melassa che trasbordava da ogni tavolo. Aveva come l’impressione che quello non costituisse un habitat naturale, per Fa’.  
Stava per entrare in cucina quando lo vide, guardando fuori dalla finestra. Era seduto sugli scalini, a fumare. Da solo. Con il capo chinato in avanti e il cappuccio nero della felpa a coprirgli quasi tutto il viso.
Vale pensò comunque che anche così, ridotto ad una palla nera e rabbiosa, fosse veramente bello.
Sapeva che avrebbe dovuto impegnarsi per farlo suo. Aveva conquistato Marco dell’ex 5H, poteva conquistare anche lui. Non che si prospettasse una vittoria facile, ma poteva farcela. Aveva fede nel potere dell’amore. E nel fatto che fosse testardo come pochi. Mamma glielo diceva sempre.
“Hey!” esclamò, uscendo da casa e avvicinandosi a Fa’. L’altro si limitò a spostare lo sguardo dalle piastrelline che formavano gli scalini a lui. Vale lo considerò un buon segno. Almeno non era fuggito via a gambe levate.
Sempre vedere il mondo in positivo.
Sempre in positivo.
Era il suo mantra.
“Ti stavo cercando…” continuò, sedendosi accanto a lui e sfiorandogli il braccio con una mano. Lo sguardo di risposta che ricevette gli fece pensare che forse avrebbe dovuto togliere le dita dalla felpa nera.
Sempre in positivo, ricordalo.
“Adesso mi hai trovato” borbottò Fa’, aspirando dalla sigaretta.
“Già…”
Valentino sospirò, guardando davanti a lui, cercando di trovare un’improvvisa ispirazione per conversare con qualcuno che non voleva conversare con lui. Solitamente se la cavava bene, ma Fa’ non sembrava semplicemente ignorare ciò che gli diceva. No. Lui sembrava prenderlo, ucciderlo a colpi di pistola e poi, per assicurarsi che l’argomento fosse veramente morto, passarci sopra con i suoi anfibi chiodati.
Anche una persona positiva come lui alla fine si scoraggiava un po’.
“Ehm…” mormorò, mentre la sua mente lavorava a mille all’ora. Vista la tabula rasa, mille all’ora era ancora troppo poco.
Fa’ non si diede neppure il disturbo di guardarlo.
“… ti ricordi di quando eravamo migliori vicini?”
Ma sì, ripercorrere i bei momenti passati insieme funzionava sempre.
“Uhm…”
Vale si morsicò un labbro. Ok. Doveva impegnarsi un po’ di più, era evidente.
“A volte mi mancano quei tempi…”
Faustino lanciò la cicca della sigaretta lontano da lui, espirando fuori dalle labbra il fumo. “Ti manca scappare da quella troia della Duchessa? O passare minuti infernali nella cucina di casa mia, cercando gli ovetti Kinder con la paura che potesse entrare mia madre? A me no, sinceramente…”
Vale ridacchiò ai ricordi. “In realtà… è più la nostra amicizia che mi manca… la Duchessa era raccapricciante allora, com’è raccapricciante adesso…”
“… ma adesso è lei che mi guarda sconvolta e aumenta il passo quando mi incontra”
Vale rise di nuovo, soprattutto nel percepire il tono allegro con cui aveva parlato Fa’. Ci stava riuscendo, lo stava facendo parlare! Ma soprattutto… gli stava facendo abbandonare lo sguardo assassino che lo terrorizzava a morte.
“Comunque…” proseguì Fa’, e Vale si ritrovò nuovamente catturato, “… ogni tanto ci ripenso anch’io. Era tutto più facile, di sicuro…”
Vale guardò le sue mani torturarsi a vicenda. Forse era il momento di esporsi un po’ di più.
Dai dai dai. Puoi farcela.
“Sai… è un po’ il motivo per cui ti ho invitato, oggi…” mormorò, insicuro “… mi piacerebbe ritrovare tutto quello…”
In una commedia romantica, a quel punto, Fa’ si sarebbe girato, avrebbe esclamato ‘Anch’io!’, si sarebbero abbracciati, baciati, rotolati sugli scalini e il film si sarebbe concluso su una panoramica di loro due stesi a terra a pomiciare.
Fa’ lo guardò con un’aria un po’ interdetta.
Quella, decisamente, non era una commedia romantica.
“E tu mi hai invitato al tuo compleanno perché, sostanzialmente, volevi parlarmi di nuovo? Ma lo sai che abitiamo a cinque metri di distanza, sì, te lo ricordi?”
“Beh…” che cosa poteva dire? Aveva ragione. Ecco. Sì. Aveva ragione. “… hai ragione. Però… non lo so, siamo cambiati molto in questi anni.”
Fa’ lo guardò per un attimo, prima di stirare le labbra in un sorrisetto che Vale trovò adorabile. E notò che gli si formavano le fossette sulle guance quando sorrideva.
“Direi di sì… tu canti Lady Gaga!”
“Hey! Non c’è nulla di male in lei! È favolosa!”
Fa’ scosse la testa, come se non valesse neppure la pena di ribattere, ma lui non se la prese. Stavano effettivamente parlando. Non poteva essere troppo pignolo, non quando era riuscito anche a farlo ridere!
“Senti…” la voce di Faustino lo riscosse dai suoi pensieri “… io credo che me ne andrò a casa. Tanto gli auguri te li ho fatti e il regalo non te lo porterò di certo, quindi siamo a posto…”
Aveva un tono allegro, un tono che faceva compiere strani rivoltamenti nello stomaco di Vale. Ma era una sensazione piacevole. E non aveva bevuto così tanto, quindi non potevano trattarsi dei primi sintomi di una nottata abbracciato al water. Per fortuna.
Vale sapeva bene cosa significava.
E la cosa non lo sorprendeva affatto.
“Te ne vai di già?” borbottò, seguendo Fa’ e rimettendosi in piedi.
 L’altro si strinse nelle spalle, fissando un punto indefinito oltre la sua testa. E a Vale fece piacere pensare che forse si trovava in imbarazzo a guardarlo negli occhi. O forse, il giardino era più interessante di lui. Non lo sapeva.
“Beh… ok… va bene… grazie per essere venuto, allora…” mormorò, incerto su come concludere il discorso.
Doveva dirgli tutto?
Dichiararsi e farla finita?
Insomma, pensava di essere stato anche piuttosto esplicito… aveva fatto del suo meglio per flirtare un po’. Non che avesse ottenuto grandi risultati, ma Fa’ sembrava un pezzo di legno, accidenti. Gli complicava l’approccio da persona sicura di sé.
Quando si riscosse, notò che Fa’ era già arrivato al marciapiede, pronto per fare quei quattro barra cinque metri che l’avrebbero riportato nella sua casa.
Vale guardò l’orologio. E sorrise.
Non era più il 14 febbraio. Non era più il suo compleanno… era il compleanno di Fa’.
“Aspetta!” esclamò, saltando gli scalini a due a due e rischiando di finire completamente riverso a terra, come un insetto spiaccicato.
“Guarda che non ti devi ammazzare. Ammetto che sarebbe stato quasi spettacolare, ma non c’è veramente bisogno…”
Vale sbuffò, guardandosi i jeans e constatando che erano ancora tutti interi. Per fortuna. Sua madre non sarebbe stata molto felice di spendere nuovamente trecentoventiquattro euro.
“Ah-ah, divertente. Comunque!” si mise in piedi, un sorriso ad illuminargli il viso “Auguri!”
Fa’ inarcò un sopracciglio socchiudendo leggermente le labbra, ma non emise alcun suono, tanto che Vale si chiese se avesse capito.
“Vedi…” proseguì allora, mostrandogli l’orologio che segnalava come la mezzanotte fosse passata da ben sette minuti “… oggi è il 15 febbraio! Quindi è il tuo compleanno, auguri!”
“Uh…” Fa’ si grattò una tempia. Non solo sembrava non saper cosa rispondere, ma nemmeno come rispondere. “Grazie... ?”
E Vale non poté fare a meno di sorridere davanti alla sua espressione dubbiosa – e, di nuovo, adorabile, accidenti. Quel ragazzo riusciva ad essere inquietante quando si aggirava per la scuola, così come carinissimo una volta che si sbloccava -.
Così, proprio perché le labbra dischiuse alla ricerca di parole che non arrivavano, il cappuccio per metà sulla testa e per metà abbassato, gli occhi verdi spalancati, lo rendevano irresistibile, lo baciò.
Lo afferrò per  il collo della felpa e se lo tirò vicino, abbastanza in fretta da non permettere a Fa’ di spostarsi.
Si era immaginato tante volte il momento fatidico, e, in tutta sincerità, doveva ammettere che nella sua testa era sempre stato tutto molto più romantico.
Le labbra di Fa’, però, erano proprio come nei suoi pensieri. Anzi. Migliori.
Queste erano reali, almeno.
L’idillio durò fino a quando Fa’ non lo spinse via con una forza tale da farlo barcollare all’indietro per qualche passo.
“Ma sei matto?” tuonò Fa’, guardandolo nuovamente con quello sguardo tremendo che riservava un po’ a tutti. “Tu sei fuori di testa, cazzo!”
“Io… volevo… io…” balbettò, intimidito dalla furia assassina che si trovava davanti a lui.
Ecco perché la gente lo temeva. E lui che aveva sempre pensato fossero le felpe con i tizi inquietanti sul davanti.
“Tu volevi cosa? Ficcarmi la lingua in gola? Ma sei scemo?!”
“Era… un regalo di compleanno…”  
… un regalo di compleanno?
Per chi? Non di certo per Fa’.
“Bel regalo di merda! La prossima volta tienitelo per te, grazie, mi accontento degli auguri. Cazzo!”
“Uh… allora, facciamo che era un regalo per il mio, di compleanno?” azzardò Vale, aspettandosi uno schiaffo da un momento all’altro. Sotto sotto, se lo sarebbe dato da solo, in quel momento.
Fa’ si limitò a storcere la bocca e a fissarlo sbigottito.
“Oh. No” esalò in un sospiro, continuando a guardarlo con occhi sgranati “No. No. No!”
Vale inclinò la testa di lato e arricciò le labbra. “Che c’è?”
“… senti!” borbottò agitato, dopo un istante di silenzio “Vediamo di chiarirci subito. Io… io non sono… non sono come te… ecco… proprio no!”
Vale lo guardò dubbioso, mentre Fa’ agitava le mani cercando di spiegare meglio il concetto, come se avesse avuto a che fare con un bambino di tre anni. O con un sordo
Vale non era sordo. E sicuramente non aveva tre anni, però non aveva comunque capito niente.
“Eh?”
Fa’ sbuffò, frustrato. “A me,” e si indicò, per sottolineare il concetto di base “non piacciono… ecco… non piacciono i maschi!”
Vale ridacchiò, capendo finalmente l’imbarazzo. “Oh… beh… tranquillo! Io non sono gay!”
“Mi hai appena baciato… E ti assicuro che io sono un maschio!” borbottò, alzando gli occhi al cielo. Vale lo trovò molto teatrale in questa sua esternazione di dolore. Gli piaceva.
“Ok, ok, sono bisessuale, contento?”
Fa’ lo fulminò con lo sguardo prima di inspirare profondamente, alla ricerca di un po’ di calma ed equilibrio, sperò Vale. Per la propria vita, più che altro.
“Bene. Sei bisessuale. Chiariamoci di nuovo: io no. No. No. No. Mi piacciono le ragazze, ok? Quindi… quindi non lo so, smettila di… di avere questa cosa-“
“Si chiama cotta” lo interruppe Vale, con un sorrisetto comprensivo, mentre Faustino borbottava tra i denti parole che non riusciva a cogliere. E forse era meglio.
“Ecco, questa cotta per me. Tanto… tanto non funziona… non va mica bene, ecco…”
Vale sorrise. Avrebbe voluto rispondergli ‘Secondo me sì’, ma probabilmente non avrebbe avuto un bell’effetto. Però, insomma, lui vedeva oltre. Lui dell’amore se ne intendeva.
E lì c’era parecchio per cui sperare. Non si sarebbe lasciato abbattere, di certo.
Fa’ rimase per un attimo a guardarlo, prima di girarsi in silenzio e riprendere a camminare.
“Sabato sera festeggi il tuo compleanno, vero?”
Fa’ si girò nuovamente verso di lui con un’espressione di panico sul viso. “Perché?”
Vale sorrise, allegro e soddisfatto. “Posso venire?”
“Non dovrei essere io ad invitarti?”
Scoppiò a ridere, davanti alla testardaggine di Fa’. “Beh, ma visto che non ci pensi tu, faccio da solo…”
Fa’ lo guardò stralunato, prima di scuotere la testa e fare un cenno con la mano, come per scacciare una mosca fastidiosa.
La mosca era lui. Ovviamente.
Vale lo vide girarsi e riprendere a camminare. Ancora un metro e avrebbe svoltato nel vialetto di casa sua.
“Non mi rispondi?”
Fa’ non si girò.
Però, Vale non riuscì a non sorridere quando sentì un “Fa come vuoi!” borbottato provenire dal buio davanti a sé.

Un anno dopo
“Certo che non puoi proprio fare a meno di rompere, eh…”
“E tu sei più antipatico di una zanzara tzé tzé! E ti assicuro che le zanzare tzé tzé sono molto antipatiche.”
“E i tuoi insulti fanno schifo.”
“Però almeno sono simpatico!”
Vale guardò di sottecchi Fa’ portarsi una manciata di popcorn alla bocca, senza degnarlo di uno sguardo. Così, perché gli andava e perché non voleva essere ignorato, gli lanciò un popcorn addosso, che trovò il suo nido nei riccioli neri di Fa’.
L’altro lo guardò con un’aria fintamente sconvolta, prima di lanciargli addosso un’intera manciata di popcorn.
“Hey, io te n’ho lanciato solo uno!” Protestò, cercando di difendersi dall’attacco.
“Sì, beh, io faccio le cose in grande.”
“Vedi! Sei antipatico! L’ho detto che sei antipa-“ Vale non riuscì a terminare la frase. Fa’ gli aveva tappato la bocca in grande stile.
No, non con una manciata di popcorn, quelli arrivarono dopo, una volta che Fa’ ebbe deciso di far terminare il bacio.
Vale, però, evitò di protestare. Fa’ era di buon umore, lo si vedeva dal luccichio negli occhi e dal fatto che gli tenesse testa con gli scherzi e non minacciasse di ucciderlo in modo doloroso.
Si accoccolò contro Marilyn Manson – sì, era la felpa di Fa’, ma rimaneva sempre dannatamente inquietante quando la guardava da così vicino che, se il suddetto signor Manson avesse avuto dei brufoli, probabilmente se ne sarebbe accorto – e sospirò, riprendendo a  vedere Edward Mani di Forbice. Incredibile come, col tempo, avessero scoperto di riuscire a trovare tantissime cose in comune.
Vale osservò da sotto le ciglia Fa’ asciugarsi una lacrima con la manica della felpa.
Sì. Tantissime cose in comune.

*

(*) Citazione di Aristotele.

Note dell’autrice: Finita ;O;
Prima originale che effettivamente pubblico e probabilmente anche l’ultima, perché se non ne ho mai pubblicate c’è un motivo :P Comunque, questa volta mi andava, quindi eccola qui =)
Betata da quella santa donna di Liz, perché se avessi dovuto anche rileggerla sarei impazzita.
Spero che vi sia piaciuta ^_^
A presto!

[EDIT] Nel caso arrivaste qui dal LJ e non foste iscritti ad EFP, potete chiacchierare con me in questo post: QUI. Non ci avevo pensato, perché sono abituata a tenere separati Livejournal ed EFP, però visto che mi è stato chiesto, ho pensato di editare =) [/EDIT]
   
 
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